Era ottobre, o novembre.

Era ottobre, o novembre. Sicuramente non dicembre. Era ottobre o forse novembre, perché tutto era ancora al suo posto. Poi l’anno si è sparpagliato, un anno che effettivamente non era stato male, ma ha finito con lo sbrindellarsi prima in strisce sottilissime che pareva però uno potesse afferrare al volo, stringere nei palmi e ricucire ma poi si è sfilato tutto quanto a precipizio di notte mentre dormivamo e ogni cosa ha preso a sparpagliarsi così tanto poi che alcuni orli si sono persi dissolti disintegrati, altri allungati in questo nuovo, questo altro anno pari, e ancora ce lo imbrigliano, se lo tirano dietro e non lo lasciano andare, come è giusto che sia, perché è troppo presto per scrollarsi dalla testa le strisce e le carte e i corridoi di notte vuoti le corse le attese gli schermi che lampeggiano puntini rossi verdi e le parole giuste e quelle di troppo e qui solo i famigliari e chiedete non leggete svegliati svegliati e parole ancora inappropriate da bocche inappropriate e quelle che non voglio più sentire lo so cosa accade non devo dirtelo di nuovo il blu dei camici le ore le cene grazie addio le mani il sonno come una benedizione la casa un porto e poi silenzio e l’albero ancora da disfare dieci giorni dopo la befana che sarebbe stato il nostro secondo natale dopo il venticinque il pranzo insieme solo noi cosa avrei cucinato cosa avreste portato quando quando è stato l’ultimo pranzo insieme qui il mio compleanno possibile così tanto tempo fa.

Era ottobre o forse novembre e avevo scritto e poi ridotto all’osso, per il solito conteggio delle parole che richiedono i concorsi, un racconto su una persona che avevo incontrato durante una mia prima ricerca mediterranea; l’avevo cercata su internet e avevo scoperto che era venuta a mancare solo da un paio di anni. Mi era dispiaciuto non averla più cercata. Era una donna colta, energica e innamorata della sua isola e aveva fatto molto per salvarla da rovina, distruzione e corruzione, cose a cui invece, su quest’altra isola, tanti sembrano correre incontro a braccia aperte. Volevo scrivere qualcosa su di lei ma non sapevo come. E volevo parlarne, ma allo stesso tempo nasconderla, proteggerla, ribaltare la prospettiva del nostro incontro, allora, nel mese di aprile dell’anno 2003 su un’isola dove non sono più tornata, perché poi ne ho scelta un’altra di isola che mi ha dato tanto, prima di cominciare a togliermi ancora di più. Era ottobre o forse novembre.

Catia e la ragazza

Ha i piedi bagnati ma non ci bada, mentre attraversa il giardino della pensione Gelsomino, di proprietà della sua famiglia da mezzo secolo. Anche quella mattina le scarpe preferisce non indossarle subito. Le ha riposte in una sacca, assieme a una busta per una spesa leggera, solo per lei. L’ordine per il ristorante ormai lo va a prendere Vanni col furgone, e meno male che quel ragazzo resta con loro tutto l’anno, non come gli altri che se ne vanno a ottobre e poi a maggio se li devono riprendere perché non hanno ancora trovato altro.

Anche lei lo guidava il furgone, e ci si divertiva pure a fare tutto da sola, ma ora non si fida più dei suoi occhi, e ancora meno delle sue mani che tremano, tremano anche adesso che accarezza i gatti che le si parano davanti per un altro boccone di cibo, prima che lei dica loro che se ne riparla a pranzo, e si lasci il cancello, il giardino e l’acuto dei loro miagolii alle spalle.

La randagia, così la chiamano, per questa mania di andarsene in giro avanti e indietro, più volte al giorno, scalza, con i capelli bianco neve arruffati, un soprabito di lino nero che le arriva alle ginocchia e che ha lasciato aperto a sventolare su una camicia di seta grigia e una gonna che si restringe verso l’orlo e che le disciplina i passi, dice, che altrimenti le uscirebbero troppo sgraziati. Vederla così, ogni giorno, per le stesse strade, alla stessa ora, mette di buonumore chi la incrocia, come se ad andare loro incontro fosse l’immagine di un futuro innocuo con il volto schietto della donna che ha tirato fuori dalle loro lingue e da quelle dei loro figli, per quarant’anni, la sintassi e la tabelline, e che adesso scandisce il loro tempo: scende ed è ora di avviare la giornata, di essere operosi, anche nelle piccole cose; sale ed è già quasi ora di pranzo e quello che s’è fatto s’è fatto, altrimenti si rimanda al giorno dopo, che il pomeriggio è ancora troppo caldo anche per fare liste, e fino alle quattro non si deve fare rumore. E quando la vedono scendere ancora, intorno alle cinque, per andare al cinema o a messa, e ripassare dopo le sette, allora è tempo di dedicarsi alle ultime commissioni, e prepararsi per la cena. E il giorno appresso è tutto tale e quale.

Catia dà un’occhiata all’orologio. La ragazza l’aspetta di fronte alla discesa della cattedrale, ma è ancora presto. Sembrava felice, la sera prima al telefono, che lei l’avesse richiamata per dirle che le avrebbe raccontato altre cose della sua famiglia; o almeno così le è parso. D’altra parte non può lasciarla tornare a Roma senza prima parlare di suo padre, che non sarà stato nobile, ricco e istruito come sua madre, la tedesca, ma per farli stare tutti bene non si è mai lesinato, e per loro c’è stato sempre, anche quando sua madre tornava a Napoli dai suoi per settimane, o se ne andava in giro per l’Europa in cerca di volumi per la biblioteca e reperti per il museo. Qualche volta l’ha accompagnata anche lei, prima di sposarsi, mettere al mondo due bambini, e insegnare a leggere e a scrivere a tutta l’isola.

Catia fa una smorfia e scende gli scalini in pietra ammorbiditi da una cascata di ciuffi d’erba. In fondo, la piccola piazza dove si trova la chiesetta di San Bartolomeo, brilla già di sole e calore. Si avvicina. Il portone è aperto, ma dentro non c’è nessuno. Un raggio si è fatto strada nel buio dell’interno e si è posato su una nicchia vuota.

“Professoressa, ma è vero che le spoglie del santo ce le hanno rubate? O è una cosa che diciamo ai turisti tanto per farli contenti?”

Una voce alle spalle. Ѐ quella di Mimmo, il ricamatore di Aci Trezza.

“Mimmo, buongiorno. Contento il turista siamo contenti tutti”.

“Eh. Quando me lo chiedono è così che rispondo: il santo non c’è, è partito. Anzi, ce l’hanno rapito. E con lui tutto quello che aveva, come corredo. Però è una bella chiesa, aggiungo, qua se preghi San Bartolo lui t’ascolta subito, perché non devi sgomitare per farti vedere, non devi alzare la voce come quando vai alla cattedrale, con quei soffitti alti, quelle punte, sempre piena di forestieri che fanno foto, e le tue preghiere che fanno la fila come alla posta”.

“Ma che dici Mimmo, il santo mica sta allo sportello e tu prendi il numeretto, che importa da dove preghi? Però anche a me piace di più questa chiesetta. Il funerale di Aldo lo abbiamo fatto qua”.

“Sono venuto, ma non sono riuscito ad entrare, troppa gente. Però tuo fratello lo avevo già salutato la settimana prima”.

“Che vuoi dire?”

“Che aveva bussato alla mia porta, gesticolando come sempre, indicandosi la gola. E io gli ho dato un po’ d’acqua e poi l’ho accompagnato fino all’albergo, gli ho lasciato dei fili in mano da contare, per dargli qualcosa da fare”.

“Ti ringrazio Mimmo, sei stato gentile. Ti saluto, che ho un appuntamento”.

Catia trattiene le lacrime che già le annacquano lo sguardo, a dire che è triste basta e avanza quello che indossa, non serve che parli anche il viso. La ridondanza è volgare. Anche a scuola, ai suoi alunni, insegnava la semplicità.

Nella via ci sono due case in vendita, e quella dove gli americani si sono appena trasferiti ha delle ringhiere nuove ai balconi, dritte, alla maniera delle città. Le loro panciute e floreali non andavano forse bene? Pensa Catia. E che ne sarà quando i nuovi abitanti si stuferanno anche dei loro ariosi ma piccoli porticati e ne vorranno di più grandi?

Scuote la testa, guarda di nuovo l’orologio. Si sente stanca oggi, più del solito. Chiederà alla ragazza di aiutarla con la spesa e di accompagnarla a casa; cucinerà per lei, le racconterà più cose, le mostrerà pure le lettere appassionate di quel famoso regista per quell’attrice svedese, che lei dimenticò in camera quando finirono di girare il loro film, cinquant’anni prima. Quando sua madre gliele aveva lette le si erano arrossate le guance, e poi le erano divenute ancora più rosse, perché se ne era accorta.

La stradina acciottolata è quasi finita, Catia si mette le scarpe. Le altre volte le domande le ha fatte tutte la ragazza, l’antropologa, e lei ha cercato di risponderle meglio che poteva. Ma oggi è diverso, è lei che ha deciso di parlare, che guiderà le fila del discorso, chiedendole anche perché si sia rivolta proprio a lei e non allo storico del paese, come fanno tutti. E se abbia intenzione di tornare.

E dopo averle raccontato del padre, dell’albergo, il primo dell’isola, e della zia Felicetta, monaca in casa, le dirà anche di suo fratello Aldo, nato sordomuto, in giro tutto il giorno per quelle strade, mentre l’Alzheimer se lo mangiava, con in tasca un foglio con scritto “fermati e aspettami. Catia”. E una settimana prima di morire era scomparso e lo avevano cercato ovunque, per ore, finché non lo avevano ritrovato nella sua stanza, con dei fili in mano. E ora sa chi ringraziare.

Ma il desiderio che ora ha lei di perdersi, dimenticare ogni cosa, rivedere la sua isola con occhi nuovi ogni mattina per poi trovare sempre mani gentili per tornare sana e salva a casa, quello, invece, se lo terrà tutto per sé.

Featured image: foto mia di Lee Ufan, Tea in the Field, 2023, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia (settembre 2023).

Altra cosa spassosa che può capitare a chi lavora nel settore umanistico.

Sulla scia di un breve elenco di cose letteralmente da sbellicarsi in cui si incappa mentre si procede, con sempre maggiori ostacoli, in un settore, il mio, che pare sia ormai alla portata di tutti quelli che possono permettersi a) una macchina fotografica (che tanto fa tutto lei, no?) b) l’abbonamento premium di un traduttore automatico e c) la tentennante padronanza a livello di scuola secondaria, forse biennio superiori, della lingua italiana, vorrei aggiungere una mirabolante esperienza degli ultimi giorni che a me ha fatto perdere l’ennesimo lavoro (è il quinto o il sesto quest’anno?), ad altri qualcosa di più del vile danaro. Ma andiamo con ordine.

Sono in colloquio ancora informale, ma ben avviato, con Trullallà (nome di fantasia) per un lavoro che riguarda la traduzione di Sellalléro (altro nome di fantasia) in italiano. Il romanzo in questione ha una posizione di rilievo nel panorama della letteratura locale (cosa di cui sono pienamente consapevole, e non da ieri) e il fatto di essere stata presa in considerazione come traduttrice non mi dispiace, tutt’altro. Bisogna però che ogni lavoro sia pagato il giusto, sia per rispetto nei confronti della mia decennale esperienza (e una certa bravura letteraria) sia per il fatto che anche le traduttrici (udite, udite) si nutrono e hanno tasse, bollette, spese varie – io poi ho questo vezzo di non voler vivere sotto a un ponte, del non mangiare porcherie, fare ogni tanto qualche viaggetto fuori da questo Triangolo delle Bermuda di cemento per ritrovare verde e silenzio, e comprare qualche decina di libri all’anno; vezzi appunto, solo vezzi.

Mentre mi appresto a tradurre le prime pagine di Sellalléro da inviare a Trullallà come prova, ecco che vengo contattata da Eccallà (ennesimo nome di fantasia) che mi chiede delle mie intenzioni riguardo Sellalléro. Rispondo in maniera neutra e senza sbilanciarmi che la mia decisione è vincolata all’accettazione delle condizioni di lavoro da parte dell’editore, punto, cordiali saluti – perché, detto tra noi, comunque, 1) ma chi te conosce? 2) ma chi te conosce? 3) i miei accordi e decisioni li prendo prima di tutto con Trullallà, non con te, con tutto il rispetto e interesse (entrambi in abbondanti dosi) che posso avere per Sellalléro.

Eccallà non la prende proprio benissimo, diciamo, e dopo avermi proposto di scavalcare (sic) Trullallà e fare accordi direttamente con lui/lei/loro, con chi, insomma, detiene i diritti del romanzo, cancella il messaggio con tale proposta (che avevo comunque salvato e fatto vedere a Bellodecasa, nome di fantasia anche questo) e mi dice che cercherà un altro traduttore.

Perfetto (si fa per dire) e tanti saluti.

Ma a Eccallà questa cosa che non mi sia immediatamente dichiarata colma di onore ed esplicito entusiasmo per la possibilità (dipendente ovviamente dalla sua sentenza sul mio stile, a cosa credete servisse la prova di traduzione?) di tradurre l’equivalente locale (parole sue) di Levi, Pavese e Sciascia, proprio non va giù, e così, ore dopo, comincia a rovesciarmi addosso lunghissimi (e neanche tanto pacati) messaggi pieni di indignazione, accusandomi di “scarso tatto” ed “enorme ignoranza” della cultura e della letteratura locale, e di non aver capito nulla della posizione di Sellalléro nel panorama letterario locale e internazionale. Al che rispondo, sempre in maniera civilissima, che sta dando di scarso tatto e dell’ignorante alla persona sbagliata e chiedo, cortesemente, che non mi scriva più.

Ma Eccallà non demorde e continua la sua filippica sulla natura mercenaria del mio stile lavorativo (voire, essere pagata il giusto per un lavoro a livello professionale), il tutto condito anche d’una inutile dose di latinorum con tanto di traduzione in italiano. Eccallà, come se non conoscessi il latino. Aggiunge anche come io non prenda sul serio la letteratura di questa “piccola nazione” e alla fine mette anche in dubbio la conoscenza antropologica della stessa che dico di avere (e chi ha mai parlato di antropologia nel nostro breve, seppur dilettevole, scambio?)

Conclude sottolineando come io l’abbia insultato/a/i. E quando, esattamente, Eccallà? Parlando di giusta remunerazione?

Io al mio dentista – e al conto di migliaia di euro che dovrò sborsare nei prossimi mesi – cosa dico? Che dovrebbe essere onorato della possibilità che gli concedo di risistemare il sorriso al mio bel faccino, che la visita fatta l’altro giorno è giusto una prova gratuita per vedere come lavora, e poi decido io se pagarlo o meno e quanto, per il resto delle sue cure? Ma stiamo scherzando? Purtroppo no, per quanto spassosa, la comunicazione con Eccallà era tutto tranne uno scherzo.

Io, a quel punto, potrei far sapere a Eccallà che sulla sua “nazione” (termine a cui ricorre parecchio, ma siamo nel post-nazionale, Eccallà, rammentalo) ci ho scritto una tesi specialistica di argomento letterario; poi una tesi di dottorato summa cum laude sulla memoria sociale post-coloniale; ci sono anche articoli accademici, saggi, racconti, poesie… Anche le foto che faccio hanno a che fare, pensa un po’, con la letteratura o sono, a volte, mi si dice, letteratura – e tralascio tutto il resto della mia esperienza professionale, e soprattutto umana, nell’arcipelago. Potrei far notare questa manciata di quisquilie, ma preferisco di no; anche perché, nel frattempo, quella un pizzico indignata comincio a essere io.

Così come preferisco non dire che la letteratura locale non solo la conosco e la rispetto profondamente dal lontano 2004, ma che con i suoi scrittori e scrittrici ci vado pure a cena fuori.

Ora, magari adesso no, visto che grazie a gente come te, Eccallà (ora bloccato/a/i), per un po’ di tempo non potrò permettermi manco quello.

Settembre, ad agosto.

La fine di agosto non è mai appartenuta al suo mese. La fine di agosto è settembre, un mescolìo di fine e inizio, di umidità sospesa e vento che in un attimo la spazza via.

Eppure non c’è più la corsa dei giorni verso il primo giorno di scuola, non c’è più lo svegliarsi di soprassalto tra le mura male imbiancate di una classe dopo mesi di precipizio tra mare e colline, tra stelle, vento in motorino, capelli tagliati.

Anche se a me quelle mure male imbiancate, almeno il primo giorno di scuola, piacevano molto. Perché era un inizio e gli inizi friccicano di energia e salute. Di odore di libri appena tolti dalla plastica, di un diario scelto con cura e quaderni a righe e a quadretti, di album Fabriano, carta liscia e carta ruvida. Di scarpe nuove, e abiti stirati.

Quest’estate è come se non fosse stata. Come altre, prima. Nessuno stacco tra prima e poi. Un giorno di lavoro, un giorno pigro. E di nuovo, un giorno o due di lavoro, mezza giornata pigra, pochissimo mare.

E devo, devo assolutamente trovarmi un inizio, degli inizi che mi scuotano il cervello e le braccia, che mi facciano muovere le gambe e spalanchino gli occhi.

E degli inizi ci sono.

Ci sono due traduzioni a cui pensare e le loro pubblicazioni in un prossimo futuro: “Stanza Azzurra. Inventario” di Leanne Ellul. E “Rosmarino e capricci vari”. O “Rosmarino e altri capricci”, di Adrian Grima. Felice che le loro candidature con il Book Fund siano andate a buon fine.

C’è una residenza letteraria vinta come partecipante maltese, del progetto europeo Ulysses Shelter, la prossima primavera, in Galles. E penso già a cosa mettere in valigia. Che è una cosa che mi ha sempre fatto stare bene, immaginarmi la valigia per un posto in cui non sono mai stata. E l’idea di un posto nuovo, di nuovi odori e colori mi ha messo già in testa l’idea per un nuovo romanzo. Che sarebbe il terzo, dopo due ancora non pubblicati.

E c’è un bel progetto di cui presto parlerò di più, Memorive, un progetto di ricerca, laboratori, teatro e scoperta di spazi espositivi alternativi e pubblici, che risveglierà Rima, e che mi riporterà, assieme alle mie nuove colleghe e amiche, in quella parte di Italia, per cui, come dice Marta, vale sempre la pena. Il sud.

E forse anche per quest’isola che mi ha sempre dato tanto, ma che si è presa anche parecchio, vale ancora la pena.

Se riuscissi solo a scrollarmi di mente l’idea che senza un lavoro salariato a tempo pieno non valgo nulla. Se.

Se riuscissi a capire che a settembre non comincerà più un anno scolastico dove sto (relativamente) a mio agio perché qualcuno mi dice cosa fare, e io lo faccio senza dire nulla, e prendo ottimi voti in quasi tutte le materie. E sono soddisfatta così, almeno in superficie.

Se riuscissi infine a ricordarmi, invece, di tutto il tempo che, sempre in quelle classi, passavo a guardare fuori dalla finestra, io che mi mettevo sempre all’ultimo banco, senza prestare attenzione a quello che dicevano i professori, senza fare altro che guardare fuori, senza altro fine se non quello di guardare fuori.

Senza utilità – come dice una bella canzone. Perché non serve a noi.

V per Vienna.

Scrivere richiede distanza? Forse non sempre. Non quando vogliamo trattenere tutto quello che è stato così come è stato, senza fronzoli e cianfrusaglie, o senza ammantarlo d’altro di più profondo, di più ragionato. Non quando vogliamo mettere nero su bianco quello che un luogo ci ha dato, o con cui ci ha piano piano avvolto, senza neanche aspettare che glielo chiedessimo o ce lo andassimo a cercare; gli occhi su una mappa, su un cartello, su una guida con tutto quello da fare, le cose da non perdere, in uno, due, tre, sette giorni. Scrivere di un luogo, di una città, di un viaggio, poi, è sempre più complicato, data la rappresentazione moltiplicata già all’infinito di quello stesso luogo su carta (o su schermo), così che tanti posti, anziché desiderarli, ce li ritroviamo già masticati, inghiottiti, a volte indigesti, e spesso ci basta così.

Vienna. Quasi sono contenta che tanti me l’avessero descritta come noiosa, come non all’altezza di altre città europee, come Parigi o Roma, tanto per dirne due, che per quanto splendide pare stiano sempre a correre impettite e sui tacchi per stare al passo con quello che da loro ci si aspetta sempre, e nell’affrettarsi tante cose vanno perse, si inciampa, il tacco resta incastrato tra i sampietrini.

Vienna ti si accosta a passo lento e ti invita a camminarle accanto.

Se ti fermi, ti aspetta.

Vienna arrivata non come una stella cadente che ti procura sempre un tuffo al cuore, ma come una lenta e sinuosa stella marina, che già la intuisci da lontano per lo stacco di colore con le rocce e quando poi le sei appresso resti sospeso e ondeggiante ad ammirarla, nel silenzio e nella frescura dell’acqua, per poi nuotare oltre, in cerca di altre calme meraviglie.

Vienna, dove non sapevo che avrei passato del tempo, fino a due settimane fa. Vienna come un regalo, un delizioso strappo in un giugno pieno di frastuono (prendetemi e portatemi via, ovunque, vicino all’acqua, in posti che ancora non ho visto, mi farete felice).

Vienna. Vienna è splendida. E sì, questa è solo una prima impressione. Ogni tanto fa bene non andare a fondo alle cose, scrivere solo di prime impressioni. Un luogo, una città, sono fatti anche di questo, di prime impressioni, anche se sbagliate.

E quindi ecco cosa Vienna ci ha dato, non solo la bellezza incredibile dei suoi viali e stradine, delle sue collezioni, delle sue mostre temporanee, del verde che non senti come una concessione dall’alto o una faticosa vittoria popolare contro l’oscura planning authority, ma come uno spontaneo esserci, da tutte le direzioni. O è un dover esserci? Il verde come natura o come diritto, o anche come dovere di una città, di un paese, verso chi ci abita?

E dopo il verde, l’acqua. Il caffè costava una fortuna, sì, ma sempre arrivava con l’acqua. E l’acqua arrivava con il caffè e pure senza caffè, anche senza chiederlo. Acqua non di bottiglia, acqua di rubinetto. Che non ditemi che qui a Malta o altrove non si potrebbe fare. Certo, non è l’acqua delle Alpi. Ma esistono filtri, esiste l’osmosi inversa. L’acqua sul tavolo è una delle forme più spontanee e attente di gentilezza. Lo scambio della sete con la plastica e il denaro, invece, una barbarie.

Il verde, l’acqua e il silenzio. A parte le aree più frequentate – che non abbiamo frequentato più di tanto (con le uniche eccezioni dei passaggi veloci a Stephansplatz e del mescolarci ai banchi di turisti nelle stanze del castello di Schönbrunn; un posto dove, tornando indietro, sinceramente non riandrei, spendendo più tempo nel giardino e nella serra), la maggior parte delle strade in cui siamo capitati, ci ha restituito senza fatica (e qui concedetemi qualche immagine romantica) lo scalpiccìo dei nostri e degli altrui passi, il frusciare delle foglie tra i rami, il battere dei piedi sui pedali, le porte che si aprivano o chiudevano, lo scorrere dei tram, il chiacchiericcio leggero delle persone che parlavano, sempre, senza gridare. Mentre qui, invece, si grida per tutto, anche quando si cerca di rilassarsi di fronte a una birra, nel vano tentativo di espugnare il muro sgraziato del (neanche tanto) sottofondo musicale che ormai stritola e percuote sempre più angoli di questo arcipelago. Sì, delll’aver perso la Valletta che conoscevo, sepolta sotto una cacofonia di nulla, di microfoni, di casse, di tavolini, sedie, piatti e bicchieri ovunque, non me ne faccio una ragione.

Che poi non è che non ci fosse musica in giro, figuriamoci, a Vienna! Eppure, in tanti posti che abbiamo incontrato solo di passaggio, o in cui ci siamo fermati per un caffè, una birra o un pasto – e a prezzi accettabilissimi (perché a Vienna si mangia anche molto bene*, e non ci si alza dal tavolo con l’amaro in bocca per qualcosa pagato sempre troppo) – la musica era l’eccezione. O non c’era per niente, perfino la sera, perfino nei bar, oppure, se c’era, non si azzardava oltre la soglia, sostando nell’aria come un accompagnamento piacevole e discreto delle nostre (e altrui) chiacchiere leggere. Anche le orecchie, ogni tanto, meritano una vacanza.

Orecchie e occhi, nel caso del Film Festival (per tutta l’estate, fino a settembre, con ingresso libero), un evento in cui siamo capitati per caso grazie a una deviazione, prima di rincasare, e dove siamo rimasti altre due ore per assistere a Il Flauto Magico dal Salzburg Festival con la direzione di Lydia Steier, tornando poi, due sere dopo, per La Bella Addormentata della Opernhaus Zürich con l’innovativa rilettura e coreografia di Christian Spuck.

Tornando, va detto, dopo mezzanotte in neanche venti minuti a casa, grazie a un trasporto pubblico perfetto. Anche questo non è sempre scontato, e anche questo vorrei aggiungere al verde, all’acqua, al silenzio, alla bella musica.

Mi è poi venuto in mente, anche se tardi, l’ultimo giorno (ho una certa età, e la memoria vacilla) che Vienna è la città di Before Sunrise (ah, le camicione e le t-shirts sotto i vestiti a sottoveste degli anni ’90!). E infatti, per quasi tutti i giorni di questa vacanza inaspettata, non abbiamo fatto altro che camminare, camminare e camminare. Dopo il verde, l’acqua di rubinetto, il silenzio, la musica che è musica e non un atto di bullismo a oltranza, questa città restituisce, lenta come un’onda delicata, il piacere di camminare e vagare, e anche perdersi. E noi lo abbiamo fatto per la bellezza di circa 95000 passi. Per le strade, per i giardini, per i musei.

I musei. Se il verde, l’acqua, il silenzio e la bella musica non bastassero (siamo proprio incontentabili) c’è un intero quartiere di musei, un luogo pubblico nel vero senso della parola. I giorni erano pochi, era la mia prima volta a Vienna e non volevo certo trascorrere giorni nei musei, e quindi è stata d’obbligo una selezione. Ne sono usciti vincitori il Leopold, dove un certo peso hanno avuto la mia passione per Schiele e la Secessione Viennese, e il Mumok, uno spazio incredibile dove abbiamo avuto la fortuna di trovare due mostre sorprendenti (anche se credo sia la norma) di artisti che non conoscevo – ma io non faccio testo, essendo abbastanza ignorante in arte contemporanea: una di Elizabeth White, Imagination Factory (una giungla di colori) e una di Adam Pendleton, Blackness, White, and Light (un labirinto di bianco e nero).

L’ultima mattina, prima del volo di ritorno e del consueto shock culturale (anche gli antropologi ne soffrono, molto più spesso di quanto si pensi) abbiamo snobbato l’affollato Belvedere e ci siamo regalati una più tranquilla passeggiata nei corridoi del MAK, il Museo delle Arti applicate. Peccato avere solo due ore, davvero un peccato. Ma, anche se per poco, il nostro quotidiano bisogno di meraviglia è stato appagato.

Questo prima di fare rotta per un arcipelago che non è che di meraviglie sia privo, intendiamoci, ma ormai sono talmente sommerse e schiacciate da altro che quasi non ci si ricorda più che forma avessero; oppure, se ce lo ricordiamo, non è che uno sbrigativo promemoria che immediatamente sparisce per mutarsi, come un mostro mitologico, nel suo spaventoso risvolto. E tu sai che dietro le zanne e le squame quello che ti meravigliava e che tanto amavi di Malta c’è ancora, ma perfino strizzare lo sguardo per cercare di intravederlo di nuovo, adesso, è fatica.

Per fortuna, a casa, ci aspettavano i gatti.

Anche se, non resistendo al richiamo felino, una sosta breve l’avevamo fatta qui, al Cafè Neko.

* Dulcis in fundo, alcuni dei luoghi in cui ci siamo rifocillati: The Epos, Glacis Beisl, Ebi 1, 15 süße Minuten Café, Gota cafè, Cafè Goldegg, Dschungel Café e Biosk. Senza dimenticare il nostro fornitore ufficiale di burek e yogurt, praticamente sotto casa, il Balkan Burek & Cevapcici.

Cose divertenti che capitano quando lavori nel settore umanistico.

Ora, non dico che mi sono capitate solo cose divertenti, mica si può essere sempre così fortunati. Ogni tanto il caso (e chi altro?) mi ha anche fatto incappare in proposte di lavoro assai serie, collaborazioni estremamente professionali, prestazioni di lavoro retribuite secondo il giusto o dove io ho potuto chiedere quello che secondo me era il giusto, secondo le mie capacità e mettendo a tacere la mia maledetta modestia e il pensare “oddio il vile denaro accanto alla mia nobilissima arte”! Con queste opportunità serissime ci ho mangiato, pagato affitti e mi sono anche concessa più spesa biologica e vestiti slow fashion di quanto fosse permesso a chi si trovasse nelle mie condizioni, ma questa è un’altra storia. Qui non voglio parlare di situazioni serie e lavori ben pagati. Qui voglio riferirmi solo a cose spassose.

Dunque.

Ricordo me, fresca (ma in via di stagionatura) di Laurea Magistrale, vagare per l’ufficio dei tirocini della facoltà di Lettere e Filosofia di Roma, la meravigliosa Babele di tutto, ed essere rimbalzata subito agli uffici del Comune di Roma, col mio vestitino a fiori leggero, i miei piedini 39 e mezzo frementi di nuove avventure e i miei sogni di cominciare a lavorare – in cambio quasi di nulla, perché c’era la crisi, di già – nel settore dell’editoria e del giornalismo. Perché pensavo che gli antropologi dove li metti stanno bene, si adattano, sono come l’acqua che prende la forma del contenitore, mentre lo corrode (problematizzandolo, ovviamente) piano piano dall’interno; sono come gatti di strada (ma anche di casa) che si fanno prendere in braccio e poi graffiano, ma poi sfoderano quegli occhioni e gli si perdona tutto. Perché noi antropologi ci adattiamo ma non abbassiamo la guardia mai. Mai. E siamo graziosi, si perdona tutto agli antropologi, il loro questionare tutto, la loro misantropia, la riflessività applicata anche ai gusti di gelato, all’aver trovato una brugola in più con l’ultimo Kallax ordinato. E poi sì, l’antropologia l’amavo ma il primo amore della letteratura e della scrittura non l’avevo certo dimenticato.

Ora, non ricordo la faccia di chi c’era dietro lo sportello, non ricordo neanche se ci fosse un uomo, una donna, un cavaturacciolo o un leone marino, ma ricordo le parole. Ricordo che le mie domande di tirocinio in quei settori vennero respinte perché essendo laureata in “Lettere – Antropologia” e non “Lettere – Letteratura”, non potevo garantire di saper scrivere. Che con la mia laurea avrei però potuto tentare qualcosa nell’assistenza sociale. Con la mia laurea potevo sopravvivere nella giungla o a Mikonos in alta stagione (mi ero laureata con una tesi in Etnologia delle Culture Mediterranee), ma non cominciare a lavorare per una casa editrice o un giornale anche solo in cambio, all’inizio, di un mero rimborso spese, e poi si vedrà.

I sogni non muoiono solo all’alba, ma anche in tarda mattinata, anche su un autubus scalcinato e vuoto che corre lungo il Circo Massimo. Pochi mesi dopo ero a Parigi, a ricominciare da capo per una strada che allora mi sembrava una benedizione e invece era la via verso il girone dei suicidi (professionali). Anche là, grasse risate.

Ma perché, perché, perché, andare così lontano nel passato?

Perché non pescare a piene mani negli accadimenti degli ultimi mesi?

Come l’offerta di lavorare come interprete italiano-inglese-francese-italiano per un convegno di *bumbambum* (nome omesso per ragioni di privacy), cinque giorni, a quindici euro l’ora. Ma possiamo arrivare a venti (per un lavoro del genere la tariffa minima è di 80 euro l’ora). No? Tranquilla, fuori c’è la fila di chi prenderà il lavoro al posto tuo e contribuirà a mantenere bassa questa tariffa. Avanti un altro, altra, altri.

Come “vorrei che facessi delle foto alla presentazione del mio ultimo libro” – e io cancello il mio impegno preso settimane prima per quella sera – e qualche giorno dopo, “l’editore non vuole sborsare cento euro per le foto, mi dispiace, le foto le fa gratis mio nipote/cugino/cognato/suocero/padrino di battesimo/sarto/fruttarolo che è architetto”.

Come “Cara Virginia, ho avuto il tuo contatto da *bumbambum* che mi ha parlato della tua professionalità come traduttrice e del tuo ottimo portfolio. Vorremmo tradurre in italiano direttamente da questa lingua parlata da poche centinaia di migliaia di persone al mondo il libro *bambumbim*. Potresti mandarci un tuo preventivo? Certo, subito, grazie di avermi contattata! Wow. Con il mio dottorato potrei andare ad allevare capre ormai, forse neanche quello, ma mi sto affermando come traduttrice! Settore editoriale, eccomi che torno! E non devo neanche mutarmi in acqua o gatto! Non devo neanche graffiare, o fare gli occhioni.

Voi li avete sentiti più? Non so, magari hanno scritto a voi. Perché a me non hanno più scritto, neanche per farmi notare quanto fossi stata avida nel pretendere quei 0,10 centesimi a parola. Ma poi, qualche settimana dopo ho visto il nome di un’altra traduttrice tra i vincitori di un’annuale competizione per fondi per la traduzione verso l’inglese come bridge language proprio di *bambumbim*. E il nome di chi non mi aveva più scritto, ancora, neanche per darmi della persona senza scrupoli che si approfitta di un settore sempre in crisi come l’editoria italiana, per la traduzione dalla lingua ponte all’italiano.

Che ridere.

O come quella volta che “vorremmo chiederti se fossi interessata a tradurre *bumbimbam*, non vorremmo tradurlo dall’inglese e sappiamo che da questa lingua parlata solo da poche centinaia di persone al mondo all’italiano ci sei tu, sei interessata? Certo che lo sono. Certo che ci sono. Ci sono solo io, per il momento, poi domani non so, ne sbucheranno altri come me, impazienti di divertirsi come me, di madrelingua italiana come me, che sanno scrivere bene come me. Che sono anche scrittori, come me. Ma ora ci sono io. Non che la cosa abbia ormai importanza, data anche la velocità di apprendimento dell’intelligenza artificiale (ma l’IA, si diverte come me? Non credo. Beccati questo IA). Quindi, io ci sono, sempre, ma non ci sono loro, o meglio ci sono ma un po’ defilati, del tipo: il progetto si fa, il libro si pubblica, ma la traduzione deve essere pronta in pochi mesi. Sì, l’editore è un po’ lento con le mail, diciamo che non le legge e non risponde, ma tu intanto comincia perché sennò non ce la facciamo. Ah, vorresti sapere quanto sarai pagata? Ah, vuoi fare tu un preventivo? Io so che più di xxx in passato non hanno pagato per la traduzione, sai sono una piccola casa editrice, ma molto prestigiosa eh! Quindi sì, tu fai pure il tuo prezzo, ma poi loro potrebbero rifiutare e trovare qualcun’altro… Comunque oltre la cifra di xxy non sono mai andati, ma era con quella famosissima traduttrice che di certo conosci e che ha tradotto xyz, e lei ha accettato comunque…! Eh, va così qua, qua è un lavoro che si fa per passione, io per quello che faccio dovrei essere pagata cinque volte tanto e invece… Il settore è così. Se lo vuoi fare dimmelo, altrimenti cerchiamo di tradurlo noi con l’autore che sa un po’ di italiano e poi lo aggiustiamo. Ah, sei ancora interessata? Ma vorresti un contratto prima? (Eh sì, che burlona che sono a voler sapere quanto mi pagherete). Ma si, che ti pagheranno, l’editore è lento con le mail, ma si farà sentire, stai tranquilla.

Sì, io sto tranquilla, e intanto mi diverto. Ho le lacrime agli occhi dal ridere.

Su tutti i “We regret to inform you” ricevuti poi negli ultimi anni da ogni istituto, istituzione, centro culturale, fondi pubblici e privati, residenze artistiche, anche dai sassi, con un picco incredibile nel 2022, non scrivo, perché poi potrei anche morirci di risate. E forse un po’ già lo sono, in fin di vita (professionale).

Ma volete mettere quanto mi sono divertita? Quanto ancora mi sto divertendo?

p.s. nella foto io che mi dissolvo. Sto ridendo ovviamente, non si vede per via della macchina fotografica davanti al viso, ma vi assicuro che rido a quattro ganasce.

I gatti di Split

Ci sono città gatte.

Istanbul è una di quelle. Roma pure, a modo suo, almeno la Roma delle rovine, di Largo Argentina, dei Fori, della Piramide, luoghi di cui i gatti sono custodi. Rivedere dopo tanti mesi le foto di Split, foto su pellicola, scatti di cui mi ero quasi dimenticata, come accade tutte le volte che uso la macchina fotografica analogica, mi ha ricordato che anche Split (Spalato) lo è. Ma lì la loro presenza è diversa da quella di Istanbul, di Roma. I loro passi non si mischiano a quelli delle persone, agli scricchiolii delle porte, non intonano cori con le voci che li chiamano. I loro passi tracciano traiettorie mute e lunghissime per vicoli sempre più disabitati, perché a Split, nella parte vecchia di Split, non ci vive quasi più nessuno, le stanze sono vuote, i materassi freddi, mentre d’estate, invece, ci dormono in troppi, in troppi passano e vanno, e non sono silenziosi come i gatti. Forse con i gatti neanche ci parlano.

Sinceramente non ricordavo di averne fotografati così tanti mentre ero a Split per SpLitera, per vedere dove la mia cartolina era arrivata, per parlare di Mediterraneo, e scoprire questa città pietrosa in una stagione fredda, e poi riscoprirla di nuovo, uno sguardo in due tempi si potrebbe dire, dalle foto sviluppate solo molti mesi dopo.

No, non ho fotografato solo gatti, ma il fatto che non si vedano nella foto, non esclude che c’erano, magari un po’ fuori dall’inquadratura, magari dietro. Un gatto c’è sempre. E per fortuna.

Viaggio, la vigilia. Pensando ad altri viaggi. Parlando di altri viaggi.

Ben cinque anni che non viaggiavo ad agosto – e Roma non fa testo, Roma è come uscire da casa mia, percorrere un corridoio di ore e ritrovarsi, sempre, a casa mia. Ben cinque anni. Domani sarà ancora la città bianca, e dovrei rispolverare almeno il mio cirillico, allargare il mio vocabolario qualche parola in più oltre doručak, burek, voda e vidimose. E mentre la valigia attende di essere riempita nel modo meno intelligente e più frivolo possibile (la mia terapia della frivolezza è sempre là) ho pensato che in questo mese di viaggi per tanti altri come me, in quello che è il mese dei viaggi, il mese che per molti anni ho sempre identificato con un paese arroccato in alta collina, circondato dal verde, battuto da piogge, il mese del “portati un giacchetto che fa freddo”, agosto, sì, agosto! ho pensato di fare una breve lista di tutte le altre volte che ho scritto di viaggi. Non pensate di trovare cose come dieci cose da non perdere a…, cosa vedere, cosa fare e cosa mangiare a. O la descrizione impeccabile e utilissima di come arrivare, come girare, dove dormire. C’è già chi lo fa meglio (e meglio di migliaia d’altri) e con più disciplina e metodo di me. Con più attenzione per i dettagli, più cura per il proprio pubblico di lettori. Io no. Io, come dice lei, non si sa mai da dove arrivo e con quali mezzi. La descrizione migliore che mi sia mai stata data. Vale per tutto. Un passepartout. E se non so bene da dove arrivo e con quali mezzi non posso che restare sul vago, girare in tondo, fermarmi più del dovuto in posti che tanti neanche considerano: se mi leggete mettete in conto queste soste, se mi leggete vi perdete. Leggetemi se volete perdervi. Scrivo sui miei viaggi così come camminerei nella nebbia, per ore, senza fermarmi neanche per un bicchiere d’acqua, cogliendo ombre, forme, cercando di diradarla a mani nude, mescolando tutto quello che incontro con l’oltre che ogni luogo sempre evoca, la memoria di posti che si sono lasciati troppo presto, ma che nonostante tutto continuano ad abitarci. Ogni viaggio, anche in un posto nuovo, è per me sempre un ritorno, una lettura tra le righe, la scoperta di strade che avrebbero potuto essere la mia quotidianità, se e solo se.

Oddio, poi qualche posto bello da vedere e qualche altro dove fermarsi a mangiare ce l’ho pure messo eh. Non sono completamente sprovveduta. E dunque, voilà!

Sulla città bianca, la bellissima Belgrado (e dintorni) in attesa del terzo racconto, di giri ce ne sono già due:

Da Est a Ovest, non posso non fermarmi nella mia Roma, una città dove mi sembra di non tornare mai davvero, ma da dove forse non sono neanche mai completamente partita, dove sono sempre, anche quando sto lontana:

Roma che è sempre il punto di partenza per qualcos’altro, come le terme, altri mari:

Un po’ più a ovest, sul margine dell’oceano, la bellissima, gialla (come la crema dei quotidiani pasteis de nata e la limonata), rossa d’uovo, multicolore, straordinaria Lisbona (con una punta a Sintra):

Oltre oceano… Toronto! Il viaggio per l’International Festival of Authors (dove Teodor era stato invitato) e del jet-lag (il mio) più lungo della storia dei jet-lag. Il viaggio del mio incontro con scrittori nativi canadesi. Chi dice che scrivere non ti porta da nessuna parte?

Sempre per motivi letterari (e per sfuggire all’orrido caldo dell’agosto maltese) c’è stata anche Helsinki con la sua pioggerellina e i suoi magnifici 15 gradi estivi. Helsinki e un salto a Tallinn, già che c’eravamo.

Anche l’antropologia fa viaggiare. Ecco un fugacissimo ricordo, impalpabile come un fiocco di neve, di quei due giorni a Innsbruck.

E infine Parigi, Parigi igi igi, come posso dimenticare Parigi? Tornerò mai a vivere a Parigi?

E presto, presto vagherò tra le righe di luoghi non ancora messi nero su bianco, come Amsterdam, Torino, Split, Dubai. E Malta. Forse è il caso che qualcosa che non siano lagne su questa benedetta isola la scriva pure, a un certo punto.

Buon agosto. E spero che dove sto andando piova almeno un po’.

Perché per tanti anni della mia vita agosto era il mese delle piogge. Non è agosto, senza pioggia.

In viaggio, prima del viaggio.

Molti anni fa, mi mettevo in viaggio prima di partire. Aprivo la valigia, di solito una valigia grande – sarei diventata brava a ridurre e sottrarre solo col tempo le cose superflue, mentre le necessarie si sottraevano da sole, divenendo superflue – e la sistemavo per terra o sulla scrivania. Cominciavo dunque a riempirla già qualche giorno prima della partenza, con calma, ragionando su quello che c’era, osservandolo, cambiandolo. Era un’operazione che mi faceva stare bene, che mi metteva già di buonumore ancora prima di chiudermi dietro la porta e dirigermi verso posti nuovi, o posti già noti che si sarebbero rinnovati nel mio nuovo sguardo.

Forse, in maniera figurata, dovrei fare lo stesso adesso. Non solo prima di un viaggio di pochi giorni o settimane, ma prima di proseguire questo tutto che vivo, che mi graffia, delude e che mi travolge senza che io reagisca quasi più, in cui mi sembra sempre di riempire questa sacca grossa, scolorita e bitorzulota che sono le mie giornate, con oggetti per lo più inutili, persone che inquinano l’aria, e umori che creano ristagni insalubri nella mia testa. Ogni tanto riesco anche a fermarmi, ascoltarmi e trovare posto anche per oggetti e persone che mi fanno stare bene, che trasformano gli stagni dei miei pensieri in luccichii marini. Il problema è che le cose e le persone che mi fanno stare bene, quelle che riempirebbero meglio il bagaglio delle mie giornate non fanno rumore, non urlano in faccia; sono silenziose, miti, lontane.

Non è sempre facile scovarle, ricordarsi di lasciare loro spazio, far loro presente di sgomitare un po’, con delicatezza, per passare avanti, farmi un cenno, di tanto in tanto, indossare vesti più sgargianti.

Mentre Olivia dormiva…

Lady Olivia ancora ignara dell’arrivo di Duke Orsino, esattamente un anno fa.

…O forse era sveglia e si stava chiedendo perché avessimo preso dall’armadio quella borsa che le fa tanto paura, perché è la borsa con cui di solito la costringiamo a lasciare il suo territorio per andare dal veterinario (quando sua maestà pelosa non riceve la visita a casa), o per prendere un aereo. Forse era sveglia e si era nascosta, e forse poi a dormire si era messa davvero mentre noi, a piedi, raggiungevamo un rifugio di gatti (Rescued Paws Malta, ndr) nelle campagne qui vicino con in testa gli occhi grandi e irresisitibili di un gattino, intravisto tra i tanti pronti per essere adottati. Quel gattino ce l’eravamo un po’ sudato, diciamo, in una lunga intervista il giorno prima, intervista che mi aveva messo addosso non poca ansia: e se poi salta fuori che non siamo adatti a tenere gatti? Chi glielo dice a Olivia dopo tutti questi anni? Come potrò ormai andare avanti io, che sono gattara da quando ho praticamente cominciato a stare in piedi da sola?

La prima immagine di Duke Orsino (o Orsino, o Orsetto o Pampepato), dopo aver superato l’intervista e avere avuto accesso alle foto dei gattini pronti per l’adozione.

Ma l’intervista era andata bene e così potevamo andare a prendere il gattino, quello a cui era stato dato il temporaneo nome di Milo (e che, non lo sapevamo ancora, lo stesso veterinario di Olivia aveva visitato, sverminato e spulciato qualche giorno prima, per di più credendolo una gattina – pretty girls, aveva detto a lui e alla sua banda di fratellini – ed etichettandolo poi però come un esemplare di felino ferocissimo e di cui era ancora assai spaventato quando, qualche giorno dopo, glielo avrei riportato per una visita: “Tienilo tu”, mi avrebbe detto, “l’altra volta ha tentato di uccidermi”. Orsino, questo eri tu, gattino tra i più dolci del mondo. Un gattino che incuteva terrore. Tu, con quegli occhi col kajal, quelle zampette e quelle orecchiette a punta).

Milo-Orsino lo avevamo “scelto” tra altri, lo avevamo “scelto” per quegli occhi grandi e luminosi, e il manto di quelle sfumature di neve e roccia per cui io ho sempre avuto un debole, perché sono gli stessi colori di gatti dolcissimi, fieri e intelligenti, come Kiwi e Grigetto, che avevo già avuto la fortuna di incontrare.

Lui non era molto d’accordo sulla nostra decisione. Anzi, proprio non ne voleva sapere. Ha provato a spacciare suo fratello per lui, e a farlo adottare al posto suo, scappava, si nascondeva, si ribellava con tutte le sue forze, che per dimensioni ed età non erano poche. A un certo punto, quando mi è stato consegnato, mi ha morso, soffiato e graffiato – mentre altri gatti facevano a gara per infilarsi nel trasportino lasciato aperto e farsi portare via. Ma io sono di coccio. Volevo lui. Volevo quegli occhioni. Quelle orecchie a punta.

Ma cominciavo anche a perdere, a poco a poco le speranze, guardandomi un po’ intorno in cerca di alternative. Non mi andava di costringerlo.

Se non ci voleva non ci voleva, pace.

Dopo quella reazione non proprio incoraggiante, tuttavia, lui non era tornato a nascondersi come prima, ma si era raggomitolato su una copertina gialla, all’interno di un contenitore di plastica sistemato su un carrello a un metro da noi e ci guardava. Ed è a quel punto che Teodor mi fa: “He blinked at me”. Aspetta, wait.

Fermi tutti.

Qualche speranza c’è ancora. Un gattino che ti strizza gli occhi è un messaggio dall’universo. La vita che prende un bivio inatteso. Con l’aiuto del tipo del rifugio proviamo dunque a riprenderlo, lui ancora si ribella, ma alla fine lo mettiamo nel trasportino. “Lucky boy”, gli dice lui, nell’accomiatarsi da quel micetto trovato appena dieci giorni prima a Mosta assieme ai suoi due fratellini (altrettanto forastici), con un bacio sulla fronte. Orsino continua a non condividere la nostra scelta, trasformandosi di nuovo e ancora di più in una palla di pelo soffiante, sbraitante, miagolante, urlante che cerca di fare a pezzi, dall’interno, la borsa, e continuando a esprimere il suo ferino, primordiale e ferocissimo dissenso per tutto il viaggio di ritorno, con me preoccupatissima per lui, per Olivia, per noi, perché non era così che me l’ero immaginata quella nostra piccola idilliaca avventura alla ricerca del nostro nuovo gattino. Gattino che per nulla al mondo avrei mai riportato indietro.

A casa, seguiti da un’Olivia assai curiosa e un po’ perplessa, lo mettiamo al sicuro, isolato, nel mio studio, con acqua, cibo e lettiera e là lo lasciamo. Lui non mangia quasi nulla, ma esplora intorno, butta giù dalla scrivania qualcosa e usa la lettiera, come il più diligente dei micetti. Dopo qualche ora ancora fugge, ancora ci evita, ancora si nasconde, ancora soffia, ancora è del tutto terrorizzato dal non sapere dove si trovi, con chi e perché. Lo lasciamo ancora tranquillo, con Olivia che da dietro la porta smania per sapere cosa stia accadendo. Poi, lentamente, a sera, forse stremato, lo troviamo accoccolato e apparentemente calmo sulla sedia girevole. Mi avvicino, gli faccio annusare la mia mano, gli appoggio un dito sulla fronte per accarezzarlo. Soffia ancora ma, allo stesso tempo, comincia a fare le fusa. Soffia e fa le fusa. Non sa più neanche lui cosa deve fare…

Il resto della storia parla di un gattino meraviglioso e affettuoso che cresce a vista d’occhio, che cresce quando non siamo in casa, che è nemico giurato delle mie piante, loquacissimo, che ama giocare con i tappetti del latte di mandorla, che si emoziona quando pulisco le verdure, perché sono altri potenziali giochi. Il resto della storia parla di almeno cinque mesi (cinque!) di suoi tentativi quotidiani e strappacuore di conquistare la bella e riluttante Lady Olivia, la quale, come la sua shakespeariana omonima, lo respinge, lo evita, gli soffia, lo tiene a relativa distanza finché la pertinacia di Orsino-Orsetto-Pampepato – e il freddo delle case maltesi – non la fanno cedere.

Il resto della storia è Olivia che non dorme più da sola.

Se la cosa le faccia piacere o meno, l’autrice di questo blog non è però in grado di dirlo con certezza. Olivia è Olivia, e anche se è felice della presenza di Orsino, non lo ammetterà mai.

All’anno che arriva domani

Caro anno nuovo,

Entra e mettiti comodo sul divano, se vuoi prenditi una tisana, una fetta di pandoro, un po’ di miele di castagno. Gli anni pari mi fanno sempre un po’ paura, soprattutto quelli che finiscono per 2, ma tutto quello che ci spaventa alla fine spaventa di meno, se lo guardiamo da altre prospettive, se lo affrontiamo con un cuore rinforzato.

Entra piano in casa, stanotte, per non spaventare Orsino. Ancora è molto timoroso e si nasconde quando sente passi nuovi sul pianerottolo e dentro casa. Olivia si affaccerà alla porta per vedere chi arriva. Accarezzale la fronte, falle qualche coccola, lasciale dei croccantini: è stato un anno non facile per lei, ma è rimasta dolce e meravigliosa.

E io ti chiedo solo questo, caro 2022, un cuore più robusto per resistere al ghiaccio dei legami che si frantumano all’improvviso senza una ragione, né la possibilità di porvi riparo. Dammi uno stomaco meno incline alla nausea vorticosa delle delusioni che arrivano alle spalle, un palato che non si faccia subito tanto amaro di tristezza per silenzi che non ci meritiamo – o crediamo di non meritarci – una schiena che non si pieghi sotto il peso di un’altra assenza. Rimuovi le ombre che sporcano i miei ricordi, fammi dimenticare tutto quello che ancora mi inchioda i passi al suolo. Non portarmi più di un ragionevole numero di notti insonni. Se non riesco a dormire, deve essere per gioia ed emozione. Nonno diceva che ero troppo docile e arrendevole, che dovevo essere un po’ più prepotente. Aggiungi anche un po’ di sana, innocua, utile spavalderia, dunque. Fammi essere allo stesso tempo al riparo ma non nascosta, resistente e delicata, come una conchiglia.

Non ho ancora capito, e sì che sono passati più di quattro decenni, se io sia, agli occhi degli altri, una persona difficile e da cui è meglio tenersi lontano, qualcuno a cui è facile rinunciare; oppure, al contrario, un’amica con cui fa piacere stare, e da tenersi stretta, nonostante le mancanze, le distrazioni, i crolli, i difetti. Fammi incontrare per la prima volta, o incontrare di nuovo, e più spesso, amici e nuovi amici che mi aiutino a capirlo. Perché non sono perfetta, tutt’altro. Ma so ascoltare. L’anno che sta per partire, tutto questo, un po’ l’ha capito. E gliene sono grata.

So che hai da fare e non ti trattengo oltre.

Sii il benvenuto 2022. Come gli altri anni che finivano per 2 non togliermi troppo, stavolta.

E se lo fai, portami subito qualcosa che riempia e scaldi presto quel posto lasciato vuoto.

Che a non far caso agli spazi vuoti non sono ormai più tanto brava.

V.