
Ci penso spesso. Ci penso molto ogni volta che mi ritrovo a tradurre. Il maltese è una lingua a cui sono più vicina visivamente che con la voce, o con l’ascolto. La lingua dell’isola in cui vivo è qualcosa di letto e scritto, prima che parlato. Una lingua con cui hanno maggiore famigliarità e agio i miei occhi, che le mie orecchie. In pratica, il maltese che capisco e uso meglio è una sequenza digitale (nel senso di separata e successiva) di lettere e parole; solo in un secondo momento una continuità circolare composta di suoni e pause che in gran parte capisco, ma con cui so poco interagire.
L’ascolto, specie quando mi chiama direttamente in causa esigendo rapido una risposta, lo trovo scomodo, se non perturbante: mi scuote dal mio spazio, espone i miei limiti e, invece di avvicinarmi, finisce col distanziarmi sempre un po’ dalla persona che a me si rivolge in quel momento. Nel tentativo di comprendere cosa mi sia stato chiesto, infatti, mi blocco, impigliata nella velocità delle parole e nell’urgenza di una reazione. Arranco, non ne esco più. Nel migliore dei casi farfuglio: jekk joghbok, tista titkellem bil-mod? Nel peggiore resto in silenzio, sollevo spalle e sopracciglia, chiedo tacita comprensione. Cerco di riportare alla mente una o due parole a cui, magari, appigliarmi. Mi butto, provo a indovinare. La mia risposta diventa un’altra domanda, la richiesta di una conferma. A quel punto la persona inizia a parlare in inglese. O peggio in italiano. Come i suoni che non ho saputo cogliere, anche il suolo su cui mi trovo mi scivola da sotto i piedi. Mi sento inadeguata al luogo, perché è come essere appena arrivata, di nuovo.
Letto invece no, il maltese letto è tutto un altro mondo.
E’ una lingua di cui posso avanzare qualche pretesa di possesso attraverso l’uso, seppur in modo temporaneo, labile. E’ un enigma che so di poter sciogliere più o meno facilmente, una serratura da sbloccare, un intreccio di parole che sempre mi restituisce, alla fine, la piena dimensione del mio stare qui.
Leggere (o leggere e tradurre) il maltese mi radica, allo stesso tempo, nel presente della lingua che comprendo e interpreto e nella storia di quella a cui appartengo, e che mi appartiene. La mia identità è completamente in quella parola tradotta, nella traslazione ragionata di uno stesso senso in sequenze diverse di fonemi. Nella parola maltese di partenza che capisco o arriverò a capire e in quella italiana di arrivo (che in fondo sapevo già, ma non prima di averla trasformata) mi ci ritrovo tutta. E tutto ritrovo.
I rapporti che si intrattengono con le lingue sono vari, come quelli intrattenuti con le persone: relazioni fatte di circostanze, di tempi, di contesti, di rotture, di riprese. Le volte in cui il maltese l’ho lasciato e ripreso non si contano più, non me lo ricordo.
Ricordo però come questa mia invertita dislessia nella relazione con il maltese ebbe inizio e ricordo pure di essere stata particolarmente felice, se non eccitata, prima del mio arrivo a Malta, nel settembre 2004, di sapere che sull’isola, oltre all’inglese, ci fosse anche il maltese. La guida ne riportava alcune parole, sì, no, buongiorno, via. Iva, le, bongu, triq. Le note sulla pronuncia sfuggirono a me e alle mie amiche cosicché, all’arrivo all’aeroporto, salutammo chi venne ad accoglierci con un largo “bonguuu” (non bongiu).
Le implicazioni contestuali, letterarie e sociali della lingua locale avrebbero avuto una certa rilevanza per la mia ricerca sui campi letterari, ben più di quanto avessi immaginato. Quello che mi trovai a fronteggiare, allora, era una sistema in cui i miei scrittori informatori investivano una composita ed energica strategia di possibilità, reclami indentitari, conflitti letterari intergenerazionali, invenzioni, rimaneggiamenti. Il maltese non era solo un mezzo di espressione invisibile, uno strumento fàtico: il suo uso apriva a uno spazio completo di azione, di scoperta, di costruzione. A volte gli scrittori maltesi mi apparivano come esploratori infaticabili in viaggio a casa propria, una casa dalle mura espandibili, dagli angoli ancora celati; una casa il cui numero totale di stanze restava (e resta) sconosciuto.
Il maltese era la linea fluida che incorniciava campi letterari e culturali in espansione, all’interno dei quali la nuova generazione si concedeva sempre più spazio per rafforzare e testare la propria legittimità. Là distendeva le gambe, alzava sempre più la voce.
Acquistai subito un libricino, l’unico allora per stranieri, per studiarmelo. Iniziai ad apprendere quella lingua in silenzio, di sera, dopo cena, scrivendo appunti a matita, riempiendo esercizi che nessuno avrebbe corretto, immaginando la pronuncia. Era un modo per conoscere meglio il mio terreno, per affondarci i piedi ancora di più, avvicinarmi alle persone che avrei incontrato.
Quel mio originario entusiasmo fu scalfito anzitempo, anche se non in modo irreparabile.
Frequentavo già da qualche giorno la sezione Melitensia, nella libreria universitaria. Un giorno chiesi in prestito a uno dei bibliotecari, assieme a qualche testo inglese di critica letteraria, anche un paio di libri di poesie, in maltese appunto. Tutto quello che volevo era vedere la lingua nella sua forma letteraria, toccarla con mano, ripassarmela tra le mani come fosse una cartolina delle spiagge o delle città, la foto di un paesaggio, di una strada. Il fatto che non capissi cosa ci fosse scritto non era importante, per il momento.
La prima reazione del bibliotecario, dopo essere tornato dalla ricerca con in mano i testi domandati, fu quella di rifiutare parte della mia richiesta. Indicando proprio quelli di poesia mi disse:
“These ones are in Maltese”.
“I know” risposi candidamente.
“Do you read Maltese?” continuò, caricando di uno stridulo sarcasmo le due vocali della parola “read” che poi trovarono manforte nell’assonanza della seconda vocale della parola “Maltese”, tanto che l’espressione sibilò pressappoco così: do you riiid Maltiiiise?
Poi, senza aspettare la mia risposta, sicuro di aver concluso così quella sfortunata negoziazione, iniziò a separare i libri in inglese da quelli in maltese, tirando a sè i due volumetti a me proibiti. Prima che li sfilasse del tutto dalla mia vista, riuscii tuttavia a mormorare: “No, but I have someone that will help me to read them”.
Non era vero, ma almeno l’ebbi vinta, diciamo così, e quella sera, appoggiata al grosso bancone di marmo verde della cucina, tra parole che ancora mi sfuggivano e altre difficili da pronunciare, andavo in cerca di quelle note, o di quelle che anche solo evocassero quelle note, come inattesi spiragli sulla superficie di un muro la cui altezza e spessore avevo prematuramente sottovalutato. Strizzavo gli occhi per vedere cosa ci fosse oltre, ma quella barriera era ancora troppo spessa e compatta.
Il maltese era quel muro e col tempo si sarebbe sempre più assottigliato e riempito di crepe da cui avrei scorto un panorama sempre più vasto. Parti intere sarebbero crollate, e una selva di immaginari rampicanti non avrebbe più ricoperto le aperture a ogni partenza creduta definitiva. Il profilo della Sicilia, e di tutte le altre terre i cui lemmi la lingua maltese aveva in sé accolto, si sarebbe profilato all’orizzonte, sempre più nitido, sempre più netto.
Ma nel mio procedere rasente quel muro, i suoni avrebbero continuato a essere per lungo tempo un intralcio ai miei passi.