La vera fantascienza

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Come l’anno scorso, ho sospeso ogni responsabilità nella scelta del posto che avrebbe risparmiato alla mia pelle precoci invecchiature, al respiro sospensioni indesiderate e agli occhi la vista di un’isola imbruttita, riempita fino al limite e allo stremo di quello che a stento riesce, non so come, ancora a contenere e che, neanche tanto lentamente, sta divorando anche lo spazio, il tempo e il silenzio dei mesi al di fuori.

Tutta Malta si sta facendo St Julian’s, tutto l’anno si sta facendo agosto. E chi l’isola la ama davvero e non ci è capitato come molti (i più spietati nel giudicarla e condannarla, ora) per ragioni economiche e di comodo, diciamo, chi l’isola se l’è cercata e ricercata, ne soffre tanto, ne soffre parecchio. La ricorda diversa, bella, appena sette, otto, dodici, tredici anni fa. E non solo perché gli occhi avevano un altro sguardo.

Anche Marta, una delicata e bella creatura, quasi elfica (per restare in tema con questo post), architetto di cuore e di fatto,  lo sa, lo sente.

Lo scorso anno a Belgrado, per un corso di lingua proposto da Ludo, quest’anno a Helsinki per accompagnare Teodor al WorldCon 75, dunque, defilandomi molto spesso dai labirinti di quella letteratura che lui tanto ama e in cui io non riesco mai a sostare più di tanto.

Lo dico con rammarico, e forse anche con una punta di ignoranza sul “genere” (detesto parlare di generi in letteratura, tuttavia), ma da buona e solerte divoratrice di libri, ho sempre trovato la letteratura “realista” (ancora generi, lo so) sempre molto più avvincente, più profonda, meno facile, per intenderci. Perché è nei limiti della realtà che la fantasia è ancora più messa alla prova, secondo me. Come ho anche cercato di spiegare (parecchio emozionata a dire il vero, sin dal momento in cui prendeva appunti su un’antropologia degli oggetti in cui gli dicevo di essere impegnata) a un amabile scrittore di fantascienza, Jeff VanderMeer, autore di tre libri di un’affascinante e intelligente storia disposti sui miei scaffali accanto ai vari Pavese e Calvino*.

Però poi, nel momento in cui scrivevo quest’ultima frase –  che è nei limiti della realtà che la fantasia è ancora più messa alla prova – mi sono venuti in mente questi versi

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;

o mente che scrivesti ciò ch’io vidi 

qui si parrà la tua nobilitate

i quali vengono da un’opera, la Commedia, che proprio realista non è, ma non è neanche l’altra, e allo stesso tempo lo è totalmente, lo è entrambe, è tutto, ed è il miglior lavoro di letteratura mai scritto.

Abbasso i generi dunque. Di tutti i tipi.

L’ho sempre pensato, in fondo. In letteratura l’unica differenza valida è quella tra una scrittura e una storia che ti prendono, ti consumano il fiato e ti mangiano di brividi e altre che ti lasciano là dove sei, o che ti passano appena addosso, come una piacevole brezza. Per cui sorridi ma poi tutto resta com’è.

Volevo parlare di Helsinki in realtà, non di letteratura, né di fantascienza. Anche se poi parlare di Helsinki è parlare anche di quello.

Parlare dei momenti in cui, defilandoci dal Worldcon 75, siamo capitati in quella che per noi è stata la vera fantascienza: una città organizzata in tutto, fatta di un’architettura intelligente rispettosa dei ritmi individuali e sociali, una logica organizzazione degli spazi, il riflesso del rispetto di tutte le categorie sociali e di età nei trasporti, nei luoghi pubblici, nei locali, nei negozi. Non c’erano non luoghi a Helsinki, questo è quello che ho avvertito. Troverò meglio, in futuro, argomenti per spiegarlo meglio. E non capisco chi, prima di partire, me ne ha parlato come di una città poco interessante, poco attraente, abbassando così, e ingiustamente, anche le poche aspettative che già avevo. Ora invece vorrei tornarci e vedere di più, vedere anche quello che c’è oltre.

Helsinki è una città che va letta tra le righe, che non svela il suo finale, che tradisce il genere che le è stato da altri assegnato: inizi a visitarla quieto, a “leggerla” credendola narrativa, e alla fine ti ritrovi a vagare ammaliato in uno dei boschi di Murakami.

*spero di leggere presto, in originale o in traduzione, anche le opere di altri scrittori incontrati in questi giorni e con cui ho condiviso tavoli e tavolini (Gregory Norman Bossert, Kali Wallace, John Chu, Anya Martin, Neil Williamson, Luís Rodrigues). Sono sì appassionata di antropologia da quasi vent’anni e su quello si spende la mia miglior parte, ma la letteratura resta sempre il primo amore e l’idea di poter parlare con uno scrittore dopo aver letto il suo libro è qualcosa di indescrivibile, il più delle volte pura fantascienza per chi, come me, nell’attesa di un panel al WorldCon, leggeva Tolstoj.

Appunto.

p.s.

un libro elettronico e la pellicola. Dimensioni dove credevo non sarei mai andata, altre in cui pensavo non avrei mai fatto ritorno.

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