Era il 2011, mi trovavo sul tetto di una casa grande, gialla e pietrosa. Avevo appena lasciato una città luminosa e fredda, ero tornata a vivere nei pressi di questo vasto variopinto e odoroso pelago. Pochi giorni prima, dalle due care amiche con cui avevo diviso la mia casa romana, avevo ricevuto in regalo per il mio compleanno l’ultimo romanzo di Franzen, Libertà.
Improvvisamente, a metà libro, trovai la ragione di tante cose, la sotterranea logica di una relazione, la cura per arrestare un male che credevo curabile, un sollievo per aver capito un poco, per poco, quell’incastro di emotivi meccanismi producente tante reazioni dissimili, urtanti.
Non dirò se il male sia stato fermato o se al contrario abbia continuato ad avanzare, fino a divenire marcio. Non è quello che conta ora. Quello che conta è che in quel momento io, da sempre lettrice onnivora e vorace, realizzai forse pienamente, per la prima volta, che un libro ti salva la vita, anche solo per qualche settimana. E se non te la salva te la spiega. Se sei pure fortunato, nel viaggio delle sue pagine, puoi anche scorgere il sentiero della catarsi, ben prima dell’ultimo rigo.
E chiudere il volume, fare un bel respiro, andare a passeggiare, e pensare che se qualcuno l’ha potuto scrivere così bene, se si è potuto descrivere, quello che ci angustia è comunque già padroneggiabile. Difficile, complicatissimo, doloroso, lacerante, ma del tutto padroneggiabile.
I primi titoli:
Beppe Fenoglio, Una questione privata
Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi.
Prossimamente.