Era ottobre, o novembre.

Era ottobre, o novembre. Sicuramente non dicembre. Era ottobre o forse novembre, perché tutto era ancora al suo posto. Poi l’anno si è sparpagliato, un anno che effettivamente non era stato male, ma ha finito con lo sbrindellarsi prima in strisce sottilissime che pareva però uno potesse afferrare al volo, stringere nei palmi e ricucire ma poi si è sfilato tutto quanto a precipizio di notte mentre dormivamo e ogni cosa ha preso a sparpagliarsi così tanto poi che alcuni orli si sono persi dissolti disintegrati, altri allungati in questo nuovo, questo altro anno pari, e ancora ce lo imbrigliano, se lo tirano dietro e non lo lasciano andare, come è giusto che sia, perché è troppo presto per scrollarsi dalla testa le strisce e le carte e i corridoi di notte vuoti le corse le attese gli schermi che lampeggiano puntini rossi verdi e le parole giuste e quelle di troppo e qui solo i famigliari e chiedete non leggete svegliati svegliati e parole ancora inappropriate da bocche inappropriate e quelle che non voglio più sentire lo so cosa accade non devo dirtelo di nuovo il blu dei camici le ore le cene grazie addio le mani il sonno come una benedizione la casa un porto e poi silenzio e l’albero ancora da disfare dieci giorni dopo la befana che sarebbe stato il nostro secondo natale dopo il venticinque il pranzo insieme solo noi cosa avrei cucinato cosa avreste portato quando quando è stato l’ultimo pranzo insieme qui il mio compleanno possibile così tanto tempo fa.

Era ottobre o forse novembre e avevo scritto e poi ridotto all’osso, per il solito conteggio delle parole che richiedono i concorsi, un racconto su una persona che avevo incontrato durante una mia prima ricerca mediterranea; l’avevo cercata su internet e avevo scoperto che era venuta a mancare solo da un paio di anni. Mi era dispiaciuto non averla più cercata. Era una donna colta, energica e innamorata della sua isola e aveva fatto molto per salvarla da rovina, distruzione e corruzione, cose a cui invece, su quest’altra isola, tanti sembrano correre incontro a braccia aperte. Volevo scrivere qualcosa su di lei ma non sapevo come. E volevo parlarne, ma allo stesso tempo nasconderla, proteggerla, ribaltare la prospettiva del nostro incontro, allora, nel mese di aprile dell’anno 2003 su un’isola dove non sono più tornata, perché poi ne ho scelta un’altra di isola che mi ha dato tanto, prima di cominciare a togliermi ancora di più. Era ottobre o forse novembre.

Catia e la ragazza

Ha i piedi bagnati ma non ci bada, mentre attraversa il giardino della pensione Gelsomino, di proprietà della sua famiglia da mezzo secolo. Anche quella mattina le scarpe preferisce non indossarle subito. Le ha riposte in una sacca, assieme a una busta per una spesa leggera, solo per lei. L’ordine per il ristorante ormai lo va a prendere Vanni col furgone, e meno male che quel ragazzo resta con loro tutto l’anno, non come gli altri che se ne vanno a ottobre e poi a maggio se li devono riprendere perché non hanno ancora trovato altro.

Anche lei lo guidava il furgone, e ci si divertiva pure a fare tutto da sola, ma ora non si fida più dei suoi occhi, e ancora meno delle sue mani che tremano, tremano anche adesso che accarezza i gatti che le si parano davanti per un altro boccone di cibo, prima che lei dica loro che se ne riparla a pranzo, e si lasci il cancello, il giardino e l’acuto dei loro miagolii alle spalle.

La randagia, così la chiamano, per questa mania di andarsene in giro avanti e indietro, più volte al giorno, scalza, con i capelli bianco neve arruffati, un soprabito di lino nero che le arriva alle ginocchia e che ha lasciato aperto a sventolare su una camicia di seta grigia e una gonna che si restringe verso l’orlo e che le disciplina i passi, dice, che altrimenti le uscirebbero troppo sgraziati. Vederla così, ogni giorno, per le stesse strade, alla stessa ora, mette di buonumore chi la incrocia, come se ad andare loro incontro fosse l’immagine di un futuro innocuo con il volto schietto della donna che ha tirato fuori dalle loro lingue e da quelle dei loro figli, per quarant’anni, la sintassi e la tabelline, e che adesso scandisce il loro tempo: scende ed è ora di avviare la giornata, di essere operosi, anche nelle piccole cose; sale ed è già quasi ora di pranzo e quello che s’è fatto s’è fatto, altrimenti si rimanda al giorno dopo, che il pomeriggio è ancora troppo caldo anche per fare liste, e fino alle quattro non si deve fare rumore. E quando la vedono scendere ancora, intorno alle cinque, per andare al cinema o a messa, e ripassare dopo le sette, allora è tempo di dedicarsi alle ultime commissioni, e prepararsi per la cena. E il giorno appresso è tutto tale e quale.

Catia dà un’occhiata all’orologio. La ragazza l’aspetta di fronte alla discesa della cattedrale, ma è ancora presto. Sembrava felice, la sera prima al telefono, che lei l’avesse richiamata per dirle che le avrebbe raccontato altre cose della sua famiglia; o almeno così le è parso. D’altra parte non può lasciarla tornare a Roma senza prima parlare di suo padre, che non sarà stato nobile, ricco e istruito come sua madre, la tedesca, ma per farli stare tutti bene non si è mai lesinato, e per loro c’è stato sempre, anche quando sua madre tornava a Napoli dai suoi per settimane, o se ne andava in giro per l’Europa in cerca di volumi per la biblioteca e reperti per il museo. Qualche volta l’ha accompagnata anche lei, prima di sposarsi, mettere al mondo due bambini, e insegnare a leggere e a scrivere a tutta l’isola.

Catia fa una smorfia e scende gli scalini in pietra ammorbiditi da una cascata di ciuffi d’erba. In fondo, la piccola piazza dove si trova la chiesetta di San Bartolomeo, brilla già di sole e calore. Si avvicina. Il portone è aperto, ma dentro non c’è nessuno. Un raggio si è fatto strada nel buio dell’interno e si è posato su una nicchia vuota.

“Professoressa, ma è vero che le spoglie del santo ce le hanno rubate? O è una cosa che diciamo ai turisti tanto per farli contenti?”

Una voce alle spalle. Ѐ quella di Mimmo, il ricamatore di Aci Trezza.

“Mimmo, buongiorno. Contento il turista siamo contenti tutti”.

“Eh. Quando me lo chiedono è così che rispondo: il santo non c’è, è partito. Anzi, ce l’hanno rapito. E con lui tutto quello che aveva, come corredo. Però è una bella chiesa, aggiungo, qua se preghi San Bartolo lui t’ascolta subito, perché non devi sgomitare per farti vedere, non devi alzare la voce come quando vai alla cattedrale, con quei soffitti alti, quelle punte, sempre piena di forestieri che fanno foto, e le tue preghiere che fanno la fila come alla posta”.

“Ma che dici Mimmo, il santo mica sta allo sportello e tu prendi il numeretto, che importa da dove preghi? Però anche a me piace di più questa chiesetta. Il funerale di Aldo lo abbiamo fatto qua”.

“Sono venuto, ma non sono riuscito ad entrare, troppa gente. Però tuo fratello lo avevo già salutato la settimana prima”.

“Che vuoi dire?”

“Che aveva bussato alla mia porta, gesticolando come sempre, indicandosi la gola. E io gli ho dato un po’ d’acqua e poi l’ho accompagnato fino all’albergo, gli ho lasciato dei fili in mano da contare, per dargli qualcosa da fare”.

“Ti ringrazio Mimmo, sei stato gentile. Ti saluto, che ho un appuntamento”.

Catia trattiene le lacrime che già le annacquano lo sguardo, a dire che è triste basta e avanza quello che indossa, non serve che parli anche il viso. La ridondanza è volgare. Anche a scuola, ai suoi alunni, insegnava la semplicità.

Nella via ci sono due case in vendita, e quella dove gli americani si sono appena trasferiti ha delle ringhiere nuove ai balconi, dritte, alla maniera delle città. Le loro panciute e floreali non andavano forse bene? Pensa Catia. E che ne sarà quando i nuovi abitanti si stuferanno anche dei loro ariosi ma piccoli porticati e ne vorranno di più grandi?

Scuote la testa, guarda di nuovo l’orologio. Si sente stanca oggi, più del solito. Chiederà alla ragazza di aiutarla con la spesa e di accompagnarla a casa; cucinerà per lei, le racconterà più cose, le mostrerà pure le lettere appassionate di quel famoso regista per quell’attrice svedese, che lei dimenticò in camera quando finirono di girare il loro film, cinquant’anni prima. Quando sua madre gliele aveva lette le si erano arrossate le guance, e poi le erano divenute ancora più rosse, perché se ne era accorta.

La stradina acciottolata è quasi finita, Catia si mette le scarpe. Le altre volte le domande le ha fatte tutte la ragazza, l’antropologa, e lei ha cercato di risponderle meglio che poteva. Ma oggi è diverso, è lei che ha deciso di parlare, che guiderà le fila del discorso, chiedendole anche perché si sia rivolta proprio a lei e non allo storico del paese, come fanno tutti. E se abbia intenzione di tornare.

E dopo averle raccontato del padre, dell’albergo, il primo dell’isola, e della zia Felicetta, monaca in casa, le dirà anche di suo fratello Aldo, nato sordomuto, in giro tutto il giorno per quelle strade, mentre l’Alzheimer se lo mangiava, con in tasca un foglio con scritto “fermati e aspettami. Catia”. E una settimana prima di morire era scomparso e lo avevano cercato ovunque, per ore, finché non lo avevano ritrovato nella sua stanza, con dei fili in mano. E ora sa chi ringraziare.

Ma il desiderio che ora ha lei di perdersi, dimenticare ogni cosa, rivedere la sua isola con occhi nuovi ogni mattina per poi trovare sempre mani gentili per tornare sana e salva a casa, quello, invece, se lo terrà tutto per sé.

Featured image: foto mia di Lee Ufan, Tea in the Field, 2023, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia (settembre 2023).