Ora, non dico che mi sono capitate solo cose divertenti, mica si può essere sempre così fortunati. Ogni tanto il caso (e chi altro?) mi ha anche fatto incappare in proposte di lavoro assai serie, collaborazioni estremamente professionali, prestazioni di lavoro retribuite secondo il giusto o dove io ho potuto chiedere quello che secondo me era il giusto, secondo le mie capacità e mettendo a tacere la mia maledetta modestia e il pensare “oddio il vile denaro accanto alla mia nobilissima arte”! Con queste opportunità serissime ci ho mangiato, pagato affitti e mi sono anche concessa più spesa biologica e vestiti slow fashion di quanto fosse permesso a chi si trovasse nelle mie condizioni, ma questa è un’altra storia. Qui non voglio parlare di situazioni serie e lavori ben pagati. Qui voglio riferirmi solo a cose spassose.
Dunque.
Ricordo me, fresca (ma in via di stagionatura) di Laurea Magistrale, vagare per l’ufficio dei tirocini della facoltà di Lettere e Filosofia di Roma, la meravigliosa Babele di tutto, ed essere rimbalzata subito agli uffici del Comune di Roma, col mio vestitino a fiori leggero, i miei piedini 39 e mezzo frementi di nuove avventure e i miei sogni di cominciare a lavorare – in cambio quasi di nulla, perché c’era la crisi, di già – nel settore dell’editoria e del giornalismo. Perché pensavo che gli antropologi dove li metti stanno bene, si adattano, sono come l’acqua che prende la forma del contenitore, mentre lo corrode (problematizzandolo, ovviamente) piano piano dall’interno; sono come gatti di strada (ma anche di casa) che si fanno prendere in braccio e poi graffiano, ma poi sfoderano quegli occhioni e gli si perdona tutto. Perché noi antropologi ci adattiamo ma non abbassiamo la guardia mai. Mai. E siamo graziosi, si perdona tutto agli antropologi, il loro questionare tutto, la loro misantropia, la riflessività applicata anche ai gusti di gelato, all’aver trovato una brugola in più con l’ultimo Kallax ordinato. E poi sì, l’antropologia l’amavo ma il primo amore della letteratura e della scrittura non l’avevo certo dimenticato.
Ora, non ricordo la faccia di chi c’era dietro lo sportello, non ricordo neanche se ci fosse un uomo, una donna, un cavaturacciolo o un leone marino, ma ricordo le parole. Ricordo che le mie domande di tirocinio in quei settori vennero respinte perché essendo laureata in “Lettere – Antropologia” e non “Lettere – Letteratura”, non potevo garantire di saper scrivere. Che con la mia laurea avrei però potuto tentare qualcosa nell’assistenza sociale. Con la mia laurea potevo sopravvivere nella giungla o a Mikonos in alta stagione (mi ero laureata con una tesi in Etnologia delle Culture Mediterranee), ma non cominciare a lavorare per una casa editrice o un giornale anche solo in cambio, all’inizio, di un mero rimborso spese, e poi si vedrà.
I sogni non muoiono solo all’alba, ma anche in tarda mattinata, anche su un autubus scalcinato e vuoto che corre lungo il Circo Massimo. Pochi mesi dopo ero a Parigi, a ricominciare da capo per una strada che allora mi sembrava una benedizione e invece era la via verso il girone dei suicidi (professionali). Anche là, grasse risate.
Ma perché, perché, perché, andare così lontano nel passato?
Perché non pescare a piene mani negli accadimenti degli ultimi mesi?
Come l’offerta di lavorare come interprete italiano-inglese-francese-italiano per un convegno di *bumbambum* (nome omesso per ragioni di privacy), cinque giorni, a quindici euro l’ora. Ma possiamo arrivare a venti (per un lavoro del genere la tariffa minima è di 80 euro l’ora). No? Tranquilla, fuori c’è la fila di chi prenderà il lavoro al posto tuo e contribuirà a mantenere bassa questa tariffa. Avanti un altro, altra, altri.
Come “vorrei che facessi delle foto alla presentazione del mio ultimo libro” – e io cancello il mio impegno preso settimane prima per quella sera – e qualche giorno dopo, “l’editore non vuole sborsare cento euro per le foto, mi dispiace, le foto le fa gratis mio nipote/cugino/cognato/suocero/padrino di battesimo/sarto/fruttarolo che è architetto”.
Come “Cara Virginia, ho avuto il tuo contatto da *bumbambum* che mi ha parlato della tua professionalità come traduttrice e del tuo ottimo portfolio. Vorremmo tradurre in italiano direttamente da questa lingua parlata da poche centinaia di migliaia di persone al mondo il libro *bambumbim*. Potresti mandarci un tuo preventivo? Certo, subito, grazie di avermi contattata! Wow. Con il mio dottorato potrei andare ad allevare capre ormai, forse neanche quello, ma mi sto affermando come traduttrice! Settore editoriale, eccomi che torno! E non devo neanche mutarmi in acqua o gatto! Non devo neanche graffiare, o fare gli occhioni.
Voi li avete sentiti più? Non so, magari hanno scritto a voi. Perché a me non hanno più scritto, neanche per farmi notare quanto fossi stata avida nel pretendere quei 0,10 centesimi a parola. Ma poi, qualche settimana dopo ho visto il nome di un’altra traduttrice tra i vincitori di un’annuale competizione per fondi per la traduzione verso l’inglese come bridge language proprio di *bambumbim*. E il nome di chi non mi aveva più scritto, ancora, neanche per darmi della persona senza scrupoli che si approfitta di un settore sempre in crisi come l’editoria italiana, per la traduzione dalla lingua ponte all’italiano.
Che ridere.
O come quella volta che “vorremmo chiederti se fossi interessata a tradurre *bumbimbam*, non vorremmo tradurlo dall’inglese e sappiamo che da questa lingua parlata solo da poche centinaia di persone al mondo all’italiano ci sei tu, sei interessata? Certo che lo sono. Certo che ci sono. Ci sono solo io, per il momento, poi domani non so, ne sbucheranno altri come me, impazienti di divertirsi come me, di madrelingua italiana come me, che sanno scrivere bene come me. Che sono anche scrittori, come me. Ma ora ci sono io. Non che la cosa abbia ormai importanza, data anche la velocità di apprendimento dell’intelligenza artificiale (ma l’IA, si diverte come me? Non credo. Beccati questo IA). Quindi, io ci sono, sempre, ma non ci sono loro, o meglio ci sono ma un po’ defilati, del tipo: il progetto si fa, il libro si pubblica, ma la traduzione deve essere pronta in pochi mesi. Sì, l’editore è un po’ lento con le mail, diciamo che non le legge e non risponde, ma tu intanto comincia perché sennò non ce la facciamo. Ah, vorresti sapere quanto sarai pagata? Ah, vuoi fare tu un preventivo? Io so che più di xxx in passato non hanno pagato per la traduzione, sai sono una piccola casa editrice, ma molto prestigiosa eh! Quindi sì, tu fai pure il tuo prezzo, ma poi loro potrebbero rifiutare e trovare qualcun’altro… Comunque oltre la cifra di xxy non sono mai andati, ma era con quella famosissima traduttrice che di certo conosci e che ha tradotto xyz, e lei ha accettato comunque…! Eh, va così qua, qua è un lavoro che si fa per passione, io per quello che faccio dovrei essere pagata cinque volte tanto e invece… Il settore è così. Se lo vuoi fare dimmelo, altrimenti cerchiamo di tradurlo noi con l’autore che sa un po’ di italiano e poi lo aggiustiamo. Ah, sei ancora interessata? Ma vorresti un contratto prima? (Eh sì, che burlona che sono a voler sapere quanto mi pagherete). Ma si, che ti pagheranno, l’editore è lento con le mail, ma si farà sentire, stai tranquilla.
Sì, io sto tranquilla, e intanto mi diverto. Ho le lacrime agli occhi dal ridere.
Su tutti i “We regret to inform you” ricevuti poi negli ultimi anni da ogni istituto, istituzione, centro culturale, fondi pubblici e privati, residenze artistiche, anche dai sassi, con un picco incredibile nel 2022, non scrivo, perché poi potrei anche morirci di risate. E forse un po’ già lo sono, in fin di vita (professionale).
Ma volete mettere quanto mi sono divertita? Quanto ancora mi sto divertendo?

p.s. nella foto io che mi dissolvo. Sto ridendo ovviamente, non si vede per via della macchina fotografica davanti al viso, ma vi assicuro che rido a quattro ganasce.