Writing in other languages has always amused me. When I was a teenager with just a couple of years of English under my belt (in the ’90s we would begin studying foreign languages in secondary school), I used to fill in the pages of my school journal in that language too, or what may have passed for a primordial version of the same. The extension of expressive possibility given by other languages (and the fact that Latin couldn’t serve that purpose) made me very passionate about English, so that I chose it as the first subject during my maturità, preceding even Italian, which was my second subject*. In 2002 I dedicated a few months to Spanish, but it didn’t last. Then, in 2004, I discovered the beauty of the Maltese language and its familiar exoticism. Three years later, I followed this up by learning French, whose sentences would have brought me away, first to Paris for my doctoral studies, and then again to the island. I also gave Serbian a try, last time I was in Belgrade. The two weeks there were useful at least to manage to read the signs in cyrillic in a bakery, make the order and get the right (celestial) food. And what about my first love, what about my mother tongue? Well, just when I thought I wouldn’t find time for “her” again, as I used to to before, I found a way to renovate my passion and my dedication to it thanks to the immersion into the deep and graceful sea of possibilities which translation implied. Since then I translated from English, French and Maltese prose and poetry, thanks to all the writers who entrusted me with their work. In 2013 my friend Clare gave me the wonderful opportunity to translate her intense collection of stories, Kulħadd Ħalla Isem Warajh (Merlin Publishers, 2014). Among them I particularly liked these (here’s just an excerpt of some of them):

Rita
Sette minuti alle otto, il treno arriva racimolando fiacchezza e briciole di pane tostato ancora sulle labbra. Spazza via ogni sogno, bello e non, spazza via l’alito pesante. Spinge lontano il silenzio, ne occupa il posto appena per pochi secondi e poi riparte, lasciando che il primo si faccia di nuovo largo, e se non quello uno che gli somiglia. Otto meno sei, appare Rita con addosso il piombarle grave e ingombrante d’un cappotto acquistato l’inverno precedente a Petticoat Lane, molliche di toast sul risvolto, brutti sogni in bocca, gli occhi annebbiati dal basmati al curry. Qualche secondo dopo il suo arrivo sulla piattaforma di Stepney Green, linea verde, direzione Ealing Broadway, un treno si ferma. E preme sul silenzio, silenzio a cui lei si concede tutta. Resta immobile. Le persone le scorrono accanto come ratti, chi verso un vagone, chi verso un altro, chi in direzione delle scale. Due topini sbucano fuori di nuovo alla ricerca di quel pezzo di pane lasciato in sospeso, scovato prima che il treno si fermasse. Lei s’appoggia a un sedile attaccato al muro di piastrelle lerce, bianche. Raccoglie una copia di Metro dal posto accanto per dare un’occhiata ai pettegolezzi della giornata, scialbi come la notte. Come Salvo, le viene da pensare. Salvo è come la notte e questa copia di Metro come Salvo che è come la notte […].
(you can find the English version here)

Camilla
[…] Camilla Petroni, povera, non ebbe per niente fortuna. Perfino quando giunse qui. Restò prigioniera del suo dolore. Era come se un’ombra le gravasse addosso. Ombra, era questa la parola che usava. Dell, diciamo noi in maltese. E quest’ombra l’avvolgeva di continuo. L’ombra del ricordo di lui che ancora le permeava lo sguardo e s’impigliava tra i lunghi capelli. Un ricordo che non le dava scampo, notte dopo notte, quando dentro continuava a bruciarle l’umiliazione di essersi trovata tutto quello che le apparteneva messo alla porta, sparso sui gradini di Senglea. Invasa ancora dalle ultime parole che lui le aveva rivolto quel lunedì mattina, le ultime, in una fredda, stinta mattina. E se il passato continuava a scavarle dentro, ancora più profondo era il dolore inferto da un presente pieno di antidepressivi, dove lei si sentiva diversa, estranea anche a se stessa, irriconoscibile ai suoi propri occhi, tutt’altra donna da quella che era stata accanto a lui; le dita affusolate perennemente alla ricerca delle armonie smarrite di quell’amore, a tentoni verso il suono di una lingua, quella del mare, che non avrebbe più ascoltato; il groviglio dei suoi capelli come tentativo di celare tutto ciò che la dilaniava. Di lei serbo nella memoria lo sguardo di spettro, la voce avvolta in una tosse rauca e il bel corpo: una conchiglia imprigionata in un profondo blu, dove il suo cuore cercava rifugio. Eccola la mia Camilla.
Camilla would also go on to become a short film in 2018.

Polly
[…] Ovunque si recasse, Polly lasciava il suo marchio: pdm. Un piccolo scarabocchio sul muro, un graffio su una panchina o su una porta, su una ringhiera di ferro, per terra, su un secchio della spazzatura, sul sedile di un autobus, a una fermata del bus, sul monumento alla Libertà, i Barakka di su, i Barakka di giù, sui biglietti del trasporto di linea, sui barattoli di cibo, in fondo alle bottiglie del latte, nei cortili delle scuole in cui era stata, sui banchi della chiesa, minuto, appena appena visibile, con una moneta da due cent, su qualche lapide del cimitero, sotto le suola delle scarpe, su Gerfex la gatta tricolore, sul muro basso che circondava il tetto, nella cabina telefonica, nei pensieri dei bambini, sull’abito d’ogni bambola, sulla parete della fabbrica dove aveva per un po’ lavorato, su ogni macchinario d’assemblaggio d’occhiali, sul portone della libreria, sulla sua cartella, sul palmo della mano, sui santini dei defunti, sui libricini della messa, sul righello di legno da 30 cm, sui bastioni, sui lampioni, sulle porte dei club delle bande musicali, sul pianto versato dalla gente all’arrivo del feretro, sul chioschetto di legno in piazza, nel cantiere portuale numero uno, nei magazzini di Marsa, sulle scalinate, sul Cristo Redentore, sulle barche della regata, sui drappi, all’Ħofra[, nel cantiere cinese, sui vestiti stesi, sui cani randagi, sui giornali, sui segnali stradali, sulle sedie della sacrestia, sui lastroni delle tombe del padre e della madre, sulle cicche delle sigarette, sulla sua pipa, sulle facciate delle case, nella polvere, sul bordo delle gonne, tre minute lettere: pdm. E non solo con la moneta da due centesimi soleva imprimere il suo marchio, una volta erano ago e filo, un’altra vernice, un’altra ancora un pezzo di gesso o una pietra, sull’asfalto, sui marciapiedi, sui distributori di dolci, sui cavalli da giostra montati dai bambini, sui tavolini dei bar, sul muro del municipio, sul palo biforcuto sotto la statua del santo retto da un tipetto, nel posto di guardia o nel pubblico gabinetto, sui mai riempiti moduli del censimento, nelle croste di pane secco, nelle banconote, sulla busta della pensione, sui barattoli di tabacco, sulle bottiglie di limonata, sulle lattine di mais, sulle foglie dei fichi d’India, sui muri in macerie, nel mare, sull’elenco del telefono, ai Granai, sulle piante nei vasi, sul vetro delle finestre, nel cielo che si fa fosco, sulle rocce che fronteggiano il mare, sulle spiagge, sulle lingue della gente, sui cancelli delle grosse dimore, sulle portiere delle vetture della gente che la infastidiva e di quelli che la lasciavano stare, sui davanzali, i panni stesi, sulle mollette, sui menù svolazzanti appesi fuori le porte dei ristoranti, per terra, sul portamonete, sulla sua uniforme scolastica, ovunque non potesse essere scoperta, sulle saracinesche, sulle bombole di gas per la cucina, sullo scaldabagno al kerosene, sulle onde, le impronte delle persone, i giochi dei bambini, il suo grembiule, la bandiera con la torcia infuocata, il zittirsi delle pettegole, il tubare dei piccioni, il canto che si diffonde fuori dal convento delle suore di clausura mattino, pomeriggio, sera, sui poster, sul suo cuscino, sul letto, sulla sedia, sulla tavola, sulle scalinate, sui piedistalli nei giorni di festa, sui pannolini sporchi, sui piumoni messi via, nel vento, sui desideri dei bambini, sui lumini sotto l’Immacolata, nel confessionale, sul muro del palazzo del Gran Maestro, sui pomi delle porte, sui francobolli, sugli incarti dei pastizzi, sui cartelli dei prezzi al mercato del martedì mattina, sulle cassette delle lettere, i petardi durante le feste, i lacci che scivolano giù dalle code di cavallo delle ragazze, su un bicchierino di whisky o brandy, sulla porta del negozio di zio Vince a Whitechapel, sulla morte, sul suo fornello, sulla credenza, sul lumino tremolante sotto la Vergine, sulla litania del rosario, sulle scatoline dei fiammiferi, il secchio d’acqua saponata, la scopa, lo straccio da terra, i grani del rosario, sulla macchina da cucire, sulle cartoline d’auguri, sull’angustia serpentata delle strade, su bruttura, tristezza e solitudine, su tutto e niente, ovunque le capitasse d’essere, ovunque si recasse, tranne che sulla sua tomba, Polly lasciò il suo marchio, tre minute lettere, pure sul cuore, tre minute lettere: pdm.
Translating poetry, on the other hand, came about as the result of an unexpected (but welcome) proposal which emerged in the summer of 2017, by Nadja Mifsud. Thanks to it, I was introduced to one of the more interesting voices in Maltese poetry. And so, I translated a few poems ahead of her participation in the Italian poetry festival Voci lontane Voci sorelle .
Parentesi
Primo giorno
Ti saprò, frammento per frammento
gli occhi per cominciare
gli stessi che invocavano i miei
dal bordo della piazza
dove una folla impaziente s’era radunata
per ascoltare Adonis
e un sacco d’altri poeti
- e poi -
dammeli
mi sussurrasti nell’orecchio
lasciamene bere un sorso
fammeli amare
e di me neanche sapevi il nome.
Secondo giorno
Il mento sulla tua spalla
la mano a cingerti il fianco
adoro
fasciare la tua guancia
col mio fiato
Terzo giorno
Già naturale per i miei occhi appena schiusi cullarsi nel tuo sguardo
e fugata ormai la paura d’annegarti dentro
amo immergermi sempre più
immergermi fino a non avere respiro
immergermi fino a toccare il fondo
Quarto giorno
Testa contro testa
su questo divano vacillante
già le tue dita si dilettavano col mio ombelico
quando mi dicesti di tua madre
del suo ferro da stiro
brandito come una minaccia
tutte le volte che lacrime e sogni marciti
tracimavano margini non più contenuti dal vino
t’avrei offerto riparo nel mio ventre, ridato la vita
amato dalla testa
ai piedi
ovunque
come creatura mia
offerto il mio seno
nutrito, appagato
saziato, vezzeggiato
messo in fuga ogni affanno.
Il mio amore era allora più forte
mentre ninnavo i tuoi pensieri di roccia
e capivo meglio perché
casa tua aveva mura di colori diversi
uno per ogni umore
avevi detto
più tardi
con un rivolo d’argento
sul mio grembo
t’ascoltavo compiaciuta
slacciare tutti i nostri dobbiamo
per riannodarli in altri intrecci
in un monile di baci
Quinto giorno
Scossa dal gorgoglio
del caffè
che annuncia un’altra alba
affondo il naso nel cuscino
dove il tuo odore indugia ancora
appagata dallo scalpiccio
di te in cucina.
Lascio che carezzi il mio torpore
dilato fin che posso questi istanti
- fosse solo per sogno -
questa storia tra parentesi
Sesto giorno
Un pensiero spiacevole
fluttua in superficie
scarico il lavandino
la schiuma s’aggrappa
una lotta muta
contro l’acciaio inox
Parto domani
e non ne ho voglia.
No, non è vero che la terra è tonda
(per S.)
No, non è vero che la terra è tonda
ha bordi aguzzi e taglienti
come le parole che tuo padre scagliava
in faccia a tua madre
si frantumavano contro i muri
franandoti in grembo
e tu le intrecciavi con i capelli delle bambole
sperando di farle svanire.
Studiavi i colori
col mento sul tavolo della cucina
la mano di tua madre
febbrile nella semina
di una manciata di pasticche
come fuochi d’artificio
negli angoli più remoti della sua testa
o sciogliersi come arcobaleno
nel nero amaro dei suoi occhi
Sapevi a memoria
tutti i c’era una volta
e i vissero felici e contenti
ti ci rannicchiavi
assaporandoli
succhiandone ogni parola
poi li rimboccavi sotto le coperte
illudendoti di ammansire così
le durezze di un mondo
che t’irrompeva dentro con i singhiozzi di tua madre
e la bestialità di tuo padre.
Continuavi a dar retta a quelle storie
anche da ragazza
care a te come la vita
talismani color confetto
sempre addosso
e non ti tornava perché in questo mondo ingarbugliato
dove ogni cosa è sottosopra
i principi si mutano in ranocchi
e non il contrario.
La mano trema
nel seminare una manciata di pasticche
bianche come la morte
te le figuri esplodere nella testa
straordinario gran finale
sciogli i capelli
spegni la luce
senza vestiti
sdraiata a terra
marcisci ancora un po’.
And then, last summer (poetry always keeps me company during the sultry Maltese summer), I went deep in the words of another Maltese poet, whose verses I will add here as soon as they are published.
***
*prior to the reform in 1999 (where the student was given the luxury of choosing a single topic from each subject to be tested on), the final oral exam (following the written ones in Italian and Maths for those who attended Scientific high schools – Classic ones got Italian and Latin, lucky them) consisted in questions about all the programme of the year in about four subjects (actually they were “just” two, which the student chose according to a strategy of marks and hopes that the professor wouldn’t have “changed” their choice at the decisive moment). In 1997 the subjects in the Scientific strand were Italian, English, History and Physics.