La fontana

Racconto inviato la scorsa primavera per il concorso letterario Caffè Corretto, città di Cave (qui il regolamento per il 2020). Selezionato tra i primi cinque, arrivato quarto, mi sembra. Funziona così: ti danno un incipit e tu scrivi tutto il resto.

La fontana

“Silvia e Antonio non ci potevano credere, ma finalmente l’hanno trovata. E dopo tanto cercare, gli sembra impossibile averla tra le mani. Infatti per un po’ restano così, immobili a fissarsi, e a fissare questa vecchia scatola blu.

-Aprila tu-, dice Silvia.

-No, sei matta, aprila tu. Anzi, secondo me dovremmo proprio lasciarla chiusa, sai.

Ma non è vero. Anche lui muore dalla voglia di vedere cosa c’è dentro. Se è quel che pensa, se è qualcosa che invece non si aspetta proprio, se è valsa la pena di cercarla così tanto. Alla fine lo fanno insieme, le loro dita che si sfiorano mentre aprono la scatola. E insieme, Silvia e Antonio perdono il respiro.”

            L’idea che la prozia Marga celasse chissà quale segreto in qualche vetusto contenitore o nel doppiofondo di una credenza, aveva da sempre solleticato la loro curiosità, oltre ad arricchire le estati della loro infanzia di continue spedizioni per tutte le stanze della villa appartenuta da sempre alla taciturna e solitaria parente. Era, la sua, l’ultima casa di un paesino di collina, dove erano soliti trascorrere il mese di agosto. Sebbene nessuna di queste ricerche avesse mai dato il risultato sperato, i due cugini non se ne erano mai fatti un cruccio. Le eccitanti e interminabili avventure carponi sul pavimento o tra i cespugli del giardino, le scoperte immaginate oltre gli sportelli serrati di un armadio, in fondo ai cassetti gracchianti, sotto i cuscini di velluto dei divani, nelle imbottiture delle poltrone, sotto una mattonella un po’ traballante, erano già una ricca ricompensa. Da settembre in poi, inoltre, aveva inizio tra i due cugini una fitta corrispondenza fatta di congetture su nascondigli non ancora valutati e di supposizioni evocanti una miriade di passaggi segreti, tra cui un tunnel sotterraneo che dalla villa avrebbe condotto alla grande fontana al centro del giardino, sul cui parapetto la zia soleva camminare, incurante del rischio di finire in acqua, una volta all’anno, sempre lo stesso giorno, un giorno di agosto.

Vi si arrampicava senza alcuna difficoltà, allo stesso modo con cui riusciva a inerpicarsi agile per tutte le scale di casa, nonostante l’età avanzata.

Marga era sempre stata alta e magra, le spalle larghe e dritte, e fino ai cinquant’anni, i capelli castani e lunghi fermati da una coda. Non si era mai sposata e si manteneva dando lezioni di pianoforte e solfeggio ai bambini del paese, almeno tre volte a settimana. Sebbene avesse più di settant’anni, era riuscita comunque a non perdere la maggior parte delle forme slanciate che l’avevano accompagnata per quasi tutta la sua vita. Solo i capelli si erano fatti bianchi come neve e il viso era ora appena un vago suggerimento di quella che era sicuramente stata, se non una convenzionale bellezza, almeno una graziosa leggiadria. Leggeva molto e annotava le impressioni ricevute dalla lettura su un taccuino color celeste. Era anche solita foderare tutti i suoi quaderni e gli spartiti con carta dello stesso colore. Non cucinava, non aveva voglia o forse non aveva mai imparato, ma aveva una vicina che le portava sempre qualcosa da mangiare e le andava a far spesa, in cambio di qualche spicciolo, di un vecchio soprammobile di famiglia o di un recital privato. Pur non uscendo quasi mai, e anche nei giorni in cui non aveva lezioni, trascorreva sempre almeno un’ora abbondante seduta alla toletta, intenta a truccarsi e ad aggiustarsi i capelli. A volte, nell’acconciarsi, si concedeva il vezzo di un fiore fresco colto dal giardino, sistemato con cura sopra l’orecchio destro.

Con i nipoti era affettuosa, faceva sempre trovare loro regali, soldi per il gelato e  non se la prendeva se le mettevano a soqquadro la casa durante i loro giochi. Ma di sé non diceva mai nulla, cosa le piacesse, cosa le passasse per la testa, come avesse vissuto prima che loro venissero al mondo. Questo, assieme ad alcune sue abitudini, non facevano che acuire l’idea che la zia celasse un enorme segreto.

Avevano infatti notato di come, ogni volta che il cielo si rabbuiava e minacciava tempesta, Marga fosse solita dirigersi verso la finestra più vicina e con l’indice tracciare sul vetro parole invisibili, sussurrando frasi impossibili da cogliere, arrestandosi di scatto quando le prime gocce iniziavano a cadere. A quel punto chiudeva brusca le tende e riprendeva quella o quell’altra particolare occupazione interrotta a causa di quel bizarro rituale la cui durata non era mai completamente prevedibile. A questo strano gesto si aggiungevano poi le già citate rischiose camminate intorno all’acqua della fontana.

Ora, caso volle che un anno, quel particolare giorno di agosto in cui la zia ripeteva come sempre il suo tradizionale giro sul parapetto, il cielo si stesse anche rabbuiando, con la solita sollecitudine che hanno i temporali estivi. E così, come suo solito, dopo aver dedicato stavolta appena pochi secondi a quella impalpabile formula sul vetro, Marga si era precipitata in giardino, seguita dai due nipoti. Per la prima volta, aveva pregato Antonio che le desse una mano per salire sulla fontana, insistendo poi che non restassero là fuori, che tornassero in casa, ma loro non le avevano obbedito; almeno fino a pochi minuti dopo, quando i tuoni si erano fatti più prossimi e la superficie dell’acqua della vasca aveva iniziato a tintinnare di piccole gocce. Solo allora si erano precipitati in casa. Poco dopo l’avevano vista rientrare senza fretta, sorridente e fradicia dalla testa ai piedi.

Mentre si chiedevano come avesse fatto a scendere da sola e a bagnarsi in quel modo in così poco tempo, la zia aveva loro chiesto di attenderla in salone, perché c’era qualcosa che doveva loro assolutamente raccontare, non poteva crederci, finalmente era successo, ma poi era corsa di nuovo fuori, in cerca di qualcosa.

Quella era stata la loro ultima estate nella villa. Prima della fine di quello stesso anno Marga fu condotta a forza in una clinica privata dove avrebbe passato i successivi quindici anni.

Ha fatto ritorno alla villa solo da qualche settimana, e trascorre la maggior parte del tempo a letto, accudita dalla figlia di quella stessa vicina che per tanti anni si era presa cura di lei. Anche Antonio e Silvia sono tornati dopo tanto tempo per farle compagnia, assisterla e forse trovare il momento giusto per chiederle perdono: erano state infatti le loro parole a convincere i genitori che la zia non ci stesse più tanto con la testa e a fare in modo che fosse ricoverata. Senza valutare le conseguenze, quasi per scherzo, loro che della zia non dicevano mai nulla, avevano riferito ai loro genitori di quello strano giorno e dell’incredibile successivo racconto di Marga, della pioggia, di una scatola blu che avrebbero dovuto portarle e subito – perché non c’era tempo da perdere – della successiva disperazione della zia per una chiave smarrita.

 – Ti dico io cosa ha smarrito quella! – aveva inveito allora il padre di Antonio.

La dura decisione presa dai genitori e la fine definitiva delle loro vacanze con la zia mise fine anche alla loro amicizia. Smisero di inviarsi lettere, di telefonarsi. Quella complicità aveva solo provocato danni e quindi era meglio farla finita. Due cugini che smettono di parlarsi non è poi cosa così rara, e infatti nessuno ci fece caso. Nelle rare riunioni di famiglia che seguirono, in occasione delle feste, di qualche matrimonio e di un funerale, riuscirono sempre a schivarsi, salvo poi cercarsi da lontano, tenendo l’uno lo sguardo nell’altro quel tanto che bastava per sospendere quella distanza e cullarli brevemente nell’illusione che il passato potesse essere riacciuffato e cambiato, cosicché sarebbero tornati a trascorrere l’ultimo sprazzo delle loro estati nella villa della zia, con la zia, per sempre. Ma poi l’assenza di Marga pesava come quei due massicci aironi di marmo al centro della fontana incriminata, il groppo nelle gole s’ingrossava fino quasi a soffocarli e lo sguardo finiva altrove, in luoghi più leggeri. 

Eppure lei non sembra avercela con loro. È felice di rivederli, è lei a scusarsi per prima: per non essere più in grado di accompagnarli in giardino, per non avere la forza di alzarsi dal letto.

Al dottore che accettò il ricovero, la madre di Silvia riferì tra le lacrime come le dispiacesse che una donna come Marga, la quale era stata così brillante in gioventù, sebbene sempre un po’ con la testa fra le nuvole, si fosse poi reclusa come una monaca nella villa di famiglia; che nonostante questo lei e suo fratello si fidavano di lei, tanto da affidarle i figli per settimane, ogni anno; che un po’ se l’aspettava, quel suo essere andata fuori di testa, ma così presto no, decisamente no. Poteva almeno aspettare che i due cugini fossero maggiorenni. L’ultima frase però la pensò e basta, mordendosi il labbro inferiore per quell’indelicatezza che le stava inquinando i pensieri. Suo fratello, invece, riferì in maniera assai inaccurata il racconto con cui Marga avrebbe, a suo dire, messo in subbuglio l’animo di suo figlio e quello della figlia di sua sorella. Segno che, più che il racconto in sé, gli interessasse provare come avesse sempre avuto ragione sulle stranezze della zia.

– Si rende conto? Il mare! Il mare dentro una fontana, con lei che aspetta che piova per poter finalmente imparare a nuotare e ritornare al mare. Ma quando mai mia zia l’ha visto il mare? Non ha mai fatto un passo al di fuori dei cancelli della villa o tutt’al più al di là di quelle colline. Chiedeteglielo! Io gliel’ho chiesto, anche l’ultima volta che ci ho parlato, per scrupolo: zia Marga, questo dove tu vivi è un paese dell’interno, il mare è lontano, oltre le colline, hai mai fatto un passo per uscire dal paese? E lei: no caro, mai. E io: zia, dimmi la verità, sei mai stata al mare? E lei: certo caro. Ma si rende conto? Non ha mai fatto un passo fuori dal paese eppure è stata al mare! E mio figlio doveva correre in cerca di una scatola dimenticata chissà dove, finire di nuovo sotto la pioggia e i fulmini, assecondare le visioni di una vecchia pazza e buscarsi chissà che malanni, se non peggio! Sapevo che era strana, ma fino a questo punto!

Marga dorme. Il suo viso pare fatto di carta, pare una lettera scritta, appallottolata, raccolta di nuovo, riaperta e infine lisciata per potere essere letta ancora.

Dopo averla salutata, Silvia e Antonio vanno in giardino, si siedono sul parapetto della fontana asciutta con i piedi verso l’interno. Antonio le fa notare come un airone non abbia più il becco.

– Secondo te era vera quella storia del mare? – chiede Silvia.

Antonio scuote la testa. È il diciannove agosto, lo stesso giorno in cui Marga aveva l’abitudine di camminare in circolo dove loro ora sono seduti. Silvia se ne rende conto solo in quel momento e tutti i diciannove agosto passati lontano da quel giardino le sembrano non essere mai davvero trascorsi. Prende la mano di Antonio e gli sussurra:

            – Mi sei mancato. Come abbiamo fatto a sprecare tutto questo tempo lontani? Lontani da qui? Io ci credo invece alla sua storia. Che ragione aveva di inventarsi tutto?

Nella vasca c’è appena un rivolo di acqua verdastra sul fondo, terriccio tutt’intorno e un oggetto di metallo arrugginito e sporco che non permette ai raggi del sole di farlo brillare ma che non sfugge allo sguardo di Silvia.

 Intanto, nel suo letto, Marga sogna. Sogna di una lontana giornata trascorsa al mare, l’unica della sua vita, la giornata in cui in cui non aveva avuto il coraggio di imparare a nuotare. Era stato tutto così veloce, come le nuvole che quel pomeriggio le passavano sulla testa e che seguiva con lo sguardo ogni volta che, dopo avere inforcato la bicicletta e aver raggiunto un prato poco lontano da casa, si sdraiava tra l’erba a immaginare cosa potesse esserci oltre quei soffici cumuli, e verso che altri orizzonti si stessero recando. In quali altri sguardi sarebbero scivolati di lì a qualche ora.

Quanto tempo è passato? Quanti anni da quel giorno? Ottanta? Di più? Non ricorda neanche la sua età di adesso. Gli anni si sono sciolti in giorni identici e incolori, immobilizzata in un letto non suo, a seguire con gli occhi non più le nuvole ma i sentieri delle crepe sul soffitto, sperando che la conducessero comunque altrove. Gli anni sono scaduti in interminabili minuti a strusciarsi per le pareti bianche dei corridoi, a stringere le sbarre alle finestre, con l’amaro di tutte le pillole che le hanno fatto ingoiare e che, se ci pensa, le ristagna ancora nel palato. Ha smesso di misurare gli anni dal giorno in cui ha dovuto lasciare la villa e ora non ricorda più neanche che forma abbiano i numeri. Ricorda però che era molto giovane, che le piaceva osservare il cielo, le nuvole e, tra quelli, i bimotori che le trafiggevano come frecce, aerei diretti chissà dove, quell’ anno di guerra che nessuno sapeva che sarebbe stato l’ultimo ma tutti non facevano che desiderarlo. E un giorno d’estate, un giorno d’agosto, un aereo era atterrato all’improvviso nel vasto campo tra la villa e il resto del paese, a un qualche centinaia di metri dai suoi piedi.

Era una vasta e sgombra area lasciata apposta vuota e incolta per permettere ai piccoli mezzi di atterrare, fare rifornimenti, portare medicinali, consegnare la posta. A dire il vero quello non era il primo aereo che Marga aveva visto atterrarle vicino e per questo era rimasta immobile e tranquilla, almeno fino a quando un ragazzotto robusto e sorridente non ne era sceso, venendole incontro. Si era poi presentato dicendole di averla già vista dall’alto, sul terrazzo della villa o nel suo giardino, poco prima di ogni suo atterraggio. Era però la prima volta che la scorgeva ai bordi del campo e si era detto che doveva assolutamente conoscerla, parlarle. Le aveva rivelato di come ogni cosa dall’alto apparisse come su una tavolozza e tra i colori lei fosse sempre la pennellata più bella. Le aveva poi detto del nero delle rocce, del verde scuro degli altipiani, dei tanti blu che colorano il mare, ma tra tutti quei blu nessuno era luccicante come il vestito che ora lei indossava.

Il mare.

Marga non c’era mai stata e glielo aveva confessato, con un po’ di imbarazzo. Lo sguardo di lui s’era illuminato, l’aveva presa per mano, pregandola di seguirlo, assicurandole che sarebbero stati via appena qualche ora. A Marga era parsa la cosa più naturale del mondo salire su quel piccolo aereo e farsi portare al mare.

– Anche tu mi sei mancata – le risponde Antonio – Forse hai ragione, la zia era sincera. Non avremmo dovuto deriderla, dirlo ai nostri genitori. Ti rendi conto che è rimasta in quel posto per quindici anni a causa nostra? Io sarei furioso. E invece lei sembrava addirittura contenta di vederci. Sapessi quante volte ho pensato alle sue parole, all’espressione del suo viso quel pomeriggio, così felice, così diversa; mi sono anche chiesto tante volte cosa potesse esserci in quella scatola che sembrava così importante per lei. Forse era quello il segreto che le abbiamo sempre attribuito, il tesoro che per tanti anni abbiamo cercato.

–  Ci ho pensato anche io, sai. Il tesoro della zia. L’avevamo cercato ovunque, senza neanche sapere cosa stessimo cercando davvero. E bastava chiedere. Credo non vedesse l’ora di dircelo, ma aspettava solo il momento giusto, come la rottura di un incantesimo di cui era prigioniera. Se penso di nuovo a quel giorno, al colore del cielo, al rumore dei tuoni e a lei che in bilico appoggia il piede sulla superficie dell’acqua, mi sembra ancora di essere in un sogno, ma un sogno non mio. E penso anche che il fatto di sentirmi un’intrusa nel suo sogno mi abbia fatto scappare via, e non la pioggia. E sono sicura che aspettasse quel giorno da sempre; ce lo disse anche, Antonio, ci disse che finalmente era successo. Si era liberata. E noi, con le nostre parole, l’abbiamo rinchiusa di nuovo.

Dopo neanche un’ora il bimotore era atterrato dolcemente su una pista poco distante dalla costa. Arturo, così si chiamava il giovane pilota, l’aveva aiutata a scendere e sempre per mano si erano diretti verso una spiaggia di rena leggera, cosparsa di tronchi e rami. Si erano tolti le scarpe, affondato i piedi nei granelli bollenti e di corsa, ridendo, avevano poi raggiunto la battigia. A quel punto si erano seduti sul bagnasciuga, incuranti delle onde leggere che bagnavano loro le vesti. Era vero, le aveva detto poco dopo, il vestito di lei era un’altra sfumatura del mare, la più bella. Aveva poi tracciato con l’indice il proprio nome sulla sabbia bagnata, lei vi aveva aggiunto il suo. Un’onda si era portata via gran parte delle lettere. Incuranti che sarebbe accaduto di nuovo avevano scritto di nuovo i loro nomi, due, tre, quattro, cinque volte ancora. Lei vi aveva anche aggiunto i primi versi di una poesia che aveva imparato a memoria gli ultimi giorni di scuola e quando si era interrotta lui le aveva sussurrato il verso successivo. Poi si era alzato in piedi, si era levato giacca e camicia e l’aveva invitata a fare altrettanto con il vestito, promettendole che non l’avrebbe guardata finché non fosse entrata completamente in acqua. Subito dopo si era immerso e con una serie di vigorose bracciate si era diretto al largo. Marga era rimasta a fissarlo con il vestito ormai completamente incollato alle cosce e alle ginocchia. Quando lui era tornato con in mano un guscio di madreperla come dono, l’aveva trovata seduta ancora sulla sabbia bagnata. Lei gli aveva confidato che le dispiaceva molto ma non sapeva proprio nuotare, non aveva mai imparato, neanche tutte le volte che l’insegnante aveva portato lei e le sue compagne di scuola in gita al lago.

Allora Arturo le si era seduto di nuovo accanto e le aveva raccontato di quando da piccolo anche lui avesse avuto paura dell’acqua, di come non si debba lottare contro le onde ma seguirne il ritmo, del modo in cui le gambe dovessero muoversi per non andare a fondo e delle volute da tracciare intanto con le braccia, in sincronia, come in un volo liquido. Le fece immaginare di essere una foglia sospesa sulla superficie o una ninfea che lui avrebbe sorretto, una ninfea marina, la prima, l’unica. Le disse dei pesci che li avrebbero accompagnati e di come avrebbe potuto vederli con facilità, tanto l’acqua era trasparente; le anticipò la forma delicata di ogni conchiglia che avrebbero raccolto poco lontano, dove il livello del mare tornava ad abbassarsi. Là avrebbe potuto di nuovo camminare.

Erano tutti e due così presi, lei da quel racconto e lui dalla sua pelle diafana, che non si accorsero dell’improvviso temporale che incombeva alle loro spalle.

Si era quasi lasciata convincere, quando pesanti gocce iniziarono a bagnarle i capelli e tutta la parte superiore del vestito che le onde avevano fino al quel momento risparmiato. Si precipitarono fuori dall’acqua in cerca di un riparo. La pioggia non durò molto. Quando lui la invitò nuovamente a tornare verso la riva, come se solo allora se ne fosse resa conto, Marga si ricordò di essere lontana da casa e che si stava facendo tardi. Lo pregò di riaccompagnarla indietro, gli disse che era meglio sospendere quella prima lezione di nuoto, ma che l’avrebbero ripresa, presto. Prima di infilarsi di nuovo le scarpe mise una manciata di sabbia dentro ognuna, per continuare a sentire sotto i piedi lo stesso sfrigolio che l’aveva condotta verso quella felicità breve e perfetta.

Un’ora dopo era di nuovo nel campo da cui era partita. Nessuno si era accorto della sua assenza. Il vestito era ancora bagnato ai lembi, salato. Lui la salutò con un bacio morbido sulla guancia e la promessa che avrebbero entrambi fatto ritorno su quella spiaggia, prima della fine dell’estate. Mentre l’aereo si rimpiccioliva di nuovo nel cielo, Marga strinse forte la conchiglia che Arturo aveva pescato per lei e pensò a tutte quelle che avrebbero raccolto insieme, da allora in poi. Rientrò in casa di soppiatto e prese dalla cucina una scatola di latta color blu. Vi mise dentro la conchiglia, vi svuotò la sabbia che aveva ancora nelle scarpe. Pensò che quello era solo l’inizio dei loro ricordi, che negli anni quella scatola si sarebbe riempita di preziosità marine, di foto, di pietruzze lisce, di coralli, vi immaginò anche la lisca brillante di un pesce raro.

Ma lui non fece mai ritorno.

–          Lo attesi ogni giorno, per anni. Ma tanti aerei sparivano quegli anni, di tanta gente non si sapeva più nulla. Sapevo già che non sarei mai più stata felice come quel giorno, e per questo non volli stare con nessun’altro. Però decisi che ogni anno, quello stesso giorno, avrei camminato sul bordo della fontana, fingendo di essere ancora accanto alle onde, per ritrovare un poco di quell’emozione. Non solo, a ogni futuro annuncio di tempesta, ovunque mi trovassi, avrei scritto sul vetro le stesse parole che scrivemmo quel giorno insieme, ma stavolta con gli occhi in direzione del temporale, e già al riparo, per non essere più colta alle spalle, alla sprovvista. Oggi per la prima volta da allora, nello stesso giorno – come quel giorno – la pioggia è arrivata, così dal nulla. E cosa potevo fare stavolta se non tuffarmi? Avessi avuto allora il coraggio di oggi! E sapete ragazzi? Sono rimasta a galla, ho sollevato i piedi e sono rimasta a galla, tra le ninfee, tra le foglie, come una ninfea, come una foglia, proprio come aveva detto lui. E ho urlato al cielo: torna! Ora posso seguirti, ora possiamo andare insieme a raccogliere conchiglie! Quella fontana è stata di nuovo, per pochi minuti, il mio mare… La scatola! Antonio, vammi a prendere la scatola blu. Devo metterci qualcosa dentro, qualcosa di oggi.

Ma ai nipoti che la fissavano basiti non era stata in grado di indicare dove quella scatola fosse. Prima che Antonio potesse chiederglielo, si era messa le mani in tasca, aveva mormorato con un filo di voce di aver perso qualcosa ed era di nuovo corsa di fuori, sotto il temporale. Loro erano scoppiati a ridere. 

– Cosa può essere?           

Si chiede Silvia, scendendo con un balzo nella vasca asciutta e raccogliendo l’oggetto arrugginito che poco prima ha attirato la sua attenzione. Vi soffia sopra, lo pulisce con un lembo della gonna, incurante della terra che le sta macchiando la stoffa, e con stupore si accorge di avere tra le mani una piccola chiave.

In quel momento, dal balcone della stanza da letto di Marga la vicina si affaccia, li chiama, vuole che la raggiungano immediatamente. I due cugini attraversano il giardino, rientrano in casa, fanno le scale a due a due, l’ultima rampa tenendosi per mano.

Marga è sdraiata sul letto, con addosso una coperta leggera. Ha gli occhi chiusi. La vicina dice loro che non vuole più mangiare nulla, non vuole neanche più bere.

–          Ci pensiamo noi ora Anna, grazie – le dice Silvia.

Si siede sul letto, sussurra il nome della zia. Poi chiede ad Antonio di avvicinarle il vassoio del pranzo.

Ma lui non le risponde e attira la sua attenzione verso il ripiano di uno scaffale dove, tra i quaderni foderati di celeste, i vasi di fiori secchi, gli spartiti ingialliti e stanchi che si piegano come giunchi, è poggiata una scatola di latta color blu, chiusa da un lucchetto.   

Not-So-Lost in Translation

Writing in other languages has always amused me. When I was a teenager with just a couple of years of English under my belt (in the ’90s we would begin studying foreign languages in secondary school), I used to fill in the pages of my school journal in that language too, or what may have passed for a primordial version of the same. The extension of expressive possibility given by other languages (and the fact that Latin couldn’t serve that purpose) made me very passionate about English, so that I chose it as the first subject during my maturità, preceding even Italian, which was my second subject*. In 2002 I dedicated a few months to Spanish, but it didn’t last. Then, in 2004, I discovered the beauty of the Maltese language and its familiar exoticism. Three years later, I followed this up by learning French, whose sentences would have brought me away, first to Paris for my doctoral studies, and then again to the island. I also gave Serbian a try, last time I was in Belgrade. The two weeks there were useful at least to manage to read the signs in cyrillic in a bakery, make the order and get the right (celestial) food. And what about my first love, what about my mother tongue? Well, just when I thought I wouldn’t find time for “her” again, as I used to to before, I found a way to renovate my passion and my dedication to it thanks to the immersion into the deep and graceful sea of possibilities which translation implied. Since then I translated from English, French and Maltese prose and poetry, thanks to all the writers who entrusted me with their work. In 2013 my friend Clare gave me the wonderful opportunity to translate her intense collection of stories, Kulħadd Ħalla Isem Warajh (Merlin Publishers, 2014). Among them I particularly liked these (here’s just an excerpt of some of them):

Promotional postcard campaign for the launch (Photography by me and design by Pierre Portelli)

Rita

Sette minuti alle otto, il treno arriva racimolando fiacchezza e briciole di pane tostato ancora sulle labbra. Spazza via ogni sogno, bello e non, spazza via l’alito pesante. Spinge lontano il silenzio, ne occupa il posto appena per pochi secondi e poi riparte, lasciando che il primo si faccia di nuovo largo, e se non quello uno che gli somiglia. Otto meno sei, appare Rita con addosso il piombarle grave e ingombrante d’un cappotto acquistato l’inverno precedente a Petticoat Lane, molliche di toast sul risvolto, brutti sogni in bocca, gli occhi annebbiati dal basmati al curry. Qualche secondo dopo il suo arrivo sulla piattaforma di Stepney Green, linea verde, direzione Ealing Broadway, un treno si ferma. E preme sul silenzio, silenzio a cui lei si concede tutta. Resta immobile. Le persone le scorrono accanto come ratti, chi verso un vagone, chi verso un altro, chi in direzione delle scale. Due topini sbucano fuori di nuovo alla ricerca di quel pezzo di pane lasciato in sospeso, scovato prima che il treno si fermasse. Lei s’appoggia a un sedile attaccato al muro di piastrelle lerce, bianche. Raccoglie una copia di Metro dal posto accanto per dare un’occhiata ai pettegolezzi della giornata, scialbi come la notte. Come Salvo, le viene da pensare. Salvo è come la notte e questa copia di Metro come Salvo che è come la notte […].

(you can find the English version here)

Camilla

[…] Camilla Petroni, povera, non ebbe per niente fortuna. Perfino quando giunse qui. Restò prigioniera del suo dolore. Era come se un’ombra le gravasse addosso. Ombra, era questa la parola che usava. Dell, diciamo noi in maltese. E quest’ombra l’avvolgeva di continuo. L’ombra del ricordo di lui che ancora le permeava lo sguardo e s’impigliava tra i lunghi capelli. Un ricordo che non le dava scampo, notte dopo notte, quando dentro continuava a bruciarle l’umiliazione di essersi trovata tutto quello che le apparteneva messo alla porta, sparso sui gradini di Senglea. Invasa ancora dalle ultime parole che lui le aveva rivolto quel lunedì mattina, le ultime, in una fredda, stinta mattina. E se il passato continuava a scavarle dentro, ancora più profondo era il dolore inferto da un presente pieno di antidepressivi, dove lei si sentiva diversa, estranea anche a se stessa, irriconoscibile ai suoi propri occhi, tutt’altra donna da quella che era stata accanto a lui; le dita affusolate perennemente alla ricerca delle armonie smarrite di quell’amore, a tentoni verso il suono di una lingua, quella del mare, che non avrebbe più ascoltato; il groviglio dei suoi capelli come tentativo di celare tutto ciò che la dilaniava. Di lei serbo nella memoria lo sguardo di spettro, la voce avvolta in una tosse rauca e il bel corpo: una conchiglia imprigionata in un profondo blu, dove il suo cuore cercava rifugio. Eccola la mia Camilla.

Camilla would also go on to become a short film in 2018.

Polly

[…] Ovunque si recasse, Polly lasciava il suo marchio: pdm. Un piccolo scarabocchio sul muro, un graffio su una panchina o su una porta, su una ringhiera di ferro, per terra, su un secchio della spazzatura, sul sedile di un autobus, a una fermata del bus, sul monumento alla Libertà, i Barakka di su, i Barakka di giù, sui biglietti del trasporto di linea, sui barattoli di cibo, in fondo alle bottiglie del latte, nei cortili delle scuole in cui era stata, sui banchi della chiesa, minuto, appena appena visibile, con una moneta da due cent, su qualche lapide del cimitero, sotto le suola delle scarpe, su Gerfex la gatta tricolore, sul muro basso che circondava il tetto, nella cabina telefonica, nei pensieri dei bambini, sull’abito d’ogni bambola, sulla parete della fabbrica dove aveva per un po’ lavorato, su ogni macchinario d’assemblaggio d’occhiali, sul portone della libreria, sulla sua cartella, sul palmo della mano, sui santini dei defunti, sui libricini della messa, sul righello di legno da 30 cm, sui bastioni, sui lampioni, sulle porte dei club delle bande musicali, sul pianto versato dalla gente all’arrivo del feretro, sul chioschetto di legno in piazza, nel cantiere portuale numero uno, nei magazzini di Marsa, sulle scalinate, sul Cristo Redentore, sulle barche della regata, sui drappi, all’Ħofra[, nel cantiere cinese, sui vestiti stesi, sui cani randagi, sui giornali, sui segnali stradali, sulle sedie della sacrestia, sui lastroni delle tombe del padre e della madre, sulle cicche delle sigarette, sulla sua pipa, sulle facciate delle case, nella polvere, sul bordo delle gonne, tre minute lettere: pdm. E non solo con la moneta da due centesimi soleva imprimere il suo marchio, una volta erano ago e filo, un’altra vernice, un’altra ancora un pezzo di gesso o una pietra, sull’asfalto, sui marciapiedi, sui distributori di dolci, sui cavalli da giostra montati dai bambini, sui tavolini dei bar, sul muro del municipio, sul palo biforcuto sotto la statua del santo retto da un tipetto, nel posto di guardia o nel pubblico gabinetto, sui mai riempiti moduli del censimento, nelle croste di pane secco, nelle banconote, sulla busta della pensione, sui barattoli di tabacco, sulle bottiglie di limonata, sulle lattine di mais, sulle foglie dei fichi d’India, sui muri in macerie, nel mare, sull’elenco del telefono, ai Granai, sulle piante nei vasi, sul vetro delle finestre, nel cielo che si fa fosco, sulle rocce che fronteggiano il mare, sulle spiagge, sulle lingue della gente, sui cancelli delle grosse dimore, sulle portiere delle vetture della gente che la infastidiva e di quelli che la lasciavano stare, sui davanzali, i panni stesi, sulle mollette, sui menù svolazzanti appesi fuori le porte dei ristoranti, per terra, sul portamonete, sulla sua uniforme scolastica, ovunque non potesse essere scoperta, sulle saracinesche, sulle bombole di gas per la cucina, sullo scaldabagno al kerosene, sulle onde, le impronte delle persone, i giochi dei bambini, il suo grembiule, la bandiera con la torcia infuocata, il zittirsi delle pettegole, il tubare dei piccioni, il canto che si diffonde fuori dal convento delle suore di clausura mattino, pomeriggio, sera, sui poster, sul suo cuscino, sul letto, sulla sedia, sulla tavola, sulle scalinate, sui piedistalli nei giorni di festa, sui pannolini sporchi, sui piumoni messi via, nel vento, sui desideri dei bambini, sui lumini sotto l’Immacolata, nel confessionale, sul muro del palazzo del Gran Maestro, sui pomi delle porte, sui francobolli, sugli incarti dei pastizzi, sui cartelli dei prezzi al mercato del martedì mattina, sulle cassette delle lettere, i petardi durante le feste, i lacci che scivolano giù dalle code di cavallo delle ragazze, su un bicchierino di whisky o brandy, sulla porta del negozio di zio Vince a Whitechapel, sulla morte, sul suo fornello, sulla credenza, sul lumino tremolante sotto la Vergine, sulla litania del rosario, sulle scatoline dei fiammiferi, il secchio d’acqua saponata, la scopa, lo straccio da terra, i grani del rosario, sulla macchina da cucire, sulle cartoline d’auguri, sull’angustia serpentata delle strade, su bruttura, tristezza e solitudine, su tutto e niente, ovunque le capitasse d’essere, ovunque si recasse, tranne che sulla sua tomba, Polly lasciò il suo marchio, tre minute lettere, pure sul cuore, tre minute lettere: pdm.


Translating poetry, on the other hand, came about as the result of an unexpected (but welcome) proposal which emerged in the summer of 2017, by Nadja Mifsud. Thanks to it, I was introduced to one of the more interesting voices in Maltese poetry. And so, I translated a few poems ahead of her participation in the Italian poetry festival Voci lontane Voci sorelle .

Parentesi

Primo giorno

Ti saprò, frammento per frammento
gli occhi per cominciare
gli stessi che invocavano i miei
dal bordo della piazza
dove una folla impaziente s’era radunata
per ascoltare Adonis
e un sacco d’altri poeti
- e poi -
dammeli
mi sussurrasti nell’orecchio
lasciamene bere un sorso
fammeli amare
e di me neanche sapevi il nome.

Secondo giorno
Il mento sulla tua spalla
la mano a cingerti il fianco
adoro
fasciare la tua guancia
col mio fiato

Terzo giorno
Già naturale per i miei occhi appena schiusi cullarsi nel tuo sguardo
e fugata ormai la paura d’annegarti dentro
amo immergermi sempre più
immergermi fino a non avere respiro
immergermi fino a toccare il fondo

Quarto giorno
Testa contro testa
su questo divano vacillante
già le tue dita si dilettavano col mio ombelico
quando mi dicesti di tua madre
del suo ferro da stiro
brandito come una minaccia
tutte le volte che lacrime e sogni marciti
tracimavano margini non più contenuti dal vino
t’avrei offerto riparo nel mio ventre, ridato la vita
amato dalla testa
ai piedi
ovunque
come creatura mia
offerto il mio seno
nutrito, appagato
saziato, vezzeggiato
messo in fuga ogni affanno.
Il mio amore era allora più forte
mentre ninnavo i tuoi pensieri di roccia
e capivo meglio perché
casa tua aveva mura di colori diversi
uno per ogni umore
avevi detto
più tardi
con un rivolo d’argento
sul mio grembo
t’ascoltavo compiaciuta
slacciare tutti i nostri dobbiamo
per riannodarli in altri intrecci
in un monile di baci

Quinto giorno
Scossa dal gorgoglio
del caffè
che annuncia un’altra alba
affondo il naso nel cuscino
dove il tuo odore indugia ancora
appagata dallo scalpiccio
di te in cucina.
Lascio che carezzi il mio torpore
dilato fin che posso questi istanti
- fosse solo per sogno -
questa storia tra parentesi

Sesto giorno
Un pensiero spiacevole
fluttua in superficie
scarico il lavandino
la schiuma s’aggrappa
una lotta muta
contro l’acciaio inox
Parto domani
e non ne ho voglia.
 No, non è vero che la terra è tonda 
(per S.)

No, non è vero che la terra è tonda
ha bordi aguzzi e taglienti
come le parole che tuo padre scagliava
in faccia a tua madre
si frantumavano contro i muri
franandoti in grembo
e tu le intrecciavi con i capelli delle bambole
sperando di farle svanire.

Studiavi i colori
col mento sul tavolo della cucina
la mano di tua madre
febbrile nella semina
di una manciata di pasticche
come fuochi d’artificio
negli angoli più remoti della sua testa
o sciogliersi come arcobaleno
nel nero amaro dei suoi occhi

Sapevi a memoria
tutti i c’era una volta
e i vissero felici e contenti
ti ci rannicchiavi
assaporandoli
succhiandone ogni parola
poi li rimboccavi sotto le coperte
illudendoti di ammansire così
le durezze di un mondo
che t’irrompeva dentro con i singhiozzi di tua madre
e la bestialità di tuo padre.

Continuavi a dar retta a quelle storie
anche da ragazza
care a te come la vita
talismani color confetto
sempre addosso
e non ti tornava perché in questo mondo ingarbugliato
dove ogni cosa è sottosopra
i principi si mutano in ranocchi
e non il contrario.

La mano trema
nel seminare una manciata di pasticche
bianche come la morte
te le figuri esplodere nella testa
straordinario gran finale
sciogli i capelli
spegni la luce
senza vestiti
sdraiata a terra
marcisci ancora un po’.

And then, last summer (poetry always keeps me company during the sultry Maltese summer), I went deep in the words of another Maltese poet, whose verses I will add here as soon as they are published.

***

*prior to the reform in 1999 (where the student was given the luxury of choosing a single topic from each subject to be tested on), the final oral exam (following the written ones in Italian and Maths for those who attended Scientific high schools – Classic ones got Italian and Latin, lucky them) consisted in questions about all the programme of the year in about four subjects (actually they were “just” two, which the student chose according to a strategy of marks and hopes that the professor wouldn’t have “changed” their choice at the decisive moment). In 1997 the subjects in the Scientific strand were Italian, English, History and Physics.

Racconti e caffè

dsc_4059Cosa non ti sbuca fuori mentre ti appresti a mettere in ordine la scompigliata memoria del tuo pc. Correva l’anno 2014 e mi ero appena  rifatta gli occhi. C’è stata davvero una lunghissima epoca della mia vita in cui armeggiavo con lenti morbide e acquose e mi risistemavo l’occhiale sul naso, occhiale con montature prima dorate, poi blu, poi nere, poi bianche e infine rosso-viola?

Febbraio 2014, occhi nuovi dunque, lo sguardo ci avrebbe messo ancora molte settimane per rimettersi a fuoco. Dovevo imparare di nuovo a vedere dopo mesi (anni?) di buio. In pausa dalla tesi, quando lo schermo non fu più solo un ammasso di segni baluginanti, scrissi un racconto per il premio letterario Caffè Corretto della graziosa cittadina di Cave, a sud di Roma. La regola era semplice, si doveva proseguire l’incipit scritto da un altro. Arrivai terza, vinsi un libro sul coté art nouveau del luogo e una scultura bianca e sinuosa che è ancora dai miei e che quando mi deciderò a non riempire le mie valigie di libri, ciambelle al vino e parmigiano, magari, riuscirò anche a far sbarcare qui.

Di seguito, l’incipit dello scrittore Fabio Stassi; subito dopo il modo in cui decisi che la storia sarebbe dovuta continuare.

Il dono

La lettera Carmine non ebbe il coraggio di consegnarla nelle mani del vecchio. La sfilò di malavoglia dalla sua borsa di cuoio, rigirandosela davanti gli occhi. Poi si decise: con un solo balzo saltò i due gradini dell’atrio di quel palazzo con la facciata in cortina e i balconi triangolari e, raggiunte le cassette della posta, la lasciò cadere nel vano dell’interno 8. Anche se era appena un postino, provò subito vergogna. Di lettere così ne aveva recapitate altre negli ultimi mesi esapeva ormai cosa comunicavano. La busta era sempre prestampata e portava dietro, in grassetto, il nome del mittente. Il vecchio avrebbe capito svelto. Aveva fatto lo stesso mestiere, da giovane, e sapeva riconoscere le notizie buone da quelle cattive. Era gente gentile quella. Non avevano mai mancato di offrirgli un caffè e una sedia per tirare il fiato e Carmine ci si fermava volentieri prima di continuare il giro. Ma quel giorno andava di fretta. Augusto, dalla portineria, lo vide allontanarsi sul motorino di servizio senza riuscire a indirizzargli nemmeno un cenno di saluto.

 

Teneva in un mano un secchio d’acqua violastra e nell’altra lo spazzolone con cui aveva appena lucidato la rampa di scale dal terzo al quarto piano dopo che quella stessa mattina la signora Rapetti gli aveva fatto notare, non con un certo rimbrotto per l’anonimo vandalo, una serie di macchie lilla dalla forma esagonale, proprio al centro di ogni gradino. Erano venute però via facilmente, appena un paio di passate, e senza neanche dover ricorrere al detersivo.

Svuotò il secchio in una aiuola, dopo essersi assicurato che nessuno lo stesse guardando. Poi, altrettanto cauto, si avvicinò alle cassette delle lettere; là l’occhio si soffermò dapprima su una rivista scientifica maldestramente incastrata nella fessura, rivista che era solito anche lui leggere, quando ancora suo figlio la riceveva per abbonamento; indugiò poi più a lungo sulla costa luminosa e palmata dell’angolo di una cartolina che faceva capolino da dietro il conto del gas dell’interno 5. Sostò infine, e senza ritegno, per due minuti buoni di fronte alla busta che Carmine aveva lasciato cadere velocemente nella cassetta dei signori Ortega.

“Brutto affare. Questi non mollano”, sentenziò una voce alle sue spalle.

Si voltò e vide il ciuffo ricciuto e biondo di una ragazza di bassa statura ascoltare il suggerimento di un’improvvisa brezza, tendere al suo inseguimento e poi, subito dopo, rinunciarvi, ritornando placido sulla fronte.

– Mi scusi? – le fece turbato.

– Eppure non credo ci sarà mai occasione per i signori di aprire quella busta, anzi, se vuole passarmela. Lei ha le chiavi di ogni cassetta, giusto? Così almeno mi è stato detto.

– Lei… Ma lei è…?

– Ah, mi perdoni, certo. Il mio nome è Ida Lemara. Sono la nipote di Maia e Federico Ortega. Se vuole posso farle vedere un documento.

– Ah, ma non ce n’è bisogno signorina, ora che me lo dice ricordo infatti di averla già vista assieme alla signora, qualche volta, non troppe però, purtroppo – cercò di accompagnare a quel punto un ammiccamento del tutto innocente. Non gli riuscì, potè capirlo dalla curva rimasta immobile delle labbra della sua interlocutrice, e quindi continuò – ma non so proprio se mi sia permesso di prendere la posta dei signori, il massimo che posso fare è togliere la pubblicità, quando è troppa, là son stato autorizzato, sa. Ma di lì a tirar fuori lettere… –

– Allora non le scoccerà se a farlo sono io. Si giri per favore. Occhio non vede… – e il suo ammiccamento, quello, si rivelò riuscitissimo.

Augusto le diede infatti le spalle, non sapendo neanche lui il perchè, e quando si permise di nuovo di scrutare con la coda dell’occhio la ragazza, la vide armeggiare con un fermaglio scuro affusolato e poi, con lesta abilità, sfilare la busta dalla cassetta e consegnarla nelle sue mani.

– Ecco fatto. Lettere come questa non dovrebbero neanche essere inviate ai miei nonni. Che coraggio.

– Concordo – bofonchiò l’uomo, sempre più impacciato nel suo improvvisato ruolo di complice.

– La ringrazio del suo aiuto. Ora scappo, nonna mi aspetta per la spesa. Tenga, la getti alla carta per favore.

E fluttuò vezzosa verso le scale.

La rivide appena dieci minuti dopo, la signora Ortega al braccio, placida e sorridente.

– Stella mia, vedi un po’ se c’è posta-

-No nonna, ho già controllato prima, niente.

Ed entrambe sparirono nella luce polverosa della strada che invase rapida le prime piastrelle dell’androne, poco prima che il portone a vetri facesse clanc dietro di loro, portandosi dietro rombi d’auto, cinguettii, svolazzi di carte e qualche raggio.

La lettera, tuttavia, non era stata gettata ma infilata alla rinfusa tra alcuni documenti della portineria, ben celata tra ricevute e riviste, sul primo scaffale accanto all’ingresso.

Augusto la riprese e stette là a scrutarsela e tastarsela, leggendo ad alta voce il mittente, che ben conosceva. L’interno otto era infatti l’unico nel palazzo a non aver ricevuto ancora quella comunicazione. Come lui del resto.

La reazione non sarebbe stata buona, e l’indignazione dei due inquilini si sarebbe fatta sentire a lungo, soprattutto nei rientri delle loro pomeridiane passeggiate, quando si attardavano nella portineria dedicando a un ciarliero scambio di senso comune almeno una decina buona di minuti.

***

All’alimentari che faceva angolo tra la via dell’immobile dove risiedeva e quella che conduceva verso la stazione, Maia Ortega era già ben oltre metà della lista quando Carmine fece il suo ingresso veloce, giusto per far firmare una raccomandata al proprietario. Lei lo scorse e gli sorrise. Il postino abbozzò anche lui un sorriso. La donna gli fece cenno di avvicinarsi.

– Buongiorno Carmine, l’aspettavamo questa mattina, mio marito era pronto col fuoco da accendere e la macchinetta vibrante.

– Buongiorno signora Ortega, mi dispiace, le chiedo perdono, avevo la testa altrove oggi, e andavo di fretta.

– Andiamo Carmine, cinque minuti li ha sempre trovati. Pure quando, come oggi, di posta per noi non ce ne era.

Il postino restò interdetto. Ma come? Non l’avevano vista? Aveva forse sbagliato cassetta? Difficile, ma possibilissimo del resto. La vista di quella lettera lo aveva infatti assai turbato.

– Ho ancora dei giri da fare in zona, se mi permette di riparare alla mancanza di stamane farò con piacere un salto da lei e suo marito dopo pranzo, a turno finito.

– E noi l’aspetteremo con piacere Carmine, così si fa! Mai saltare i piaceri, piuttosto ritardare il dovere, ma i piaceri, son così rari, son così pochi che uno se li deve fabbricare, ce li dobbiamo ritagliare dalle giornate piano, piano, come un buon caffè… Perchè il caffè, lo sa bene, il suo gusto è anche nella pazienza, nei gesti lenti, nel tatto della dita che svitano la macchinetta stridente, nel rumore del barattolo fresco di frigo che si schiude, nel cucchiano che sprofonda in quella sabbia nera e odorosa, nell’attesa, nel canto del suo fuoriuscire.

E piegò la testa da un lato, sorniona.

– Assolutamente d’accordo madame- annuì rispettoso il portalettere, – ma allora – pensò nel frattempo- la lettera non l’hanno ricevuta. Non parlerebbe così, altrimenti. O forse sì? Era uno sfogo quello? Un ribadire risoluta la propria posizione sulla vita e sulle sue repentine fuggevoli bellezze? Su certe irrinunciabili abitudini anche quando il destino ci forza verso altro?

Tra i pacchi di pasta e i barattoli di conserva a Carmine non riuscì tuttavia di sciogliere alcuno dei suoi dubbi. E se ne stette là, cercando il modo più rapido e gentile per accomiatarsi.

La signora Maia gli venne, senza saperlo, in aiuto.

– A dopo allora- tagliò cortese – Ah, Ida, eccoti stellina. Saluta il signor Carmine, passerà da noi più tardi, per un caffè.

La ragazza sfoderò, se possibile, un sorriso ancora più felino di quello della nonna, ma non disse nulla.

***

Le due meno dieci. Carmine è ora in portineria. S’è affrettato e il turno lo ha concluso prima. Sono già dodici minuti buoni che è là. Lo si vede da dietro il vetro che agita le braccia e sbatte concitato le labbra in direzione di Augusto il quale non fa una piega, ritto e sicuro nelle sue ragioni. Quelle stesse ragioni che lo hanno portato a chiudere più d’un occhio sulle mani di una ragazza che, in fondo, sostiene, sempre più fermo e deciso, non ha fatto proprio nulla di male, anzi, tutt’altro. Vuol bene ai suoi nonni lei, e quella lettera può benissimo non essere mai arrivata, o andata perduta.

– Ma non è legale. Andiamo Augusto, ragiona! Passerò dei guai per questo!

– Non saresti l’unico.

– Ce l’hai ancora?

– Certo che sì.

– Dove? Dammela.

– È qui, al sicuro.

– Augusto, per favore. Devo consegnarla. Non dovremmo neanche stare qui a discuterne. Guarda, la porterò direttamente io, userò tutte le accortezze possibili, lo prometto. So bene che le mie parole non potranno certo lenire l’indignazione che ne seguirà… Ma almeno capiranno di non essere soli nel loro dramma.

Il portiere sta qualche secondo in silenzio, lo sguardo rivolto verso la risma di carte che cela l’inopportuna missiva.

– Là in mezzo – indica vago.

E come aveva già fatto qualche ora prima, volge lo sguardo altrove.

***

– Carmine, buongiorno. Finalmente. Sai che ci sono rimasto un po’ male questa mattina quando t’ho visto partire dal balcone? Maia, c’è Carmine, ti manca tanto?

La signora Ortega si affaccia dalla cucina, asciugandosi le mani con uno straccio.

– Ho quasi finito, ma prego si accomodi pure caro. Federico, fa’ assaggiare intanto al nostro ospite quei dolcetti che abbiamo preso l’altro giorno al mercato a Piazza delle Erbe.

Il postino non accoglie l’invito ma inizia a fare avanti e indietro per la stanza, a scatti, soffermandosi una o due volte su una sola gamba, dondolando e torcendo l’estremità dell’altra, quasi a voler calciare lontano la notizia che si porta dietro, piegata in tasca. Intanto tiene le braccia dietro la schiena, le nocche sinistre non danno tregua al polso della mano destra, lo tormentano, lo segnano.

Si accorge della presenza della nipote solo in un secondo momento. La sua espressione non è mutata, neanche il minimo allontanamento da come l’aveva lasciata. Si crogiola su una poltrona, con un libro dalla copertina giallognola e il titolo in bordeaux.

Rumore repentino di tazzine su vassoio d’argento. Un richiamo tante volte udito e assecondato nelle sue tacite volontà, cinque minuti… Caffè!

La nipote è subito fuori dalla poltrona, davanti alla credenza, la apre, si gira, accompagna dolcemente con la spalla lo sportello di vetro, ha nelle mani zollette di zucchero bianco e nero. Il nonno cioccolatini e biscotti.

Nipote e nonno si spostano in cucina, invitano Carmine a fare altrettanto.

– Nonna, faccio io? Dai, almeno questo.

La nonna sorride bonaria.

– Non le permetto di lavare i piatti quando è qui a pranzo – spiega rivolta al postino – ma sul caffè ha carta bianca.

La ragazza apre il frigorifero, tira fuori un barattolo rettangolare e luccicante, lo appoggia su un ripiano, svita con forza la parte superiore, accosta delicatamente il filtro accanto alle varie componenti, apre il rubinetto, riempie il bollitore, vi lascia cadere sopra il filtro, ne adagia ritmicamente il macinato all’interno. Riavvita il raccoglitore, accende il fuoco, basso, lento. Poi rivolgendosi al postino:

– È da quando sono piccola che mi chiede di farlo. Non vuole che cucini, né che lavi i piatti, né tantomeno che l’aiuti per altre faccende. Preparare il caffè è già per lei una premura abbondante, vero nonna? Ma un giorno, quando sarai distratta, farò anche tutto il resto.

– È più buono quando lo fai tu, stella. E fare i piatti mi rilassa.

Restano in silenzio mentre il liquido velluto matura, sale, scende, risale ancora e gorgoglia. La ragazza resta qualche attimo in ascolto, poi gira la manopola. Tra le dita ha già un cucchiaino d’argento, solleva il coperchio, mescola il tutto, richiude.

Il primo a ricevere la bevanda è Carmine che ringrazia, sempre più confuso, sempre più titubante.

– Zucchero?

– No grazie – mente, lui che il caffè lo prende sempre con almeno due cucchiaini abbondanti.

Lo tracanna impropriamente, poi afferra assieme cioccolata e dolce e butta giù pure quelli, assieme ai residui di caffè ancora caldo sul palato.

I tre lo osservano.

– Vogliamo dirglielo, signor Carmine? – fa la nipote, a tazzina vuota; e incalza – L’ha ripresa la lettera o è ancora in portineria?

La nonna si avvicina alla ragazza, le mette una mano sulla spalla, poi rivolta all’uomo:

– Caro Carmine, il suo turno non era finito a quanto pare.

Il postino si leva dalla sedia, a disagio, ma comunque sulla via del sollievo, dello scrollamento di quasi ogni malessere. Presto sarà fuori da quella casa, qualunque cosa accada. È tutto direttamente proporzionale alla velocità con cui estrarrà dalla tasca la busta e la consegnerà ai legittimi destinatari. Già, ma a chi darla? Si volta verso l’anziano, il primo nome sulla busta, ma lo vede ancora impegnato a scartare un cioccolatino, la nipote, invece, è già a rovesciare cucchiaini e tazzine nel lavandino. La signora, invece, non ha smesso di osservarlo. Va bene anche lei, il suo di nome è comunque là, stampato per secondo.

– Ecco, eccola. Le chiedo scusa, mi perdoni, io… Lo sa quanto è difficile a volte. Ma ultimamente non faccio che consegnare lettere di questo tipo e se uno stesse sempre a farsi problemi e farsi venire il mal di stomaco per… No, ma che dico. Non avrei mai voluto dover vedere proprio voi a combattere con una cosa del genere… In che mondo viviamo…

– Sono ancora loro cara? – lo interrompe l’anziano masticando con gusto il boccone di cacao nero ripieno alla crema di nocciole appena scartato.

– Certo, avevi dubbi? Non vogliono proprio capirlo eh? E sì che sono quasi tre anni che non facciamo che rifiutare la loro offerta. Figurati, noi, Federico e Maia Ortega, le star improvvisate eppure famosissime delle pubblicità del Caffè e moke Aromi che promuovono ora con disinvoltura queste loro nuove diavolerie a capsule… Ma se lo immagina lei? E ora ci inviano anche questo, siamo proprio con le spalle al muro caro, sta’ a sentire “Cari signori Ortega, congratulazioni! La nostra ditta vi omaggia con Versatofatto dell’ultimissimo sfavillante e pratico modello della nostra collezione, con l’augurio di tanti momenti di relax e benessere e la speranza d’inaugurare a breve un rinnovato, proficuo e duraturo rapporto di collaborazione… Bla, bla bla”.

– Hanno cominciato con i vicini, regalando apparecchi a tutti, e tutto questo per arrivare a noi, perchè restassimo isolati, perchè nessuno passasse più di qua per un caffè, come accadeva da tanti anni, regolarmente, ogni pomeriggio, perchè ne sentissimo anche noi il bisogno – interviene divertito il compagno – Siamo circondati ormai, ma si resiste, Carmine! Si resiste! Cinquant’anni fa era diverso, quando ci chiesero se volevamo essere i nuovi volti del Caffè Aromi, e pensi, semplicemente fermandoci all’uscita del negozio da dove avevamo comprato la nostra prima macchinetta! Altri modi, altra classe. Ricordi cara? Quant’eri bella quel giorno. Fu per merito tuo se ci si presentò quell’occasione, solo merito tuo.

– E sanno anche che non possiamo rifiutare, non si rifiuta mai un dono.  Non è educato, non si fa. E poi un loro dono. Che figura ci faremmo con la ditta che da anni ci fornisce di ottimo caffè gratuito, che ci ha reso famosi, che ci ha sollevato da ogni preoccupazione economica? Però, se me li dovessi ancora trovare davanti con uno dei loro apparecchi infernali pronto per la consegna, eh, non so proprio come reagirei. E di andare io stessa a ritirarne uno alla posta come è scritto qui… Umphf, non se ne parla neppure – ribatte l’anziana star del caffè macinato.

– Signor Carmine – si infila rapida la nipote suggerendo una soluzione che ha già pronta da tempo – a lei farebbe piacere? Le farebbe piacere portarsi a casa il loro regalo?

– Ci sono i filtri? – si tradisce maldestro il postino. La brama di possedere quelle macchinette che ha visto elargire come premio a destra e a manca negli ultimi mesi, missiva dopo missiva, non lo ha lasciato immune.

– Tutti quelli che desidera – prorompe ancora la signora – Ecco, le firmo una delega e può ritirare il suo pacco direttamente alla posta, a partire da domani. I filtri provvederemo a farli lasciare in portineria. Ci sarà una consegna ogni due mesi.

– Io, non so davvero cosa dire…Ma siete sicuri che…? E va bene, accetto, ma solo per sollevare lei e suo marito da un tale peso, solo quello. Chissà cosa penserebbero gli altri condomini se vedessero di nuovo i rappresentanti di quella ditta qua, davanti al vostro uscio sbarrato, o voi accettare un dono la cui esistenza avete sempre deprecato… Sì, capisco. Ma non c’era bisogno di giustificarsi, intuivo già lo spirito con cui avreste accolto la lettera sin da quando mi ci è andato l’occhio questa mattina. A me piace il caffè, eh, così come lo fate ancora voi, è lento è, come dire, pieno di ricordi, di tradizione, e le tradizioni si sa, vanno mantenute… Certo, sa, con i tempi che corrono, uno è sempre di fretta, un piede sulla porta, io in particolare, e una cosa così mi farebbe comodo, grazie, grazie mille. Mia moglie poi, non aspettava altro.

– Bene, perfetto. Allora siamo d’accordo. Che meraviglia – esulta quasi all’unisono la coppia, quasi rispettando un già noto canovaccio.

– Sì… Adesso devo proprio andare. Grazie ancora, vi auguro una buona giornata. Anche a lei signorina. Arrivederci.

E si catapulta verso il soggiorno, seguito dalla signora. Non vede, ai piedi di una poltrona, un barattolo di liquido color lilla, lo urta con la scarpa, qualche goccia trabocca, finisce sul pavimento, sui suoi lacci.

– Mi scusi, sono mortificato.

– Nessun problema, non è indelebile, va via subito – lo rassicura la signora Maia.

La porta di legno scuro si chiude. Carmine è sollevato. Stringe tra le mani la busta, pregusta già quell’omologato piacere a cialde rosse, blu elettrico, gialle e verdi, così moderno, cosi chic, così spendibile in tante nuove future conversazioni con i suoi colleghi.

Saluta velocemente Augusto intento a raccogliere una cartaccia. Non sorseggerà più un caffè a casa Ortega per lungo tempo, pensa.

© Virginia Monteforte