Viaggio, la vigilia. Pensando ad altri viaggi. Parlando di altri viaggi.

Ben cinque anni che non viaggiavo ad agosto – e Roma non fa testo, Roma è come uscire da casa mia, percorrere un corridoio di ore e ritrovarsi, sempre, a casa mia. Ben cinque anni. Domani sarà ancora la città bianca, e dovrei rispolverare almeno il mio cirillico, allargare il mio vocabolario qualche parola in più oltre doručak, burek, voda e vidimose. E mentre la valigia attende di essere riempita nel modo meno intelligente e più frivolo possibile (la mia terapia della frivolezza è sempre là) ho pensato che in questo mese di viaggi per tanti altri come me, in quello che è il mese dei viaggi, il mese che per molti anni ho sempre identificato con un paese arroccato in alta collina, circondato dal verde, battuto da piogge, il mese del “portati un giacchetto che fa freddo”, agosto, sì, agosto! ho pensato di fare una breve lista di tutte le altre volte che ho scritto di viaggi. Non pensate di trovare cose come dieci cose da non perdere a…, cosa vedere, cosa fare e cosa mangiare a. O la descrizione impeccabile e utilissima di come arrivare, come girare, dove dormire. C’è già chi lo fa meglio (e meglio di migliaia d’altri) e con più disciplina e metodo di me. Con più attenzione per i dettagli, più cura per il proprio pubblico di lettori. Io no. Io, come dice lei, non si sa mai da dove arrivo e con quali mezzi. La descrizione migliore che mi sia mai stata data. Vale per tutto. Un passepartout. E se non so bene da dove arrivo e con quali mezzi non posso che restare sul vago, girare in tondo, fermarmi più del dovuto in posti che tanti neanche considerano: se mi leggete mettete in conto queste soste, se mi leggete vi perdete. Leggetemi se volete perdervi. Scrivo sui miei viaggi così come camminerei nella nebbia, per ore, senza fermarmi neanche per un bicchiere d’acqua, cogliendo ombre, forme, cercando di diradarla a mani nude, mescolando tutto quello che incontro con l’oltre che ogni luogo sempre evoca, la memoria di posti che si sono lasciati troppo presto, ma che nonostante tutto continuano ad abitarci. Ogni viaggio, anche in un posto nuovo, è per me sempre un ritorno, una lettura tra le righe, la scoperta di strade che avrebbero potuto essere la mia quotidianità, se e solo se.

Oddio, poi qualche posto bello da vedere e qualche altro dove fermarsi a mangiare ce l’ho pure messo eh. Non sono completamente sprovveduta. E dunque, voilà!

Sulla città bianca, la bellissima Belgrado (e dintorni) in attesa del terzo racconto, di giri ce ne sono già due:

Da Est a Ovest, non posso non fermarmi nella mia Roma, una città dove mi sembra di non tornare mai davvero, ma da dove forse non sono neanche mai completamente partita, dove sono sempre, anche quando sto lontana:

Roma che è sempre il punto di partenza per qualcos’altro, come le terme, altri mari:

Un po’ più a ovest, sul margine dell’oceano, la bellissima, gialla (come la crema dei quotidiani pasteis de nata e la limonata), rossa d’uovo, multicolore, straordinaria Lisbona (con una punta a Sintra):

Oltre oceano… Toronto! Il viaggio per l’International Festival of Authors (dove Teodor era stato invitato) e del jet-lag (il mio) più lungo della storia dei jet-lag. Il viaggio del mio incontro con scrittori nativi canadesi. Chi dice che scrivere non ti porta da nessuna parte?

Sempre per motivi letterari (e per sfuggire all’orrido caldo dell’agosto maltese) c’è stata anche Helsinki con la sua pioggerellina e i suoi magnifici 15 gradi estivi. Helsinki e un salto a Tallinn, già che c’eravamo.

Anche l’antropologia fa viaggiare. Ecco un fugacissimo ricordo, impalpabile come un fiocco di neve, di quei due giorni a Innsbruck.

E infine Parigi, Parigi igi igi, come posso dimenticare Parigi? Tornerò mai a vivere a Parigi?

E presto, presto vagherò tra le righe di luoghi non ancora messi nero su bianco, come Amsterdam, Torino, Split, Dubai. E Malta. Forse è il caso che qualcosa che non siano lagne su questa benedetta isola la scriva pure, a un certo punto.

Buon agosto. E spero che dove sto andando piova almeno un po’.

Perché per tanti anni della mia vita agosto era il mese delle piogge. Non è agosto, senza pioggia.

Mentre Olivia dormiva…

Lady Olivia ancora ignara dell’arrivo di Duke Orsino, esattamente un anno fa.

…O forse era sveglia e si stava chiedendo perché avessimo preso dall’armadio quella borsa che le fa tanto paura, perché è la borsa con cui di solito la costringiamo a lasciare il suo territorio per andare dal veterinario (quando sua maestà pelosa non riceve la visita a casa), o per prendere un aereo. Forse era sveglia e si era nascosta, e forse poi a dormire si era messa davvero mentre noi, a piedi, raggiungevamo un rifugio di gatti (Rescued Paws Malta, ndr) nelle campagne qui vicino con in testa gli occhi grandi e irresisitibili di un gattino, intravisto tra i tanti pronti per essere adottati. Quel gattino ce l’eravamo un po’ sudato, diciamo, in una lunga intervista il giorno prima, intervista che mi aveva messo addosso non poca ansia: e se poi salta fuori che non siamo adatti a tenere gatti? Chi glielo dice a Olivia dopo tutti questi anni? Come potrò ormai andare avanti io, che sono gattara da quando ho praticamente cominciato a stare in piedi da sola?

La prima immagine di Duke Orsino (o Orsino, o Orsetto o Pampepato), dopo aver superato l’intervista e avere avuto accesso alle foto dei gattini pronti per l’adozione.

Ma l’intervista era andata bene e così potevamo andare a prendere il gattino, quello a cui era stato dato il temporaneo nome di Milo (e che, non lo sapevamo ancora, lo stesso veterinario di Olivia aveva visitato, sverminato e spulciato qualche giorno prima, per di più credendolo una gattina – pretty girls, aveva detto a lui e alla sua banda di fratellini – ed etichettandolo poi però come un esemplare di felino ferocissimo e di cui era ancora assai spaventato quando, qualche giorno dopo, glielo avrei riportato per una visita: “Tienilo tu”, mi avrebbe detto, “l’altra volta ha tentato di uccidermi”. Orsino, questo eri tu, gattino tra i più dolci del mondo. Un gattino che incuteva terrore. Tu, con quegli occhi col kajal, quelle zampette e quelle orecchiette a punta).

Milo-Orsino lo avevamo “scelto” tra altri, lo avevamo “scelto” per quegli occhi grandi e luminosi, e il manto di quelle sfumature di neve e roccia per cui io ho sempre avuto un debole, perché sono gli stessi colori di gatti dolcissimi, fieri e intelligenti, come Kiwi e Grigetto, che avevo già avuto la fortuna di incontrare.

Lui non era molto d’accordo sulla nostra decisione. Anzi, proprio non ne voleva sapere. Ha provato a spacciare suo fratello per lui, e a farlo adottare al posto suo, scappava, si nascondeva, si ribellava con tutte le sue forze, che per dimensioni ed età non erano poche. A un certo punto, quando mi è stato consegnato, mi ha morso, soffiato e graffiato – mentre altri gatti facevano a gara per infilarsi nel trasportino lasciato aperto e farsi portare via. Ma io sono di coccio. Volevo lui. Volevo quegli occhioni. Quelle orecchie a punta.

Ma cominciavo anche a perdere, a poco a poco le speranze, guardandomi un po’ intorno in cerca di alternative. Non mi andava di costringerlo.

Se non ci voleva non ci voleva, pace.

Dopo quella reazione non proprio incoraggiante, tuttavia, lui non era tornato a nascondersi come prima, ma si era raggomitolato su una copertina gialla, all’interno di un contenitore di plastica sistemato su un carrello a un metro da noi e ci guardava. Ed è a quel punto che Teodor mi fa: “He blinked at me”. Aspetta, wait.

Fermi tutti.

Qualche speranza c’è ancora. Un gattino che ti strizza gli occhi è un messaggio dall’universo. La vita che prende un bivio inatteso. Con l’aiuto del tipo del rifugio proviamo dunque a riprenderlo, lui ancora si ribella, ma alla fine lo mettiamo nel trasportino. “Lucky boy”, gli dice lui, nell’accomiatarsi da quel micetto trovato appena dieci giorni prima a Mosta assieme ai suoi due fratellini (altrettanto forastici), con un bacio sulla fronte. Orsino continua a non condividere la nostra scelta, trasformandosi di nuovo e ancora di più in una palla di pelo soffiante, sbraitante, miagolante, urlante che cerca di fare a pezzi, dall’interno, la borsa, e continuando a esprimere il suo ferino, primordiale e ferocissimo dissenso per tutto il viaggio di ritorno, con me preoccupatissima per lui, per Olivia, per noi, perché non era così che me l’ero immaginata quella nostra piccola idilliaca avventura alla ricerca del nostro nuovo gattino. Gattino che per nulla al mondo avrei mai riportato indietro.

A casa, seguiti da un’Olivia assai curiosa e un po’ perplessa, lo mettiamo al sicuro, isolato, nel mio studio, con acqua, cibo e lettiera e là lo lasciamo. Lui non mangia quasi nulla, ma esplora intorno, butta giù dalla scrivania qualcosa e usa la lettiera, come il più diligente dei micetti. Dopo qualche ora ancora fugge, ancora ci evita, ancora si nasconde, ancora soffia, ancora è del tutto terrorizzato dal non sapere dove si trovi, con chi e perché. Lo lasciamo ancora tranquillo, con Olivia che da dietro la porta smania per sapere cosa stia accadendo. Poi, lentamente, a sera, forse stremato, lo troviamo accoccolato e apparentemente calmo sulla sedia girevole. Mi avvicino, gli faccio annusare la mia mano, gli appoggio un dito sulla fronte per accarezzarlo. Soffia ancora ma, allo stesso tempo, comincia a fare le fusa. Soffia e fa le fusa. Non sa più neanche lui cosa deve fare…

Il resto della storia parla di un gattino meraviglioso e affettuoso che cresce a vista d’occhio, che cresce quando non siamo in casa, che è nemico giurato delle mie piante, loquacissimo, che ama giocare con i tappetti del latte di mandorla, che si emoziona quando pulisco le verdure, perché sono altri potenziali giochi. Il resto della storia parla di almeno cinque mesi (cinque!) di suoi tentativi quotidiani e strappacuore di conquistare la bella e riluttante Lady Olivia, la quale, come la sua shakespeariana omonima, lo respinge, lo evita, gli soffia, lo tiene a relativa distanza finché la pertinacia di Orsino-Orsetto-Pampepato – e il freddo delle case maltesi – non la fanno cedere.

Il resto della storia è Olivia che non dorme più da sola.

Se la cosa le faccia piacere o meno, l’autrice di questo blog non è però in grado di dirlo con certezza. Olivia è Olivia, e anche se è felice della presenza di Orsino, non lo ammetterà mai.

All’anno che arriva domani

Caro anno nuovo,

Entra e mettiti comodo sul divano, se vuoi prenditi una tisana, una fetta di pandoro, un po’ di miele di castagno. Gli anni pari mi fanno sempre un po’ paura, soprattutto quelli che finiscono per 2, ma tutto quello che ci spaventa alla fine spaventa di meno, se lo guardiamo da altre prospettive, se lo affrontiamo con un cuore rinforzato.

Entra piano in casa, stanotte, per non spaventare Orsino. Ancora è molto timoroso e si nasconde quando sente passi nuovi sul pianerottolo e dentro casa. Olivia si affaccerà alla porta per vedere chi arriva. Accarezzale la fronte, falle qualche coccola, lasciale dei croccantini: è stato un anno non facile per lei, ma è rimasta dolce e meravigliosa.

E io ti chiedo solo questo, caro 2022, un cuore più robusto per resistere al ghiaccio dei legami che si frantumano all’improvviso senza una ragione, né la possibilità di porvi riparo. Dammi uno stomaco meno incline alla nausea vorticosa delle delusioni che arrivano alle spalle, un palato che non si faccia subito tanto amaro di tristezza per silenzi che non ci meritiamo – o crediamo di non meritarci – una schiena che non si pieghi sotto il peso di un’altra assenza. Rimuovi le ombre che sporcano i miei ricordi, fammi dimenticare tutto quello che ancora mi inchioda i passi al suolo. Non portarmi più di un ragionevole numero di notti insonni. Se non riesco a dormire, deve essere per gioia ed emozione. Nonno diceva che ero troppo docile e arrendevole, che dovevo essere un po’ più prepotente. Aggiungi anche un po’ di sana, innocua, utile spavalderia, dunque. Fammi essere allo stesso tempo al riparo ma non nascosta, resistente e delicata, come una conchiglia.

Non ho ancora capito, e sì che sono passati più di quattro decenni, se io sia, agli occhi degli altri, una persona difficile e da cui è meglio tenersi lontano, qualcuno a cui è facile rinunciare; oppure, al contrario, un’amica con cui fa piacere stare, e da tenersi stretta, nonostante le mancanze, le distrazioni, i crolli, i difetti. Fammi incontrare per la prima volta, o incontrare di nuovo, e più spesso, amici e nuovi amici che mi aiutino a capirlo. Perché non sono perfetta, tutt’altro. Ma so ascoltare. L’anno che sta per partire, tutto questo, un po’ l’ha capito. E gliene sono grata.

So che hai da fare e non ti trattengo oltre.

Sii il benvenuto 2022. Come gli altri anni che finivano per 2 non togliermi troppo, stavolta.

E se lo fai, portami subito qualcosa che riempia e scaldi presto quel posto lasciato vuoto.

Che a non far caso agli spazi vuoti non sono ormai più tanto brava.

V.

‘Since you came here, you brought another island in you’

Questa mattina mi trovo a riscoprire, come se uno potesse davvero dimenticarlo, la potenza della scrittura che ci fa dono di ubiquità spazio temporale, ora che non possiamo muoverci più di tanto. Ho ricevuto questi giorni una mail da una persona sconosciuta, alla quale è stato consigliato di contattarmi per un progetto. Tutto sembra essere partito dall’interesse suscitato per quanto scrissi su Undertow (Ede Books, Malta, 2016), una bella pubblicazione uscita a conclusione della prima fase di Rima, le cui copie sono ora esaurite (tempo di una seconda ristampa?). Di quanto scritto ricordavo poco, a dire il vero, e quindi, per capire cosa avesse colpito i miei interlocutori, sono andata a rileggere quel mio finale contributo, e con occhi quasi nuovi. Ammetto che la sorpresa è stata piacevole*. Lo ripubblico dunque qui sotto, per chi volesse dedicargli qualche minuto.

‘Since you came here, you brought another island in you’

My ideal place is the one in which it is more natural to live as a foreigner: that is why Paris is the city in which I got married, I settled, I had a daughter. My wife too is a foreigner: among the three of us we speak three different languages. Everything can change except for the language we have inside, or better, which contains ourselves as a world more exclusive and definitive than the maternal womb

(Italo Calvino, 2002).

With no consideration, no pity, no shame, /they have built walls around me, thick and high. /And now I sit here feeling hopeless.I can’t think of anything else: this fate gnaws my mind –/ because I had so much to do outside. /When they were building the walls, how could I not have noticed! /But I never heard the builders, not a sound./ Imperceptibly they have closed me off from the outside world

(Konstandinos Kavafis, 1879).

Under any circumstance, migration is not just about a rupture: an immediate, ineluctable change. It also determines a kind of self-perpetuation that, unlike the decision that gave it an impetus, carries out through slow, deep and constant rhythms. So, while on the surface all we record is the turmoil of a sudden change in the scenery and the vague farewell to long-ago tamed landscapes, deep down, a continuous process to perpetuate the awareness of who we are, symbolically, emotionally and contextually, moves forward, by blending memories and expectations. Leaving a city, a land, an island to head toward other cities, lands, islands, is one founding act – among many others – by which the individual claims, makes sense of, and establishes the continuity of their presence in the world. One could argue that, beyond the many meanings and consequences covered by such an experience, the act of migrating represents a kind of multi-situated ritual of presence just in the moment of the utmost exposure of the individual to the risk of losing themselves, to the inevitable fragmentation of their old and familiar horizon.

Horizon. The word jumps out at me during one of our interviews. My interlocutor remembers how, far from home, she misses a particular horizon quite badly – one that occupied her glance for a long time. Among the pages of a beloved text of mine, the italian author Cesare Pavese imagines a dialogue between Odysseus and Calypso. These are the words of the nymph: “if you do not renounce to your memories and dreams, if you do not lay your eagerness down, eventually accepting the horizon, you won’t ever escape from the fate that you know.” (Pavese, 1999: 101)

The fate of Odysseus we all know (and later Homer, Dante and Pavese remind us of it quite vividly) is one of restlessness. Restlessness about knowing, leaving, “ma misi me per l’alto mare aperto” (Alighieri, 1304-1321, v.100), he tells the reader – once imprisoned into a blazing hellish flame, according to the author in exile from his florence. Restlessness of returning. “Since you came here” – Calypso continues through the words that Pavese gave to her – “You brought another island in you” (Pavese, 1999: 103).“I have been searching for it for a long time. You don’t know what it means to catch sight of land, squint my eyes, but only to see that each time, I’ve deceived myself. I cannot accept that and merely remain silent.” (ibid.) – Odysseus replies. The horizon is not a mere faraway line, a view, a city, an island. It is not just something that, year after year, determined our world of imaginaries and possibilities. All this aside, a horizon is something that slowly passes through our flesh, to engrave its shape onto a permanent inner landscape – it is among the many ‘mother tongues’ which we speak in.ambivalent, malleable and elusive, both abstract and concrete, ours and someone else’s… that’s what this horizon is. Likewise the presence, our peculiar being in the world made by memory and experience, that across the line of such horizons stands out, traces and draws its lines; or finds in them its limits, and starting from them, any possible way out. The issue of the presence, and of the wonderful way the italian ethnologist Ernesto De Martino dealt with it (De Martino, 1973), is one of the key concepts of anthropology, the discipline to which I ritualistically turn to make sense of the world. My twenty-year relation with it, with its reasoning, the departure it pushed me into, the people I met thanks to it, the complex and eclectic looking glass it put between my glance and the world, have traced the most consistent part of a multifaceted perceptive, emotional and cognitive inner landscape; in other words, the coordinates of my being here and now. Being in the world means the creation of a reiterative, ritualistic and narrative connection with various times and places: with one’s own homeland, and with the soil where, at the present, our feet are grounded. Sometimes these places coincide, sometimes they don’t, so that the places of our maturity are different to the ones of our childhood. Nevertheless, the thread connecting us to the place we come from is the same thread we let loose when we run towards what we hope, or what we fear, awaits us in the future. It is this thread that ends up weaving what is both the intimate and collective – and certainly complex – storyline that makes up an individual. Intimate because it’s the result of experiences and choices which are individually unique; collective because, besides being the story of a life culturally and relationally structured, it also reflects experiences that are universally shared across centuries and latitudes. Universally shared experience, but also an issue implying detachment, loss, renouncement, struggle and courage, migration comes to us as a delicate matter, and as such it needs to be handled with care.in this regard, an approach that doesn’t shy away from the lacerations of the experience, but which is also able to dedicate space to the strategies and practices which aim to rebuild the individual’s life – and which do not stop at mere survival – proves to be not only necessary but also attentive to the delicacy of the process, to every facet of it. Within many discourses about migration, this would enhance the possibility to address, beyond the exceptionality of the stories, also common and comparable acts, susceptible to encourage a fruitful dialogue and, thanks to that, a possible overcoming of that iniquitous power of position, language and representation that seem to contaminate even the most emphatic and open-minded among us. Differences should be taken into account without, nevertheless, allowing them to limit a reciprocal and necessary translation. One has to remember that, by switching from a burdensome issue for us to a tragic and dramatic issue for them, the dangerous coincidence between migration and problem does not disappear, it simply shifts perspective. In other words, addressing the issue by simply evoking misery and distance means condemning both the process itself and its protagonists to a multiple and definitive alienation.

On the contrary, by reconstructing in the narration the details of a daily life to be structured again through projects, relations, carried, forgotten or lost objects, family ties, the individuality of the migrant ceases to be the indefinite and instrumental protagonist of a statistic, of an newspaper article, of a picture taken beyond a fence, on a boat, along a dusty road. It regains substance and complexity. It reclaims his peculiarity through a self-narration. Between what I am and the story of my life, there is an equivalence, Paul Ricœur emphasizes (Ricœur, 1988: 7). and what we are goes far beyond simply boarding and waiting.

Various migrant voices found themselves in the act of speaking a common language made by daily practices and ordinary habits, objects and places of memory; by the many strategies to build again, elsewhere, a sense of home. By details and contents that, ultimately, represent a shared and fundamental support of our being in the world, both in the mobility and in the immobility. After all, putting together different experiences through similar aspects is all about locating that point of convergence between horizons, which, though differently traced, are nevertheless the result of the same efforts and expectations. Obviously, in every experience of radical displacement, the structuring of one’s own presence, now elsewhere, requires far more reiteration and support than what’s needed in a ‘non-mobility’ situation.now, it could also happen, for various reasons, that these supports are slippery, difficult to recognize, hard to recall.

Then, something universal like literature can always be of some help – literature being an absolute and vital lieu de mémoire and a source of hope, and increasingly more ‘equal’ space because by being less western and eurocentric, it creates a strong backbone of discourse which anyone and everyone can contend with.that is why, in these pages, the reader found literary fragments directly intertwined with our collected narratives.“it is always about accepting a horizon, and for what?” (Pavese, 1999: 101) – claims odysseus, captive on the island of ogygia for seven years.i think, to come back to the beginning, that facing a horizon we always face a choice. It is always about accepting a horizon. Or leaving it. Or building it anew, because, and this is for certain, every horizon comes from a perpetual construction.it both faces our eyes and is not completely there; it is model and aim, past and present.and while the old horizon, with its profile, lights and sounds, takes on the mantle of nostalgia – as a source of refuge, rejection or idealisation – the new one calls for endless effort on our part; an effort in which daily practices, intentions, symbolic, affective and relational negotiation play a prominent role.

I am writing within the walls of my seventh, different home. I go mentally back to all the rooms where I seated down, ate, wrote, read, thought, left objects on the shelves, clothes in the wardrobe, unpacked luggage. When I think of all my lost homes, I think about the wardrobes, the first instant between their walls, with an open luggage on the floor. A horizon too is something we do and undo. a composition. The placement of objects, people and places on a far, vague shelf, throughout the narration by which, mentally and verbally, we put ourselves into a story of departures and returns.

“L’éternel errant n’a pas droit au retour”, the eternal errant lost his right to come back, Jean Claude Izzo writes, quoting Michel Saunier, at the beginning of his novel, Les marins perdus, the story of a dramatic limbo where feelings and memories get stuck (Izzo, 1997: 4). As is often the case, when it comes to departures. Nevertheless the impossibility of a return is partially true. It is true that nobody can come back to the place he or she left, because of reasons both inherent and beyond us. At the same time one cannot deny that every departure drags behind and perpetuates the breach to a new return, to more than one return. In the end, to return is but to find ourselves again, elsewhere.

References

Alighieri Dante, La Commedia – Inferno, canto XXVI, v. 100, 1307-1321, written in exile.

Calvino Italo, Eremita a Parigi (Hermit in Paris), Mondadori, Milano, 2002.

Ernesto De Martino, Prolegomeni a una Storia del Magismo (The Magic World. Prolegomena to a Story of Magism), Einaudi, Torino, 1973.

Kavafis Konstantinos, – “Ithaca” (31, 1911), in Poesie d’amore e della memoria (Poems of love and memory), Grandi tascabili Economici Newton, Roma, 2006. trans. Edmund Keeley and Philip sherrard, edited by George savidis, 1992. – “Walls” (1, 1897), op.cit. trans. Edmund Keeley and Philip Sherrard, 1992.

Izzo Jean-claude, Les marins perdus (Lost Sailors), Éditions Flammarion, Paris, 1997.

Pavese Cesare, Dialoghi con Leucò (Dialogues with Leucò), Einaudi, Torino, 1999 (1947).

Ricœur Paul, La componente narrativa della psicoanalisi (The narrative component of psychoanalysis), Metaxù, vol. 5, 1988.

Toronto: un appannato déja-vu.

Il viaggio per il Canada è iniziato una mattina d’estate del duemiladiciannove, qui a Malta – dalla sorpresa di un invito non a me indirizzato ma che non avrei perso* (quello di Teodor al Toronto International Festival of Authors) – e finito a Roma qualche settimana fa, su una panchina all’ombra di via dei Gracchi, quando con mamma e Gaia ci siamo passate le ultime foto appena ritirate dal negozio di stampe poco distante. Gaia con una granita di basilico e zenzero, io e mamma con un altrettanto indimenticabile pasto freddo preso nella gelateria più buona di quella riva.

Quel viaggio non poteva che finire a Roma, visto che da Roma era passato, sia all’andata che al ritorno, negli ultimi giorni di ottobre dello scorso anno.

Dell’andata abbiamo un’esperienza diversa. Tranquilla per lui, febbri (ec)citante per me. I viaggi verso luoghi nuovi sono sempre una piacevolissima e tonificante doccia fresca. A volte hanno anche le conseguenze delle docce fresche, quelle da cui non ti asciughi subito, prendi freddo e ti ammali. E infatti stavo poco bene, già all’imbarco, lo sono stata per tutto il volo. Ho rivisto il sempreverde Ghostbusters, poi La favorita, forse Get Out (o era al ritorno?); tentato di cominciare IQ84, cercato di ingannare le ore e il malessere con le parole crociate, crittografate, gli anagrammi, gli uniscipuntini, i coloracaselle, mangiato appena. Pensavo all’Atlantico sotto di noi, a come ci stavamo distanziando da tutto e mi sentivo già sazia: di blu, di viaggio, dell’attesa e dello stupore di ritrovarmi presto con i piedi su un altro continente.

Siamo partiti poco prima di pranzo e atterrati appena dopo, mentre sul corpo trascorreva la fatica di ben sei ore e mezzo. Ai controlli arrancavo dietro il carrello delle valigie e le parole che avrei dovuto usare per descrivere al personale della dogana le ragioni del mio viaggio, ma quelle mi scivolavano dalla lingua, ancora troppo impastata di stanchezza, ancora in bilico sull’oceano. Due ragazze del Festival ci attendevano all’uscita, sorridenti, con due bottigliette d’acqua. Frastornata tentavo di recuperare pezzi sparsi di attenzione per non dimenticare quel nuovo ingresso cittadino in cui ci addentravamo veloci. Le strade dagli aeroporti ai centri delle città si somigliano tutte – ho pensato. Finché, da lontano, l’emergere veloce dei grattacieli non ha contraddetto quel prematuro pensiero.

Quando penso a quella giornata la sensazione più forte è che non volesse proprio saperne di finire. Ricordo come, sperando di accelerarla, mi sono infilata subito sotto le lenzuola tese e fresche di un letto gigante al ventinovesimo piano, in una stanza verde scuro con vista su uno spicchio di città e sull’Ontario, una stanza dove del mio sonno non avrei saputo più che farne (come ho scritto tempo dopo in una poesia su quei giorni) per altre tre notti e mezzo, svegliandomi puntualmente tra le due e le tre.

Il mio primo jet-lag è stato la somma di tutti quelli che non avevo avuto fino ad allora.

Ricordo anche: tanti altri giorni di quasi totale inappetenza, una città appannata e udita da lontano, oltre il vetro della stanza, oltre il muro del mio orecchio ancora chiuso, oltre la sciarpa con cui cercavo di parare il freddo. Un bel ristorante dove non sono riuscita a finire un’ insalata e una torta di mele (ancora, l’inappetenza. Ma anche la notevole porzione – finita poi, a fatica, a cena in camera), e dove la cameriera mi ha fatto notare che le piaceva molto il mio maglione rosso brillante e io ho pensato che di rosso non vesto quasi mai.

E poi una colazione fresca di frutta e yogurt, alle cinque di mattina, in camera, quando mi è tornata la fame, ma solo per lo yogurt e la frutta. Un pranzo cinese troppo abbondante per un errore di comunicazione; una festa con torri di cupcakes; un altro pranzo in un accogliente ristorante su Ward’s Island che pareva fatto apposta per raccogliere marinai e guardiani di fari, dopo una passeggiata ventosa e ondosa, quando ho omesso la mia intolleranza per la cipolla pensando che sul pesce non ci sarebbe finita e ho dovuto aspettare, come tante altre volte, che preparassero di nuovo il piatto.

Mattine e sere trascorse all’ultimo piano dell’altra torre dell’hotel, barcamenandosi con piatti, tazzine, bicchieri di vino e argomenti interessanti da tirar fuori, con scrittori autoctoni (i veri autoctoni!) e con scrittori da tutto il mondo (ma con cui avevamo comuni amicizie maltesi – il mondo è piccolo, Malta non tanto come ci si aspetterebbe), ogni volta accolti da una ragazza italocanadese che raccontava di aver studiato a Milano.

Era dalle vetrate di quella suite adibita a spazio letterario comune che scrutavamo le isole di fronte, raggiunte poi in pochi minuti grazie a una piccola giornaliera imbarcazione; isole con le casette per la villeggiatura nascoste dietro le fronde, solo sentieri e bassi steccati, nessun cancello, nessun muro. Ricordo gatti che sbucavano dai cespugli come personaggi di filastrocche e anche come, successivamente, quel piccolo microcosmo felino di rive lacustri e giardini sia diventato poi il mio riferimento visivo per lo sleepcast Cat Marina, su Headspace – e questo mi rammenta ora quanto sia pessima e incostante nella meditazione. Ricordo i parchi con le loro mareggiate di foglie gialle, arancio e rosse, le fughe a scatti degli scoiattoli.

Ricordo una della prime sere, la sera più bella forse, quasi fuori dal tempo, trascorsa in un cinema, il Revue, dove proiettavano The invasion of the body snatchers, un cinema che sapeva di velluto rosso e popcorn al burro, in un quartiere di villette già tutte bardate per Halloween e strade come le scenografie di film masticati già centinaia d’altre volte.

Ricordo i dinosauri, il puzzle delle loro ossa giganti ricomposto nelle sale del bellissimo Royal Ontario Museum. Le vetrine di rocce.

E poi gli altri dinosauri, quelli della cittadina pendente verso le cascate del Niagara, dove l’acqua precipitava come risucchiata in un buco che non era nero, no, ma di luce e spuma bianca, vaporoso, tagliato dal volo intermittente dei gabbiani che apparivano e sparivano tra le nubi. Quelle stesse cascate che, ben prima che potessi imprimerle per la prima volta sotto le palpebre, erano state da sempre un ricordo anch’esso fittizio, una memoria stropicciata.

E memoria pre-figurata era anche quella dello scroscio, della spuma, del vapore freddo, dell’affaccio.

Dell’elemento principale di quel fragore invece, dell’acqua in sè, paradossalmente, nessuna pre-immaginazione. Come se quelle cascate fossero state, da sempre, solo di carta. Eppure l’acqua era ovunque, sulla lunga balaustra, sulla terrazza, nei tunnel, sul temerario vaporetto, nell’aria, nelle pozzanghere, sui capelli, sulle giacche, sull’obiettivo della Minolta che un po’ esponevo al rischio e tanto cercavo di proteggere.

L’acqua era la vera differenza capace di ridestarmi da quel sogno, dalla sensazione di non trovarmi più solo nei fotogrammi di un paesaggio percorso già col pensiero decine di volte ma, al contrario, nell’umida tangibilità di quell’altrove, dell’altrove più altrove in cui avessi messo piede. In un altrove dove era opportuno che i piedi, almeno loro, restassero asciutti.

Ricordo, infine, il ponte tra Canada e Stati Uniti, la nostra sospensione breve tra due paesi così diversi e il timore (irrazionale?) che, d’un tratto, i nostri passaporti non fossero più validi, che non potessimo più andare né dall’una né dall’altra parte, e che si dovesse restare per sempre su quel ponte a fissare le cascate da lontano, a seguire la loro corsa sfrenata di stelle filanti d’acqua a precipizio nel lago. E fissarle e fissarle fino a farle riavvolgere come bobine tra lo sguardo e il cervello perché ritornassero di nuovo sogno, memoria asciutta, ricordo di carta o cellulosa, fotogrammi sgranati di un film che qualcun’altro avrebbe poi visto sullo schermo di quel cinema che sapeva di velluto rosso e popcorn al burro.

*A huge thanks goes, of course, to the TIFA organisers Teodor was in contact with, who welcomed me and allowed me to enjoy the festival and the festival related events, even though I wasn’t there as a writer. Thank you!

E ora?

E ora, cosa faremo adesso? Sarà la stessa cosa di quando decidi di curarti gli occhi miopi, dopo decenni di mondi impressionisti nello sguardo? Sarà come passare da un risveglio senza contorni, solo colori, a un altro di bordi sempre più definiti? Quando sai che tuttavia devi aspettare, perché gli occhi devono imparare di nuovo a vedere (e la tua mente anche) o a distinguere, una a una, le lettere sulla pagina di un libro (i miei li rieducai su Cime Tempestose) e prendersi tutto il tempo di cui hanno bisogno per farlo? Quando devi trattenerti prima di guardare uno schermo, perché la luce fa male, e ti dici che aspetterai, che non c’è niente di urgente, niente di davvero essenziale nel virtuale e in quel ciarlare, in quel momento? Sarà così la nostra rieducazione a un mondo che non ci eravamo davvero soffermati a capire in tutti questi anni, a cui davamo solo occhiate distratte, e che inseguivamo, a nostra volta con l’idea bislaccca di dover sempre sbrigarci, come se qualcuno ci corresse sempre dietro? Sarà che capiremo che la vera urgenza è quella legata a cose più essenziali, la salute, l’istruzione, il rispetto, la gentilezza? E l’intelligenza collettiva di leggere e capire, a una a una, le istruzioni per questo nuovo mondo a cui dovremo addomesticarci piano, ci sarà? E per scriverne di nuove, chi prenderà in mano la penna?

Di cosa è fatta questa primavera

Da quando questo universale rinchiudersi è cominciato, al di là di una ragionevole ansia sui cambi di direzione che avrebbe comportato e continuerà a comportare, mentre si cercava di mettere insieme – più come un minestrone che come un ordinato mosaico – il nuovo assetto del nostro quotidiano, si è anche cercato di non soccombere all’assedio fragoroso di 30, 100, 1000 modi di impiegare il tuo tempo! Cosa vedi fuori dalla tua finestra? Metti a posto i tuoi vestiti in ordine alfabetico! Gli ortaggi in frigo secondo tutte le sfumature dell’arcobaleno! Hai mai provato a fare un Mont-Blanc a casa? Creatività a tonnellate, prendine una manciata! Iscriviti a questo gruppo! Arte, musica, poesie da condividere, visite on-line di musei, città… Sì, dico a te, ma stavi davvero pensando di oziare sul divano tutto il pomeriggio a seguire le curve di intonaco e i disegni della luce sul soffitto? A leggere? Ad ascoltare musica? Senza gli occhi piantati su uno schermo? Attenzione! Leggete tutti l’ennesima mail sull’innumerevole quantità di strumenti per la didattica on-line che abbiamo a disposizione, questo mi sa che vi è sfuggito! Continuità! Facile, facilissimo! So excited! Thanks technology, thanks! Ready for the next lecture!

La clausura (qui a Malta) era iniziata da un minuto e sedici secondi e già c’erano persone di fronte allo schermo, a ripetere la loro lezione, con un sorriso da guancia a guancia, quello dei primi della classe, di chi è sempre stato più svelto a salire sul treno; mentre io mi chiedevo ma cosa vi siete presi?

E pensavo, fermiamoci. Fermiamoci qualche minuto o tre giorni interi a guardare i movimenti di questo nuovo paesaggio sociale da lontano, in silenzio, per vedere oltre l’opacità di questo più che previsto rivolgimento, non construendoci subito una facciata di blanda illusione che la norma sia ancora replicabile, perpetuabile, per poi a far sapere a chiunque, come un urlo nella rete, che wow, sì, puoi farcela anche tu. TU.

Io.

Io, cosa ho fatto?

Io, che già da settimane vivevo su altri paralleli, cercando di soffocare l’angoscia per quello che stava accadendo in Italia; io che rinchiusa in me stessa ci sto da una vita, e in casa la maggior parte del tempo (specie in seguito a certi terremoti sociali a cui ancora non riesco a rimediare) quando non viaggio, quando non nuoto, quando non ho appuntamenti di lavoro, quando non vado in cerca di altri posti per stare sola. Io che preferisco stare dietro un obbiettivo che davanti. Davanti lo trovo sempre inopportuno, invasivo, violento. Che ancora non rivedo i video della mia discussione di laurea. Che a malapena riesco a sostenere la vista di quelli delle recite scolastiche di trenta anni fa.

Io, di cosa ho riempito questa strana primavera?

Non di quello che avrei voluto, non così spesso. Le lezioni hanno iniziato a prendermi molto più tempo di quello che normalmente ci voleva prima. Tre, quattro volte tanto. Organizzare la spesa per mangiare pure. Dimenticare quanto l’esperienza di uscire sia divenuta disturbante (anche se non così limitata come in Italia) non ne parliamo. Immaginare cosa potesse servire e tutte le combinazioni utili e intelligenti per resistere almeno due settimane, lasciamo perdere. Cucinare sempre tutti i giorni anche per un’altra persona e non risolvere in dieci minuti con un riso in bianco o una fetta di pane e pomodoro anche.

Capire cosa leggere, cosa ascoltare, a chi dare retta. Come non soccombere a un virus anche più infido, quello dell’acriticità, del pensiero comodo, della generalizzazione.

Dalla sua cella lei vedeva solo il mare. Dalla sua cella lei avrebbe solo voluto vedere il mare. E spera di non scorgere due lune…

Questo è solo un preambolo. Scampoli di tempo per inseguire altro ci sono stati.

E quidi alla prossima, presto, con una serie di frivolissimi post dedicati, tra le altre cose a

Libere colture di capelli bianchi

La gioia di scoprire (avendolo dimenticato) l’esistenza di un terzo volume del già lunghissimo romanzo su cui sto da mesi e avere così da leggere altre 395 pagine di una storia che proprio ora sembra fatta apposta per queste giornate. Cambiato il paesaggio, cambiate le regole.

Il mancato cambio di stagione. Stagioni in casa.

Meditazioni sul tetto.

Ricette e Propp.

E chissà che altro, chissà. È quasi estate, tempo per svuotare il tempo, ce n’è.

Grecia in sogno

La scorsa notte ho sognato di andare in Grecia. Non era che la breve tappa di un viaggio più lungo e di cui non saprei dire la meta finale. Ricordo solo una limpida e pura sensazione di felicità per quelle poche ore di transito in Grecia. Ad Atene, per la precisione. Ricordo di aver detto a Teodor che era con me, “dai corriamo a vedere il Partenone!”.
Non sono mai stata in Grecia ed è strano, perché è quel posto che di solito capita assai presto, quando si hanno ancora pochi anni, ma abbastanza per andare in giro da soli. Ma io, per cominciare ad andare in giro da sola, ho dovuto avere la “scusa” di una ricerca, una cornice accademica intorno, inquietudine insopprimibile e molti anni di più.
Non sono mai stata in Grecia (io, innamorata di Mediterraneo e di cultura classica, io che snobbo il Rinascimento al Louvre e co. per perdermi tra statue, fregi e cocci di vasi), non sono mai andata a studiare inglese a Londra (o chissà dove), non ho mai fatto un Interrail, quando tutti, intorno a me, andavano in Grecia, a Londra, in Interrail.
Forse è per questo che stare ferma troppo a lungo, ora, mi fa male alle gambe, che non aver studiato greco resta il mio più grande (scolastico) rimpianto – e una delle ragioni per cui lasciai Archeologia dopo un anno di università, migrando verso la più fascinosa, intensa e accattivante antropologia – lei sì che mi avrebbe portato via da casa.

Forse è per questo che ancora sogno la Grecia, e ancora me la lascio da parte, come quel boccone che appare più delizioso di tutti gli altri e per questo, nel piatto, lo si lascia alla fine.

Sperando sempre che non si tratti di cipolla.

Tempio delle Nereidi
British Museum, Londra

Scritti in barattolo

Contavo i giorni che sono stata via quest’anno. Fanno settantaquattro, se ci aggiungo le notti a Gozo. Più di due mesi con la testa su altri cuscini. E sì che mi ero ripromessa che sarei stata buona buona in casa, a scrivere. Invece c’è stata Roma, sei volte, e sono felice di aver trascorso quattro di quelle con Kiwi, prima che se ne andasse, il dodici agosto.

Gatto mio bello, il mondo è davvero meno dolce senza di te, senza il tuo occhio color ruscello di montagna e l’altro di nebulosa di stelle.

C’è stata Parigi a fine gennaio, Parigi che ancora mi mette a disagio visitare da esterna, non viverci più. Quei tre giorni a San Valentino a Innsbruck, per lavoro, e nelle pause le Alpi, il freddo, la neve e la sacher di cui avevo bisogno. Il mio compleanno a Lisbona, una città che profuma di crema, pagine di vecchi libri e limonata. E poi i viaggi di cui ancora non ho scritto – ma lo farò presto, appena consegnati i due articoli, le mie sudate carte d’autunno. Amsterdam, una sorpresa verde e fresca, e il volo oltre oceano, il primo, a Toronto, che ancora se ci penso non ci credo. Strana e velocissima Toronto, dirò presto qualcosa anche di te. Qualcosa in realtà ho già detto.

Sono stata parecchio fuori, ma anche parecchio ho scritto. Traduzioni, articoli accademici, un articolo per una rivista, un racconto per un concorso (è arrivato tra i primi cinque, non ha poi vinto), l’ennesima correzione a un romanzo che ho iniziato più di dieci anni fa e chissà se sarà mai pubblicato. E poesie. Io non scrivo poesie, di solito. Ma quest’anno, anche ispirata da un paio di eventi dove sono stata coinvolta come traduttrice di poesia dal maltese, m’è venuto da buttar giù qualche verso, di tanto in tanto.

L’ultima poesia si intitola Jet-lag. Quel che in effetti ho già detto di Toronto.

E quindi la promessa l’ho mantenuta. Ho scritto. Anche se i miei scritti sono per il momento come conserve di frutta diversa messe in barattolo, ognuna con una diversa etichetta (prosa, poesia, traduzione, antropologia, altro), appoggiate sullo scaffale del quando la apro non si sa ma dovrò a un certo punto, una per una, il prossimo anno. Saranno saporite, profumate, belle. Sono sempre così, tante cose che rileggi, dopo tanto tempo.

p.s.

Buon Natale, intanto. Anche di questi giorni di festa, di quanto mi manchi essere a casa con tutti, e di quanto ormai non si possa più essere a casa con tutti, avrei dovuto scrivere. Ma ci sono cose di cui nulla, neanche i versi, possono parlare. Solo i pensieri a occhi chiusi, i viaggi veloci tra ricordi di voci e lampi di visi e stanze, quelli che parlano tutte le lingue e sono traducibili in nessuna.

Il viaggio d’acqua

Il giorno prima di partire per Roma, a casa, è mancata l’acqua. Le bottiglie che di solito riempio e lascio piene per le piante sono servite a sciacquare via giusto il primo strato di sale, dopo un tuffo al mare. Il secondo e forse il terzo sono rimasti sulla pelle che è partita dunque assetata, impaziente di acque ben più sciape.

Alba di casa

Fuori da Fiumicino l’aria era già più fresca e clemente. Il giorno dopo era nuvolo, e ha piovuto. Quant’era che le narici non si riempivano di umidità buona e fresca? La pioggia ha fatto saltare il programma di recarsi tutti insieme alle terme, spostato al giorno dopo, e ci ha portato in centro, ad assistere al fenomeno di una città che si svuotava come una vasca a cui è stato tolto il tappo. A Malta non succede, Malta non si svuota mai.

Mentre percorrevamo le vie dietro Corso Vittorio ho ripensato che, quando si è a Roma, più di scarpe a prova di sampietrini (e no, le espadrillas piatte non lo sono) e un voto di resistenza alle gelaterie (miseramente fallito), è importante mettere in borsa una bottiglia vuota; e poi iniziare a vagare senza mete precise, ma con una lista – vaga – di posti in cui ci si vorrebbe di nuovo – casualmente – trovare e se non succede, pazienza. In tutti questi vagheggiamenti c’è però una costante e questa costante è il nasone, la fontanella. Non si va in cerca della fontanella, tuttavia. La fontanella è una cosa che capita, una bella sorpresa, come la neve e l’arcobaleno. L’acqua che ne esce è la migliore che si sia mai bevuta (se poi ci si vuole dissetare con acqua pura e buona come il miele, almeno così si dice sia, bisogna camminare fino a piazza Barberini, alla fontana delle api – luogo in cui, stavolta, non ci siamo imbattuti).

Il giorno dopo, finalmente, le terme di Chianciano. Ho perso il conto del tempo passato in acqua, sotto gli spruzzi, tra le bolle, a far sonnecchiare beato lo sguardo nel verde di un boschetto tutt’intorno, sotto l’ombra. L’acqua è il mio spazio di meditazione e riappacificazione con il mondo. Che sia il mare, il getto di una doccia o una piscina, l’acqua mi restituisce a quello che sono, a quello che vorrei essere: liquida, fresca, trasparente e vestita di tutte le sfumature del blu. Chiare, fresche e dolci acque.

Acqua, mescolata con altri ingredienti trasformati in qualcosa di divino, è quella che ci siamo ancora concessi prima di fare ritorno nel Lazio. Tre agosto duemiladiciannove è il giorno in cui credo di aver mangiato una delle pizze migliori di tutta la mia vita al ristorante Re al Quadrato di Chianciano: pomodorini, colatura di alici, alici, burrata e prezzemolo. Più gli assaggi alle altre: margherita e marinara. Chi dice che la felicità non può essere mangiata e perfettamente digerita?

E poi, infine, ancora mare, perché il mare è come la pizza, non se ne ha mai abbastanza. Sempre in Toscana, dove abbiamo fatto ritorno, ai piedi dell’Argentario. L’ultima volta che mi ero bagnata nel mio Tirreno era stato nel 2008, durante un paio di giorni a Orbetello con due care amiche antropologhe, prima che il destino ci disperdesse come correnti marine. Orbetello anche questa volta, ma dall’altra parte del promontorio, a Ansedonia. Guardando dal mare verso la spiaggia ho ricordato che il mare italiano è anche contrasto tra spiaggia libera e l’occupazione degli stabilimenti, e poi alternanza tra l’una e gli altri per chilometri, a perdita d’occhio.

L’acqua era una danza di rametti e sabbia, limpida e piacevole ma così diversa da quella a cui ora sono tornata. Acqua turchese, un poco mossa, che ho salutato questa mattina, facendomela di nuovo famigliare nel mio volo liquido tra tanti pesci e una medusa.