Cose divertenti che capitano quando lavori nel settore umanistico.

Ora, non dico che mi sono capitate solo cose divertenti, mica si può essere sempre così fortunati. Ogni tanto il caso (e chi altro?) mi ha anche fatto incappare in proposte di lavoro assai serie, collaborazioni estremamente professionali, prestazioni di lavoro retribuite secondo il giusto o dove io ho potuto chiedere quello che secondo me era il giusto, secondo le mie capacità e mettendo a tacere la mia maledetta modestia e il pensare “oddio il vile denaro accanto alla mia nobilissima arte”! Con queste opportunità serissime ci ho mangiato, pagato affitti e mi sono anche concessa più spesa biologica e vestiti slow fashion di quanto fosse permesso a chi si trovasse nelle mie condizioni, ma questa è un’altra storia. Qui non voglio parlare di situazioni serie e lavori ben pagati. Qui voglio riferirmi solo a cose spassose.

Dunque.

Ricordo me, fresca (ma in via di stagionatura) di Laurea Magistrale, vagare per l’ufficio dei tirocini della facoltà di Lettere e Filosofia di Roma, la meravigliosa Babele di tutto, ed essere rimbalzata subito agli uffici del Comune di Roma, col mio vestitino a fiori leggero, i miei piedini 39 e mezzo frementi di nuove avventure e i miei sogni di cominciare a lavorare – in cambio quasi di nulla, perché c’era la crisi, di già – nel settore dell’editoria e del giornalismo. Perché pensavo che gli antropologi dove li metti stanno bene, si adattano, sono come l’acqua che prende la forma del contenitore, mentre lo corrode (problematizzandolo, ovviamente) piano piano dall’interno; sono come gatti di strada (ma anche di casa) che si fanno prendere in braccio e poi graffiano, ma poi sfoderano quegli occhioni e gli si perdona tutto. Perché noi antropologi ci adattiamo ma non abbassiamo la guardia mai. Mai. E siamo graziosi, si perdona tutto agli antropologi, il loro questionare tutto, la loro misantropia, la riflessività applicata anche ai gusti di gelato, all’aver trovato una brugola in più con l’ultimo Kallax ordinato. E poi sì, l’antropologia l’amavo ma il primo amore della letteratura e della scrittura non l’avevo certo dimenticato.

Ora, non ricordo la faccia di chi c’era dietro lo sportello, non ricordo neanche se ci fosse un uomo, una donna, un cavaturacciolo o un leone marino, ma ricordo le parole. Ricordo che le mie domande di tirocinio in quei settori vennero respinte perché essendo laureata in “Lettere – Antropologia” e non “Lettere – Letteratura”, non potevo garantire di saper scrivere. Che con la mia laurea avrei però potuto tentare qualcosa nell’assistenza sociale. Con la mia laurea potevo sopravvivere nella giungla o a Mikonos in alta stagione (mi ero laureata con una tesi in Etnologia delle Culture Mediterranee), ma non cominciare a lavorare per una casa editrice o un giornale anche solo in cambio, all’inizio, di un mero rimborso spese, e poi si vedrà.

I sogni non muoiono solo all’alba, ma anche in tarda mattinata, anche su un autubus scalcinato e vuoto che corre lungo il Circo Massimo. Pochi mesi dopo ero a Parigi, a ricominciare da capo per una strada che allora mi sembrava una benedizione e invece era la via verso il girone dei suicidi (professionali). Anche là, grasse risate.

Ma perché, perché, perché, andare così lontano nel passato?

Perché non pescare a piene mani negli accadimenti degli ultimi mesi?

Come l’offerta di lavorare come interprete italiano-inglese-francese-italiano per un convegno di *bumbambum* (nome omesso per ragioni di privacy), cinque giorni, a quindici euro l’ora. Ma possiamo arrivare a venti (per un lavoro del genere la tariffa minima è di 80 euro l’ora). No? Tranquilla, fuori c’è la fila di chi prenderà il lavoro al posto tuo e contribuirà a mantenere bassa questa tariffa. Avanti un altro, altra, altri.

Come “vorrei che facessi delle foto alla presentazione del mio ultimo libro” – e io cancello il mio impegno preso settimane prima per quella sera – e qualche giorno dopo, “l’editore non vuole sborsare cento euro per le foto, mi dispiace, le foto le fa gratis mio nipote/cugino/cognato/suocero/padrino di battesimo/sarto/fruttarolo che è architetto”.

Come “Cara Virginia, ho avuto il tuo contatto da *bumbambum* che mi ha parlato della tua professionalità come traduttrice e del tuo ottimo portfolio. Vorremmo tradurre in italiano direttamente da questa lingua parlata da poche centinaia di migliaia di persone al mondo il libro *bambumbim*. Potresti mandarci un tuo preventivo? Certo, subito, grazie di avermi contattata! Wow. Con il mio dottorato potrei andare ad allevare capre ormai, forse neanche quello, ma mi sto affermando come traduttrice! Settore editoriale, eccomi che torno! E non devo neanche mutarmi in acqua o gatto! Non devo neanche graffiare, o fare gli occhioni.

Voi li avete sentiti più? Non so, magari hanno scritto a voi. Perché a me non hanno più scritto, neanche per farmi notare quanto fossi stata avida nel pretendere quei 0,10 centesimi a parola. Ma poi, qualche settimana dopo ho visto il nome di un’altra traduttrice tra i vincitori di un’annuale competizione per fondi per la traduzione verso l’inglese come bridge language proprio di *bambumbim*. E il nome di chi non mi aveva più scritto, ancora, neanche per darmi della persona senza scrupoli che si approfitta di un settore sempre in crisi come l’editoria italiana, per la traduzione dalla lingua ponte all’italiano.

Che ridere.

O come quella volta che “vorremmo chiederti se fossi interessata a tradurre *bumbimbam*, non vorremmo tradurlo dall’inglese e sappiamo che da questa lingua parlata solo da poche centinaia di persone al mondo all’italiano ci sei tu, sei interessata? Certo che lo sono. Certo che ci sono. Ci sono solo io, per il momento, poi domani non so, ne sbucheranno altri come me, impazienti di divertirsi come me, di madrelingua italiana come me, che sanno scrivere bene come me. Che sono anche scrittori, come me. Ma ora ci sono io. Non che la cosa abbia ormai importanza, data anche la velocità di apprendimento dell’intelligenza artificiale (ma l’IA, si diverte come me? Non credo. Beccati questo IA). Quindi, io ci sono, sempre, ma non ci sono loro, o meglio ci sono ma un po’ defilati, del tipo: il progetto si fa, il libro si pubblica, ma la traduzione deve essere pronta in pochi mesi. Sì, l’editore è un po’ lento con le mail, diciamo che non le legge e non risponde, ma tu intanto comincia perché sennò non ce la facciamo. Ah, vorresti sapere quanto sarai pagata? Ah, vuoi fare tu un preventivo? Io so che più di xxx in passato non hanno pagato per la traduzione, sai sono una piccola casa editrice, ma molto prestigiosa eh! Quindi sì, tu fai pure il tuo prezzo, ma poi loro potrebbero rifiutare e trovare qualcun’altro… Comunque oltre la cifra di xxy non sono mai andati, ma era con quella famosissima traduttrice che di certo conosci e che ha tradotto xyz, e lei ha accettato comunque…! Eh, va così qua, qua è un lavoro che si fa per passione, io per quello che faccio dovrei essere pagata cinque volte tanto e invece… Il settore è così. Se lo vuoi fare dimmelo, altrimenti cerchiamo di tradurlo noi con l’autore che sa un po’ di italiano e poi lo aggiustiamo. Ah, sei ancora interessata? Ma vorresti un contratto prima? (Eh sì, che burlona che sono a voler sapere quanto mi pagherete). Ma si, che ti pagheranno, l’editore è lento con le mail, ma si farà sentire, stai tranquilla.

Sì, io sto tranquilla, e intanto mi diverto. Ho le lacrime agli occhi dal ridere.

Su tutti i “We regret to inform you” ricevuti poi negli ultimi anni da ogni istituto, istituzione, centro culturale, fondi pubblici e privati, residenze artistiche, anche dai sassi, con un picco incredibile nel 2022, non scrivo, perché poi potrei anche morirci di risate. E forse un po’ già lo sono, in fin di vita (professionale).

Ma volete mettere quanto mi sono divertita? Quanto ancora mi sto divertendo?

p.s. nella foto io che mi dissolvo. Sto ridendo ovviamente, non si vede per via della macchina fotografica davanti al viso, ma vi assicuro che rido a quattro ganasce.

I gatti di Split

Ci sono città gatte.

Istanbul è una di quelle. Roma pure, a modo suo, almeno la Roma delle rovine, di Largo Argentina, dei Fori, della Piramide, luoghi di cui i gatti sono custodi. Rivedere dopo tanti mesi le foto di Split, foto su pellicola, scatti di cui mi ero quasi dimenticata, come accade tutte le volte che uso la macchina fotografica analogica, mi ha ricordato che anche Split (Spalato) lo è. Ma lì la loro presenza è diversa da quella di Istanbul, di Roma. I loro passi non si mischiano a quelli delle persone, agli scricchiolii delle porte, non intonano cori con le voci che li chiamano. I loro passi tracciano traiettorie mute e lunghissime per vicoli sempre più disabitati, perché a Split, nella parte vecchia di Split, non ci vive quasi più nessuno, le stanze sono vuote, i materassi freddi, mentre d’estate, invece, ci dormono in troppi, in troppi passano e vanno, e non sono silenziosi come i gatti. Forse con i gatti neanche ci parlano.

Sinceramente non ricordavo di averne fotografati così tanti mentre ero a Split per SpLitera, per vedere dove la mia cartolina era arrivata, per parlare di Mediterraneo, e scoprire questa città pietrosa in una stagione fredda, e poi riscoprirla di nuovo, uno sguardo in due tempi si potrebbe dire, dalle foto sviluppate solo molti mesi dopo.

No, non ho fotografato solo gatti, ma il fatto che non si vedano nella foto, non esclude che c’erano, magari un po’ fuori dall’inquadratura, magari dietro. Un gatto c’è sempre. E per fortuna.

Viaggio, la vigilia. Pensando ad altri viaggi. Parlando di altri viaggi.

Ben cinque anni che non viaggiavo ad agosto – e Roma non fa testo, Roma è come uscire da casa mia, percorrere un corridoio di ore e ritrovarsi, sempre, a casa mia. Ben cinque anni. Domani sarà ancora la città bianca, e dovrei rispolverare almeno il mio cirillico, allargare il mio vocabolario qualche parola in più oltre doručak, burek, voda e vidimose. E mentre la valigia attende di essere riempita nel modo meno intelligente e più frivolo possibile (la mia terapia della frivolezza è sempre là) ho pensato che in questo mese di viaggi per tanti altri come me, in quello che è il mese dei viaggi, il mese che per molti anni ho sempre identificato con un paese arroccato in alta collina, circondato dal verde, battuto da piogge, il mese del “portati un giacchetto che fa freddo”, agosto, sì, agosto! ho pensato di fare una breve lista di tutte le altre volte che ho scritto di viaggi. Non pensate di trovare cose come dieci cose da non perdere a…, cosa vedere, cosa fare e cosa mangiare a. O la descrizione impeccabile e utilissima di come arrivare, come girare, dove dormire. C’è già chi lo fa meglio (e meglio di migliaia d’altri) e con più disciplina e metodo di me. Con più attenzione per i dettagli, più cura per il proprio pubblico di lettori. Io no. Io, come dice lei, non si sa mai da dove arrivo e con quali mezzi. La descrizione migliore che mi sia mai stata data. Vale per tutto. Un passepartout. E se non so bene da dove arrivo e con quali mezzi non posso che restare sul vago, girare in tondo, fermarmi più del dovuto in posti che tanti neanche considerano: se mi leggete mettete in conto queste soste, se mi leggete vi perdete. Leggetemi se volete perdervi. Scrivo sui miei viaggi così come camminerei nella nebbia, per ore, senza fermarmi neanche per un bicchiere d’acqua, cogliendo ombre, forme, cercando di diradarla a mani nude, mescolando tutto quello che incontro con l’oltre che ogni luogo sempre evoca, la memoria di posti che si sono lasciati troppo presto, ma che nonostante tutto continuano ad abitarci. Ogni viaggio, anche in un posto nuovo, è per me sempre un ritorno, una lettura tra le righe, la scoperta di strade che avrebbero potuto essere la mia quotidianità, se e solo se.

Oddio, poi qualche posto bello da vedere e qualche altro dove fermarsi a mangiare ce l’ho pure messo eh. Non sono completamente sprovveduta. E dunque, voilà!

Sulla città bianca, la bellissima Belgrado (e dintorni) in attesa del terzo racconto, di giri ce ne sono già due:

Da Est a Ovest, non posso non fermarmi nella mia Roma, una città dove mi sembra di non tornare mai davvero, ma da dove forse non sono neanche mai completamente partita, dove sono sempre, anche quando sto lontana:

Roma che è sempre il punto di partenza per qualcos’altro, come le terme, altri mari:

Un po’ più a ovest, sul margine dell’oceano, la bellissima, gialla (come la crema dei quotidiani pasteis de nata e la limonata), rossa d’uovo, multicolore, straordinaria Lisbona (con una punta a Sintra):

Oltre oceano… Toronto! Il viaggio per l’International Festival of Authors (dove Teodor era stato invitato) e del jet-lag (il mio) più lungo della storia dei jet-lag. Il viaggio del mio incontro con scrittori nativi canadesi. Chi dice che scrivere non ti porta da nessuna parte?

Sempre per motivi letterari (e per sfuggire all’orrido caldo dell’agosto maltese) c’è stata anche Helsinki con la sua pioggerellina e i suoi magnifici 15 gradi estivi. Helsinki e un salto a Tallinn, già che c’eravamo.

Anche l’antropologia fa viaggiare. Ecco un fugacissimo ricordo, impalpabile come un fiocco di neve, di quei due giorni a Innsbruck.

E infine Parigi, Parigi igi igi, come posso dimenticare Parigi? Tornerò mai a vivere a Parigi?

E presto, presto vagherò tra le righe di luoghi non ancora messi nero su bianco, come Amsterdam, Torino, Split, Dubai. E Malta. Forse è il caso che qualcosa che non siano lagne su questa benedetta isola la scriva pure, a un certo punto.

Buon agosto. E spero che dove sto andando piova almeno un po’.

Perché per tanti anni della mia vita agosto era il mese delle piogge. Non è agosto, senza pioggia.

In viaggio, prima del viaggio.

Molti anni fa, mi mettevo in viaggio prima di partire. Aprivo la valigia, di solito una valigia grande – sarei diventata brava a ridurre e sottrarre solo col tempo le cose superflue, mentre le necessarie si sottraevano da sole, divenendo superflue – e la sistemavo per terra o sulla scrivania. Cominciavo dunque a riempirla già qualche giorno prima della partenza, con calma, ragionando su quello che c’era, osservandolo, cambiandolo. Era un’operazione che mi faceva stare bene, che mi metteva già di buonumore ancora prima di chiudermi dietro la porta e dirigermi verso posti nuovi, o posti già noti che si sarebbero rinnovati nel mio nuovo sguardo.

Forse, in maniera figurata, dovrei fare lo stesso adesso. Non solo prima di un viaggio di pochi giorni o settimane, ma prima di proseguire questo tutto che vivo, che mi graffia, delude e che mi travolge senza che io reagisca quasi più, in cui mi sembra sempre di riempire questa sacca grossa, scolorita e bitorzulota che sono le mie giornate, con oggetti per lo più inutili, persone che inquinano l’aria, e umori che creano ristagni insalubri nella mia testa. Ogni tanto riesco anche a fermarmi, ascoltarmi e trovare posto anche per oggetti e persone che mi fanno stare bene, che trasformano gli stagni dei miei pensieri in luccichii marini. Il problema è che le cose e le persone che mi fanno stare bene, quelle che riempirebbero meglio il bagaglio delle mie giornate non fanno rumore, non urlano in faccia; sono silenziose, miti, lontane.

Non è sempre facile scovarle, ricordarsi di lasciare loro spazio, far loro presente di sgomitare un po’, con delicatezza, per passare avanti, farmi un cenno, di tanto in tanto, indossare vesti più sgargianti.

Mentre Olivia dormiva…

Lady Olivia ancora ignara dell’arrivo di Duke Orsino, esattamente un anno fa.

…O forse era sveglia e si stava chiedendo perché avessimo preso dall’armadio quella borsa che le fa tanto paura, perché è la borsa con cui di solito la costringiamo a lasciare il suo territorio per andare dal veterinario (quando sua maestà pelosa non riceve la visita a casa), o per prendere un aereo. Forse era sveglia e si era nascosta, e forse poi a dormire si era messa davvero mentre noi, a piedi, raggiungevamo un rifugio di gatti (Rescued Paws Malta, ndr) nelle campagne qui vicino con in testa gli occhi grandi e irresisitibili di un gattino, intravisto tra i tanti pronti per essere adottati. Quel gattino ce l’eravamo un po’ sudato, diciamo, in una lunga intervista il giorno prima, intervista che mi aveva messo addosso non poca ansia: e se poi salta fuori che non siamo adatti a tenere gatti? Chi glielo dice a Olivia dopo tutti questi anni? Come potrò ormai andare avanti io, che sono gattara da quando ho praticamente cominciato a stare in piedi da sola?

La prima immagine di Duke Orsino (o Orsino, o Orsetto o Pampepato), dopo aver superato l’intervista e avere avuto accesso alle foto dei gattini pronti per l’adozione.

Ma l’intervista era andata bene e così potevamo andare a prendere il gattino, quello a cui era stato dato il temporaneo nome di Milo (e che, non lo sapevamo ancora, lo stesso veterinario di Olivia aveva visitato, sverminato e spulciato qualche giorno prima, per di più credendolo una gattina – pretty girls, aveva detto a lui e alla sua banda di fratellini – ed etichettandolo poi però come un esemplare di felino ferocissimo e di cui era ancora assai spaventato quando, qualche giorno dopo, glielo avrei riportato per una visita: “Tienilo tu”, mi avrebbe detto, “l’altra volta ha tentato di uccidermi”. Orsino, questo eri tu, gattino tra i più dolci del mondo. Un gattino che incuteva terrore. Tu, con quegli occhi col kajal, quelle zampette e quelle orecchiette a punta).

Milo-Orsino lo avevamo “scelto” tra altri, lo avevamo “scelto” per quegli occhi grandi e luminosi, e il manto di quelle sfumature di neve e roccia per cui io ho sempre avuto un debole, perché sono gli stessi colori di gatti dolcissimi, fieri e intelligenti, come Kiwi e Grigetto, che avevo già avuto la fortuna di incontrare.

Lui non era molto d’accordo sulla nostra decisione. Anzi, proprio non ne voleva sapere. Ha provato a spacciare suo fratello per lui, e a farlo adottare al posto suo, scappava, si nascondeva, si ribellava con tutte le sue forze, che per dimensioni ed età non erano poche. A un certo punto, quando mi è stato consegnato, mi ha morso, soffiato e graffiato – mentre altri gatti facevano a gara per infilarsi nel trasportino lasciato aperto e farsi portare via. Ma io sono di coccio. Volevo lui. Volevo quegli occhioni. Quelle orecchie a punta.

Ma cominciavo anche a perdere, a poco a poco le speranze, guardandomi un po’ intorno in cerca di alternative. Non mi andava di costringerlo.

Se non ci voleva non ci voleva, pace.

Dopo quella reazione non proprio incoraggiante, tuttavia, lui non era tornato a nascondersi come prima, ma si era raggomitolato su una copertina gialla, all’interno di un contenitore di plastica sistemato su un carrello a un metro da noi e ci guardava. Ed è a quel punto che Teodor mi fa: “He blinked at me”. Aspetta, wait.

Fermi tutti.

Qualche speranza c’è ancora. Un gattino che ti strizza gli occhi è un messaggio dall’universo. La vita che prende un bivio inatteso. Con l’aiuto del tipo del rifugio proviamo dunque a riprenderlo, lui ancora si ribella, ma alla fine lo mettiamo nel trasportino. “Lucky boy”, gli dice lui, nell’accomiatarsi da quel micetto trovato appena dieci giorni prima a Mosta assieme ai suoi due fratellini (altrettanto forastici), con un bacio sulla fronte. Orsino continua a non condividere la nostra scelta, trasformandosi di nuovo e ancora di più in una palla di pelo soffiante, sbraitante, miagolante, urlante che cerca di fare a pezzi, dall’interno, la borsa, e continuando a esprimere il suo ferino, primordiale e ferocissimo dissenso per tutto il viaggio di ritorno, con me preoccupatissima per lui, per Olivia, per noi, perché non era così che me l’ero immaginata quella nostra piccola idilliaca avventura alla ricerca del nostro nuovo gattino. Gattino che per nulla al mondo avrei mai riportato indietro.

A casa, seguiti da un’Olivia assai curiosa e un po’ perplessa, lo mettiamo al sicuro, isolato, nel mio studio, con acqua, cibo e lettiera e là lo lasciamo. Lui non mangia quasi nulla, ma esplora intorno, butta giù dalla scrivania qualcosa e usa la lettiera, come il più diligente dei micetti. Dopo qualche ora ancora fugge, ancora ci evita, ancora si nasconde, ancora soffia, ancora è del tutto terrorizzato dal non sapere dove si trovi, con chi e perché. Lo lasciamo ancora tranquillo, con Olivia che da dietro la porta smania per sapere cosa stia accadendo. Poi, lentamente, a sera, forse stremato, lo troviamo accoccolato e apparentemente calmo sulla sedia girevole. Mi avvicino, gli faccio annusare la mia mano, gli appoggio un dito sulla fronte per accarezzarlo. Soffia ancora ma, allo stesso tempo, comincia a fare le fusa. Soffia e fa le fusa. Non sa più neanche lui cosa deve fare…

Il resto della storia parla di un gattino meraviglioso e affettuoso che cresce a vista d’occhio, che cresce quando non siamo in casa, che è nemico giurato delle mie piante, loquacissimo, che ama giocare con i tappetti del latte di mandorla, che si emoziona quando pulisco le verdure, perché sono altri potenziali giochi. Il resto della storia parla di almeno cinque mesi (cinque!) di suoi tentativi quotidiani e strappacuore di conquistare la bella e riluttante Lady Olivia, la quale, come la sua shakespeariana omonima, lo respinge, lo evita, gli soffia, lo tiene a relativa distanza finché la pertinacia di Orsino-Orsetto-Pampepato – e il freddo delle case maltesi – non la fanno cedere.

Il resto della storia è Olivia che non dorme più da sola.

Se la cosa le faccia piacere o meno, l’autrice di questo blog non è però in grado di dirlo con certezza. Olivia è Olivia, e anche se è felice della presenza di Orsino, non lo ammetterà mai.

All’anno che arriva domani

Caro anno nuovo,

Entra e mettiti comodo sul divano, se vuoi prenditi una tisana, una fetta di pandoro, un po’ di miele di castagno. Gli anni pari mi fanno sempre un po’ paura, soprattutto quelli che finiscono per 2, ma tutto quello che ci spaventa alla fine spaventa di meno, se lo guardiamo da altre prospettive, se lo affrontiamo con un cuore rinforzato.

Entra piano in casa, stanotte, per non spaventare Orsino. Ancora è molto timoroso e si nasconde quando sente passi nuovi sul pianerottolo e dentro casa. Olivia si affaccerà alla porta per vedere chi arriva. Accarezzale la fronte, falle qualche coccola, lasciale dei croccantini: è stato un anno non facile per lei, ma è rimasta dolce e meravigliosa.

E io ti chiedo solo questo, caro 2022, un cuore più robusto per resistere al ghiaccio dei legami che si frantumano all’improvviso senza una ragione, né la possibilità di porvi riparo. Dammi uno stomaco meno incline alla nausea vorticosa delle delusioni che arrivano alle spalle, un palato che non si faccia subito tanto amaro di tristezza per silenzi che non ci meritiamo – o crediamo di non meritarci – una schiena che non si pieghi sotto il peso di un’altra assenza. Rimuovi le ombre che sporcano i miei ricordi, fammi dimenticare tutto quello che ancora mi inchioda i passi al suolo. Non portarmi più di un ragionevole numero di notti insonni. Se non riesco a dormire, deve essere per gioia ed emozione. Nonno diceva che ero troppo docile e arrendevole, che dovevo essere un po’ più prepotente. Aggiungi anche un po’ di sana, innocua, utile spavalderia, dunque. Fammi essere allo stesso tempo al riparo ma non nascosta, resistente e delicata, come una conchiglia.

Non ho ancora capito, e sì che sono passati più di quattro decenni, se io sia, agli occhi degli altri, una persona difficile e da cui è meglio tenersi lontano, qualcuno a cui è facile rinunciare; oppure, al contrario, un’amica con cui fa piacere stare, e da tenersi stretta, nonostante le mancanze, le distrazioni, i crolli, i difetti. Fammi incontrare per la prima volta, o incontrare di nuovo, e più spesso, amici e nuovi amici che mi aiutino a capirlo. Perché non sono perfetta, tutt’altro. Ma so ascoltare. L’anno che sta per partire, tutto questo, un po’ l’ha capito. E gliene sono grata.

So che hai da fare e non ti trattengo oltre.

Sii il benvenuto 2022. Come gli altri anni che finivano per 2 non togliermi troppo, stavolta.

E se lo fai, portami subito qualcosa che riempia e scaldi presto quel posto lasciato vuoto.

Che a non far caso agli spazi vuoti non sono ormai più tanto brava.

V.

‘Is-Sriep Reġgħu Saru Velenużi’ and the (wrong) Great Expectations. Or: Even history is fiction (and tells its own stories)

Translated by Teodor Reljic

(Original post here)

When I embarked upon my research into the social and political memory of the post-colonial period in Malta over ten years ago, a lot of my interviewees betrayed their satisfaction at the promise of my project – namely, that it would finally serve to fill an historical void which marked the archipelago… and its library shelves. 

In other words, that my anthropological research could potentially offer them a ‘real’ and ‘impartial’ reconstruction of a series of recent facts which had up until that point escaped such sober consideration for a number of reasons, some of which were elaborated upon in lavish detail in journal articles and the biographies of political figures. 

In their eyes, I was the outsider free from local political bias, clientelism, family and village connections, and so capable of delivering a neutral and complete assessment of what happened from Independence onwards, without any skewed perspectives of interference, from one side or another. Marred by neither red nor blue. 

But while history has always played a central role in my research, being the good anthropologist that I am (and a political anthropologist, at that) meant that my intentions would have skewed towards a different path. Not so much towards a compilation of facts and events, but more towards the tracing of a mise en discourse (or even mise en intrigue redolent of a Proppian schema of heroes, anti-heroes and symbolic and ritualistic objects), of a population declaring itself marked with the incurable ‘sickness’ of an intrinsic, atemporal disagreement, the pillar of a (proudly) embarrassed cultural intimacy (see Herzfeld) and, at the same time, the key to an indispensable political patrimony. Apart from being a point of convergence between the individual and collective (and also cultural) memory. 

In any case, writing and transmitting that which is true or not true, or attempting to pinpoint which side or party was at more deeper fault and deserved the better portion of moral blame, did interest me, but only up to a certain point. The silences and omissions were what truly appealed to me – the persons to which they pointed to and those I was told to avoid, the differences among sources, the imbalance that characterised them, the facts which failed to crystallise into events. And then, the proemio, the long disclaimers which preceded our interviews, emphasising the difficulty, or risk, in revealing aspects of that particular past, the ambivalence which flavours all of the stories. 

In short, all that which lies beyond and around what they claimed to have experienced – also, what they claimed they were supposed to say about what they had been through, or what was necessary to claim, express or emphasise when talking about these experiences, according to a wider, oral (yet to be written) vulgata. 

Now, according to Geertz, the important thing is not to observe what people do, but what they think they are doing. Contini reminds us of the heuristic value in the fractures of the collective memory, while Ginzburg stresses that history is made up of not just the ‘true’ and the ‘false’, but also the fictitious

And so, ‘historical’ evidence is a somewhat loaded term. Before it can claim to be based on so-called solid sources (which will always be marked by a subjective process of selection, reconstruction and transmission, “historical narratives do not speak about reality – rather, about who constructs it” as Ginzburg points out), it needs to be articulated, in the past tense, along varied trajectories. 

Trajectories like the enargeia, the immediacy tied to eyewitness testimony as Polibio reminds us; or that of evidentia and inlustratio, concepts with Cicero ties to enargeia: recounting is, at the end of the day, the act of making once again visible and palpable that which no longer exists. Re-representing a fact from the past as if it were once again visible to the naked eye in all of its physical integrity and vitality. 

If we were to circle back to narrations and reconstructions of the past, we realise that the ‘as if contract’ is, in effect, a fundamental piece of the puzzle; it reminds us that fiction (be it rhetorical, narrative, poetic – even artistic) remains an equally useful tool in the search for truth. (After all, who’s to say that any given document or date was not produced ad hoc?). 

But as Ginzburg underlines, and as I also like to point out in a rather lengthy – and academic, but nonetheless intriguing – article… the truth is never the point of departure. At most, it’s the point of arrival. “Historians (and, in their own way, poets too) make a profession out of something which forms part of everyone’s daily lives: disentangling what is true, false and fictitious, which is the cornerstone of our being in the world”* 

Why is it that every time Malta is processed through fiction, it has to be done through a hyperreal lens that makes pageantry out of national identity?

Now, if even history itself is built on slippery trajectories, why burden an explicit product of fiction like Is-Sriep Reġgħu Saru Velenużi (A Vipers’ Pit) with historical responsibility, even expecting a granular degree of accuracy when it comes to the use of language, of accents and even the physical appearance of certain characters? Pointing out alleged shortcomings in representing a crystallised version of how things ought to be? Isn’t it a little bit like leaving a restaurant in a huff upon learning that the chef who baked your pizza wasn’t, in fact, Italian? Or assuming that the cast of a film set in France speak only perfect French from start to finish? Aren’t we fed up with all these homogenising stances on the basis of pre-conceived essentialised correspondences?

Where is the logic in taking to task a cinematic representation of a controversial period of Maltese history on the basis of rigid ideas of historical accuracy? All the more so when the film in question is already adapted from a fictional source – a novel – and that the very historical period it covers remains fraught and fragile even in the historical memory, with historians and their sources only shakily confident, at best, on their reckoning with it. 

Why is it that every time Malta is processed through fiction, it has to be done through a hyperreal lens that makes pageantry out of national identity? 

I make reference to some baker-fresh critiques of the film – and some which are less so – and which were published soon after the film’s release in local cinemas. There’s many legitimate critiques among them – don’t get me wrong – but others are also tellingly marred by a sense of arrogance and preconception, with some missing the point of the film almost entirely. 

Apart from the strand of criticism which betrays an amnesia of the ‘as if convenction’ between the author and the audience (see Iser), which asks you to not apply the same criteria of ‘true’ and ‘false’ that you would apply to an historical or ethnographic documentary, what struck me most keenly was how certain viewers expected the film to be thoroughly exhaustive when it came to the historical context in which it is set – both in terms of its 1984 and 2012 timelines. That certain things were not spoonfed, such as why one half of the population felt as though the island belonged to them, with the other half feeling as though they were suffering under the yoke of a de facto “dictatorship”. 

In other words, that the ‘good guys’ were not explicitly shown as having good enough reason to do what they did, and that the ‘bad guys’ did not appear to be all that bad (perhaps it’s because they weren’t to begin with?). Why doesn’t the film take sides? Or maybe it takes the ‘wrong’ side? Which faction does ‘A Vipers’ Pit’ align itself with? And so on and so forth.  

And that final question: Why does a group of Catholic fundamentalists indoctrinate a family man into serving as a kamikaze warrior of sorts, to be sent to kill the most important political figure in Malta at the time (a concept totally alien to contemporary realities, right? Right?).

‘A Vipers’ Pit’ remains ambivalent on all of this. It swerves around these questions, in an appropriately serpentine fashion. It leaves clues, trails and passages while showing us the past through the lens of a particular ‘present’ – that of 2012 – which already feels nostalgic, poised as it was at the edge of an abyss few would have been able to imagine. (Some who would have otherwise been able to recount it with a particular verve are, alas, no longer with us…) 

But ‘A Vipers’ Pit’ falls short of expectations… if what’s expected is a neatly packaged product ready for unproblematic export. Any hopes of a ‘balanced’, complete and correct representation of the ‘70s, ‘80s (and the ‘60s, too? What shall we do with them?), are left to crash-land on the rocks like a felled chimera. All those who walk into the cinema expecting to find a detailed and complete illustration, almost a manual (admit it, the desire for one is strong), of all of the gestures which animated the two sides during “our own Years of Lead”**, will emerge disappointed, maybe even embittered. 

That said, the film is far from perfect. I’ve never hesitated to point out its shortcomings to director Martin Bonnici (whom I thank for providing me the accompanying photos you see here) and to screenwriter Teodor Reljic, with whom I happen to share a life, a house and the caretaking duties of two wonderful cats

Among these one may list the infelicitous framing of an early scene outside a catechism class, as well as the initial flirtation between Noel and Frances (effectively leading to a love story that is altogether dull, but at the same time – who says that a love story in a film must be a love story redolent of film?) – neither of which lend appropriate weight and resonance to the dialogue. Then there’s also a scene delivered in Italian which I find to be just terrible – badly acted and utterly unconvincing, marred by an unforgivable lexical error that would have given away a non-Italian speaker in an instant; an awkward question posed by Frances to Noel towards the end – asking who the woman in a childhood photo is – which should have been phrased differently to avoid sounding so naive and embarrassingly forced. 

The excessively shaky dream sequences, the blood on the hands, the scant encounter between a young Noel and the snake (even if it is, in fact, a snake which appears only as a  child’s frightened reflex, ripe to be rendered as allegory and thus left open to many readings). 

Finally, the far too rushed way in which Richard’s ultimate fate is revealed – bereft of pauses and flashbacks; in fact, no suggestive imagery at all. There was something almost Homeric about the promise of seeing Richard one last time on the boat – a lonely figure overlooking a blackened sea. I would have kept it in. 

But I’ll stop there, and leave any further attempts at film criticism to the experts. 

Having said all this, however, ‘A Vipers’ Pit’ remains a great film. It really does. It certainly runs circles around the vast majority of Maltese feature films, which despite being prematurely celebrated, remain neither here nor there. Films which hardly inspire a rewatch, and in fact make a plunge back into Marsa traffic more desirable (Central Link too… yes, one will find traffic there as well). But not ‘A Vipers’ Pit’. You’d want to rewatch this one. Because of its powerful undercurrents, the hint of something which remains between the lines, like an unnerving voice, a poignant echo, a disquietude that escapes articulation, at least at first. 

The story slides under your skin, despite its many imperfections. Even by means of what it leaves unsaid, of what is half-mentioned. Maybe it’s because of this, its rapid and elusive brushstrokes, hued in violent colours to paint a tragic canvas populated by lives twisted out of true, suffocated and fated for repetition. And these are universal concepts. As much as other, more grandiose universal representations. 

Isn’t being locked into the tunnel-vision perspective of one side of a political war – blind to reason and the true motivations of the other side, and marked by violent tendencies – the cornerstone of political extremism? Isn’t the creation of an overly generalised idea of who the enemy is, their identity intermeshed with that of a specific group (not an “ethnic” one in this case, though it may as well be), often at the root of so much violence and conflict? And aren’t the same objects of hate often just pretexts and symbols, whose elimination is an act of power first and foremost, an act of substitution and reformulation on the part of a group keen to re-establish the same dynamics of power, control and the management of both symbolic and concrete resources? 

And on the subject of the killing of the king (Frazer, guys, Frazer!), there were also those who complained about the fleeting representation of Mintoff, who is effectively visible for just a few seconds, appearing as a mere silhouette in a window. 

But to my mind, this deliberate omission makes for an effective representation of the fog which still pervades local collective memory, and which, at the same time, negates any possibility of humanising (or individualising) the enemy. Which is expressed through shadows, disembodied voices, sudden gunfire outside a ‘kazin’, anecdotal accounts of injustices suffered, exile to Sicily, heavy-handed impositions on the educational sector (even if strengthening public education at the expense of private and religious schools feels like a reasonable enough endeavour), paper flyers and radio programmes which anyway signal the pervasiveness of political factionalism as a key component of tangible, mundane reality, la materia del quotidiano.

So there is actually a lot in there – a lot of Malta “to export”, and which finds parallels in other countries and places, and without needing a postcard or pocket encyclopedia which points to this and that, and which is a regrettable recurring feature of many local cultural products.

‘A Vipers’ Pit’ is also rather generous when it comes to the dialogue between power and speculation, and the bitter taste it leaves behind. The title sequence grabs you and refuses to let go, leaving you hypnotically suspended between immersion and fascination brought about by the story’s expert blending of past and present, right up until the final gut-punch (which you’d think would be the most violent one the film throws your way, until the dedicatory end card lands an even stronger blow), so tragically symbolic of what the island’s subsequent (and avoidable, goddamn it) destiny would have been from 2013 onwards. 

But there’s more. 

So you’re left there on the plush red cinema seat, to brood over a conflicting set of emotions, oscillating between the gaps that would have been filled had this micro-budget feature been given an even slightly bigger financial boost, and that which ‘A Vipers’ Pit’ has nonetheless managed to offer up, and as the end credits roll you can’t help but think that nothing could be more true than the fiction you’ve just witnessed. That this story hurts precisely because deep down, you’d wish it were really and truly a work of pure fiction, a cinematic invention. That turning back could be a viable possibility, that no lives, and no truths, would be murdered and encased in concrete, or thrown to the bottom of the sea – on screen or otherwise.

Then you leave the cinema (Eden in Paceville, say no more) and take in the surroundings. The de facto film set of cement, glass, misused money which trickles back to the few, laundering and speculation, and you realise that the film is not over yet. There’s one scene which remains, and which is set in 2021. You’re in it. Immersed in a totality so damnably tangible, suffocating and dark.


You realise that this is, ultimately, the truth. The truth of how things are – the final point of arrival. And there’s no exit here.

*Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 13

** “Our own Years of Lead”: a definition offered up by more than one person throughout the course of my research, and heartily welcomed by those, like myself, who share their date and place of birth with the kidnapping – a prelude to a (real) assassination – of the head of the Italian government in 1978. 

Is-Sriep and the (wrong) Great Expectations, ovvero anche la Storia è fiction (e racconta storie).

Quando più di dieci anni fa cominciai a fare ricerca sulla memoria sociale e politica del periodo post-coloniale maltese, una buona parte delle persone che mi trovai a intervistare non nascose la soddisfazione che quello che avrei scritto avrebbe finalmente colmato quel vuoto storico di cui l’arcipelago, e gli scaffali delle librerie, parevano particolarmente soffrire. In altre parole, che la mia ricerca antropologica potesse restituire loro quella ricostruzione vera e imparziale di una serie di recenti fatti da cui alcuni, per una serie di motivi anche doviziosamente illustrati in articoli di giornale o biografie di uomini politici, si erano fino a quel momento astenuti.

Ai loro occhi io ero la straniera libera da reti politiche, clientelari, famigliari e di villaggio in grado di redigere un resoconto neutro e completo di quanto accaduto dall’indipendenza in poi, senza sbilanciamenti, o intrusioni, né da una parte né dall’altra. Senza toni né rossi, né blu.

Sebbene la Storia abbia sempre avuto un posto centrale nella mia ricerca, da brava antropologa (e antropologa politica), le mie intenzioni erano tuttavia assai diverse, meno verso la compilazione di fatti e eventi e più verso l’inseguimento delle varie, contrastanti ed elusive tracce della mise en discourse (o anche mise en intrigue di sapore proppiano tra eroi, anti-eroi, oggetti simbolici e rituali) di una popolazione che si diceva segnata dalla ‘malattia’ incurabile d’un disaccordo intrinseco, atemporale, pilastro d’una (fieramente) imbarazzata intimità culturale (vedi Herzfeld) e, allo stesso tempo, chiave di un irrinunciabile patrimonio politico. Nonché punto di convergenza della memoria individuale e di quella collettiva (e culturale).

Insomma, di scrivere e trasmettere cosa fosse vero o non vero, o riconoscere la parte da cui effettivamente pendessero più colpe e richieste di risarcimenti morali, mi interessava sì, ma fino a un certo punto. A farmi gola erano piuttosto i silenzi, le omissioni, le persone verso cui venivo indirizzata e quelle che mi si raccomandava di evitare, la differenza delle fonti, la loro sbilanciata distribuzione, i fatti che non erano divenuti eventi. E poi i lunghi preludi che precedevano le interviste, veri e propri proemi incentrati sulla difficoltà, o il rischio, nel rivelare quel particolare passato, i sentimenti ambivalenti legati alle storie.

Infine, oltre cosa effettivamente le persone sostenevano di aver vissuto, anche quello che stimavano di dover dire di aver vissuto, o che era necessario dire che fosse accaduto.

Geertz dice che sia importante capire non cosa le persone che osserviamo facciano, ma cosa pensano di stare facendo. Contini mi ricorda il valore euristico delle fratture nella memoria collettiva e Ginzburg che nella storia non esiste solo il vero e il falso, ma anche il finto. E che, pertanto, l’evidenza storica, prima di cominciare a essere basata su fonti più o meno dichiarate solide (di cui però la selezione, la ricostruzione e la trasmissione è sempre soggettiva e risponde a interessi presenti, “le narrazioni storiche non ci parlerebbero della realtà, quanto piuttosto di chi le ha costruite”), soleva articolarsi, in passato, su tragitti diversi. Tragitti come quelli dell’enargeia, l’evidenza immediata legata a una testimonianza oculare, come ricorda Polibio; o dell’inlustratio e dell’evidentia, concetti che Cicerone accomuna alla stessa enargeia: raccontare è, tutto sommato, rendere di nuovo visibile e palpabile ciò che non lo è più. Ripresentare un fatto del passato come se fosse di nuovo sotto i nostri occhi, in tutta la sua forza, efficacia rappresentativa e vividezza.

Se torniamo alle narrazioni e ricostruzioni del passato, ci rendiamo conto che il come se sia, in effetti, un punto fondamentale; quello che ci ricorda che la finzione (che sia retorica, narrativa, poetica – perfino artistica) non è meno utile di una fonte e un documento per la ricerca del vero. (Chi ci dice, in fondo, che un documento, una data, non siano stati prodotti ad hoc?)

Il quale vero, come Ginzburg sottolinea, e come amo ricordare anche in un lungo articolo (è accademico, ma intriguing), non è mai il punto di partenza; semmai, quello di arrivo. “Gli storici (e, in modo diverso i poeti) fanno per mestiere qualcosa che è parte della vita di tutti: districare l’intreccio di vero, falso e finto che è la trama del nostro stare al mondo”*.

Perché, quando si racconta di Malta, tutto deve per forza tradursi nella perpetua e iperrealistica fiera dell’identità nazionale?

Ora, se anche la Storia poggia su sdrucciolevoli percorsi soggettivi e fittizi, perchè investire proprio un esplicito prodotto di finzione come Is-Sriep Reġgħu Saru Velenużi (A vipers’ pit) di responsabilità storica, ma anche veristica, oserei dire, nel caso dell’uso del linguaggio, dell’accento, o del ritratto di alcune figure? Puntare il dito sul non aver saputo reiterare a dovere un’immagine precisa e cristalizzata di come le cose si pensa dovrebbero essere? Non è come inalberarsi al ristorante quando si scopre che il cuoco che ci ha preparato la pizza non è italiano? O pretendere che in ogni film ambientato in Francia parlino tutti francese? Non siamo ancora estenuati da ogni preconcetta e omogeneizzante pretesa d’iconocità?

Perché accusare, e neanche tanto tra le righe, quella che è una verosimile rappresentazione cinematografica (un possibile tragitto, in definitiva, scelto tra molti possibili) ambientata in un periodo assai controverso (e per giunta tratta da un romanzo!), d’essere un’occasione mancata di fissazione storica e etnografica di un’epoca che ancora si presenta fragile e scivolosa nella memoria sociale – e di cui neanche gli storici (alcuni di loro testimoni diretti) si sono ancora fatti carico?

Perché, quando si racconta di Malta, tutto deve per forza tradursi nella perpetua e iperrealistica fiera dell’identità nazionale?

Mi riferisco ad alcune critiche fresche fresche, e ad altre meno fresche, pubblicate dopo l’uscita del film. Critiche legittime, ci mancherebbe, ma che, secondo me, hanno il sapore di spocchia, di pretesto, quando non sono escursioni del tutto fuori sentiero.

A parte quella che è apparsa come una diffusa amnesia dell’as if construction (vedi Iser), per cui a un prodotto di fiction (che sia un film, un romanzo, una serie, un racconto) non applichi gli stessi criteri di vero e falso che applicheresti a un documentario storico o etnografico, quello che appunto mi ha colpito è stata la delusione che la trama non fosse granché esaustiva nei riguardi del contesto storico e sociale (tanto nell’84, quanto nel 2012) e che non spiegasse a dovere perché una parte della popolazione trattasse l’isola come cosa propria, e l’altra sentisse di essere (o essere stata) sotto una “dittatura”.

Insomma, che i buoni non avessero sufficienti ragioni per fare quello che hanno fatto e che i cattivi non apparissero, ai nostri occhi, come davvero tanto cattivi – non lo sono stati, forse? Perché questo film non si schiera? O forse si schiera dalla parte sbagliata? Di quale fazione, esattamente, Sriep prende le parti? E compagnia bella.

E dunque perché, a un certo punto, quello che, tutto sommato, è un gruppo di esaltati fondamentalisti cattolici che indottrinano e mandano potenzialmente a morire un povero kamikaze (concetto peraltro totalmente avulso dalla realtà presente, certo, come no…), abbia progettato l’assassinio dell’allora figura politica più importante di Malta.

Su tutto questo Sriep fa il vago. Ci gira o, meglio, serpeggia, intorno. Lascia indizi, scie, varchi, mentre ci mostra il passato attraverso le lenti di un presente, il 2012, che è già nostalgia, perché in bilico su un baratro che pochi hanno saputo immaginare, e alcuni non sono più qui a raccontarlo.

Ma intanto l’appetito per un prodotto storico-identitario da esportare oltremare, o consegnare ai posteri, sembra aver lasciato molti a bocca asciutta anche questa volta. Ogni aspettativa per una rappresentazione bilanciata, completa e giusta degli anni ’70, ’80 (e i ’60, dove li mettiamo?) giace sulle rocce come una chimera a digiuno. Chi sperava di trovarsi di fronte a una dettagliata e completa illustrazione, quasi da manuale (non negatelo, su), di tutte le ragioni e i gesti che animarono i due schieramenti de “i nostri anni di piombo”**, esce dal cinema deluso, amareggiato.

Ora, il film non è certo perfetto. Io stessa non ho mai mancato di esprimere al regista Martin Bonnici (che ringrazio per le foto) e allo sceneggiatore Teodor Reljic, con cui divido vita, casa e cura di due splendidi gatti, le mie riserve su alcune scene.

Tra queste, le inquadrature all’uscita del catechismo e quella del primo flirt tra Noel e Frances (in effetti una storia d’amore un po’ scialba, ma in effetti dove sta scritto che una storia d’amore in un film debba essere una storia da film?) che non danno giustizia all’importanza fondamentale dei dialoghi; la scena in italiano sul battello che trovo pessima, mal recitata, per nulla convincente, con un grave errore lessicale da parte di chi dovrebbe passare per un italiano; la domanda che Frances pone a Noel quando estrae da uno scatolone una fotografia e chiede chi sia la donna ritratta con in braccio un neonato, domanda che andava formulata diversamente e che invece risulta di un’ingenuità e forzatura imbarazzanti; la resa troppo traballante dei sogni, il sangue sulle mani; la scena troppo sbrigativa dell’incontro del piccolo Noel con il serpente (anche se effettivamente un serpente che ci appare solo come spavento, racconto di un bambino, mito e pittura è un’allegoria interessante, aperta a molte letture).

Infine, il modo frettoloso, senza pause, in cui viene rivelato il destino di Richard, solo a parole, senza altri flashback, anche vaghi ed elusivi. Trovavo la scena di lui in barca, lasciato da solo di fronte a un mare completamente nero, molto efficace emotivamente, intrisa di una tragicità quasi omerica. L’avrei lasciata.

E qui mi fermo, lasciando osservazioni cinematografiche e stilistiche più specifiche a chi ha più competenze di me.

Detto questo, Sriep resta un gran bel film. Davvero. Ben oltre alcuni recenti lungometraggi girati su quest’isola, fin troppo prematuramente celebrati, e che non sono né carne né pesce. Film che non ti viene proprio voglia di rivedere una seconda o terza volta; piuttosto preferiresti essere imbottigliato nel traffico di Marsa, o in quello del Central link (sì il traffico esiste anche là). Sriep no. Lo rivedresti. Perché senti che qualcosa di potente c’è, sulle righe, e tra le righe, qualcosa che resta, come una voce scomoda, una eco struggente; un’inquietudine a cui, almeno per i primi istanti, non riesci a dare un nome.

La storia ti rimane dentro, bene o male, anche tra le sue molte imperfezioni. Anche nel suo non detto, nel quasi accennato. O forse proprio grazie a questo, grazie a quelle pennellate sfuggenti e veloci, ma dai colori violenti, date a un tragico affresco di vite intorcigliate, soffocate, condannate alla ripetizione. E questi sono concetti universali. Come universali sono altre possenti raffigurazioni.

Non è la chiusura in una prospettiva troppo ristretta e di parte, cieca alle ragioni e alle motivazioni dell’altra fazione, e in fondo altrettanto violenta, la chiave di ogni schieramento politico estremista? Non è la creazione generalizzante del nemico, la sua individuazione in uno specifico gruppo (che qui non è etnico, ma è trattato come se lo fosse) la causa di tante violenze e conflitti? E gli stessi obiettivi dell’odio non sono a volte pretesti, simboli, la cui eliminazione è prima di tutto un rituale di potere, un atto di sostituzione e rifondazione da parte di un altro gruppo che vuole stabilirsi sulle stesse posizioni di potere, controllo, gestione di risorse simboliche e concrete?

A proposito dell’uccisione del re (Frazer, ragazzi, Frazer!), c’è anche chi ha lamentato una rappresentazione sfuggente di Mintoff, figura che in effetti intravediamo appena, e per pochi istanti, come ombra di fronte a una finestra.

Io credo, invece, che non potesse esserci rappresentazione più efficace se non attraverso questa opacità che rispecchia perfettamente la nebbia che ancora pervade la memoria collettiva locale e, allo stesso tempo, allontana qualsiasi possibilità di umanizzazione (e individualizzazione) del nemico; il quale resta e deve rimanere un’ombra, una voce, il rumore improvviso di spari fuori da un kazin, il racconto di un’ingiustizia subita, esilii in Sicilia, imposizioni nel settore educativo (anche se sostenere l’istruzione pubblica a scapito di quella privata e religiosa aveva e sempre avrà un suo perché), carta straccia e trasmissioni radiofoniche che indicano comunque la pervasività del politico come materia del quotidiano.

Solo riflettendo su tutto questo, ci si rende conto di trovarsi già di fronte a molto, che di Malta, viene già “esportato molto” (un molto che non parla solo maltese), senza la solita lista da cartolina o da enciclopedia economica con la spunta di questo o quello, di cui sono schiavi molti prodotti culturali locali.

Se poi ci mettiamo l’amaro che lasciano in testa certi discorsi di potere e speculazione, e là è quasi accessorio da che parte vengano e su quale luogo si accaniscano, credo che Sriep sia molto generoso. I titoli di testa e la bella ambientazione iniziale cominciano già a rimescolare lo stomaco e lo tengono sospeso in un misto di coinvolgimento e fascinazione per la ben costruita alternanza tra passato e presente, fino al pugno della penultima scena (che pensi sia il più violento prima che la dedica finale ne sferri un altro ancora più forte) così tragicamente simbolica di quello che dal 2013 in poi sarebbe stato il maledetto destino (evitabile) di questo arcipelago.

Ma non è finita, c’è di più.

Sei là dunque, sulla tua poltrona rossa, con sentimenti misti, oscillanti tra le lacune che un budget almeno basso (e non micro, perché anche questo va detto) avrebbero permesso tranquillamente di colmare, e quello che comunque Sriep ha saputo confezionare, darti e suscitarti (molto, e non è da tutti), e mentre scorrono i titoli di coda non puoi fare a meno di pensare che non ci sia nulla di più vero di quella finzione; che quella storia fa così male perché, in fondo al cuore, e neanche tanto a fondo, vorresti che fosse realmente, davvero, solo pura invenzione in ogni suo fotogramma; che si potesse tornare indietro, che nessuna vita e verità fossero uccise e seppellite nel cemento, o in fondo al mare, né sullo schermo, né altrove.

E poi esci dal cinema (l’Eden a Paceville, ndr), ti guardi intorno e, tra tutte quelle scenografie di cemento, vetro, soldi male usati e per pochi, riciclaggio e speculazioni, ti rendi conto che il film non è finito, rimane ancora un’ultima scena, stavolta nel 2021, e che ci sei dentro, in un tutto così maledettamente tangibile, soffocante, buio.

E pensi che quella è ormai la verità, la realtà delle cose, il punto estremo e ultimo di arrivo. E che non se ne esce più.

*Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 13

** “I nostri anni di piombo”: definizione data da più di una persona durante la ricerca, e accettata con indulgenza da chi, come me, condivide la sua data e luogo di nascita col rapimento, preludio al suo assassinio, vero, del capo di governo italiano nel lontano 1978.

Olivia e Orsino. A participant observation.

Ora che finalmente scadenze e impegni di lavoro hanno perso un po’ di peso, posso finalmente dedicarmi al catwatching, alla miciografia, all’osservazione partecipante, chiamatela come volete, di queste due affascinanti, elusive e morbide creature che popolano casa: Olivia – gatta magnifica, maestosa, affettuosa a sua discrezione – e Duke Orsino, trovatello dolcissimo, affamato e dalle lunghe zampette. La convinvenza non è facilissima, i tempi di accettazione e tolleranza di Olivia (che è con me da otto anni) nei confronti di Orsino (con noi da appena tre settimane) oscillano tra l’incoraggiante, il tenero e l’irrimediabilmente disarmante. Magari il tempo, e mesi più freddi, la faranno avvicinare al neo micetto. Nel frattempo, sono adorabili anche quando lui vuole per forza afferrarle la coda, le ruba il cibo, le occupa tutte le scatole, le nasconde i giochi sotto al divano, e quando lei soffia, sbuffa, si allontana come una diva e lascia intendere che cambierà la serratura la prossima volta che usciremo.

Antropologia, letteratura, poesia e traduzione. A voce, solo a voce.

A me ascoltare è sempre piaciuto. Ancora meglio se le voci arrivavano da lontano, dalle casse di una radio, accesa a mezzanotte, prima di dormire; dalle cuffie ora di un telefono, un tempo di un walkman, spesso sporco di sabbia, o schiacciato in una tasca, dalla danza delle dita in cerca di stazioni lontane. Alla dittatura delle immagini e dei video, da qualche anno sempre più opprimente, ho sempre preferito l’attenzione più riposata, ma anche più schietta, che diamo alle voci. Perché ascoltare ci permette anche di chiudere gli occhi, e sotto le palpebre vedere altro, immaginare altro, mentre seguiamo il filo di discorsi altrui.

Tutto questo per dire che poter solo parlare di quello che per me è il rapporto tra antropologia e letteratura, antropologia e fotografia, aggiungendo anche la mia passione per la traduzione dal maltese, senza dover preoccuparmi di apparire o forzare qualcuno a stancarsi gli occhi sullo schermo, non solo mi ha fatto molto piacere ma era forse quello di cui in questi giorni avevo più bisogno. Merito anche delle belle domande dell’intervistatrice, attraverso skype, per il podcast di Taħt il-Qoxra. E di uno schermo lasciato spento.

Qui l’intervista, in inglese, con introduzione in maltese.