Su Parigi non ho mai scritto molto. La città, l’ennesima di una salvezza, ha sempre parlato per immagini. Forse perché da quando ho lasciato Roma la scrittura è andata tutta ad annidarsi nelle note di campo, negli appunti di biblioteca, nei fitti capitoli di una tesi ormai discussa, difesa, messa per il momento da parte, in attesa di trovare senso in un’altra lingua.
Su Parigi non ho scritto mai molto, ma tanto l’ho percorsa arrestandomi spesso per ritrarla, man mano che nella fotografia trovavo una lingua più leggera e naturale di quanto lo scrivere non mi abbia mai dato, assieme a un’esattezza che le parole, per quanto scelte, non hanno mai soddisfatto del tutto. C’era sempre un aggettivo, un verbo, un nome che sarebbero stati più adatti, una costruzione che sarebbe girata più liscia nel rivolo veloce e necessario dei periodi.
Invece, in ogni foto, la luce, l’inquadratura e il momento sono sempre stati quelli giusti.
Su Parigi non ho scritto molto, ma molto l’ho amata. Mai a fatica, la fatica è stata lasciarla, a volte; e a volte, le ultime, tornarci. Fatica di dover fermare la mente su quello che impediva ai piedi, per dovere, di percorrerla ancora come avrei voluto, di fermarmi ancora mille altre volte e altre mille premere un tasto, fare “click”.
Su Parigi non ho mai scritto molto, e chissà se mi riuscirà di farlo ora, e se non adesso, da adesso in poi. Ora che la fatica è sfumata, che la ricerca e il libro sono stati discussi, difesi, celebrati. Ma non come un successo, piuttosto come la fine di un’incombenza. Non la luce rischiarante un lungo percorso dove tante persone e cose belle e cose brutte si sono messe a seguirmi o precedermi; non champagne e fuochi d’artificio. Per niente. Liberarmi della tesi è stato più come poter uscire, finalmente, da una stanza piena di cose preziose e cianfrusaglie, tirarmi la porta alle spalle, mettere la chiave in tasca, sapere che è tutto ancora là e poter tirare un sospiro di sollievo perché non si è più obbligati a tornarci dentro.
Su Parigi non ho scritto molto e volevo scrivere, davvero, ma come si fa a scrivere di quello che a stento si potrà mai esprimere?
Scrivere del dolore che mi ha sbiancato il cuore la notte del 13 novembre; non ero là, ma c’ero – non erano in quelle strade quelli che sono tra i miei più cari affetti?
Scrivere dello sgomento che ha tolto colore agli occhi e al viso, una domenica di dicembre, mentre percorrevo da sola boulevard Voltaire, dopo aver lasciato le mura di una casa amica dalle cui finestre per settimane ho osservato la vita scorrere per strada, come in un sogno. Scrivere d’essermi fermata, atterrita e commossa di fronte alla risacca immobile di fiori, candele, foto e biglietti con la gola prosciugata di ogni parola e la coscienza ancora incredula. Fosse stato davvero solo un sogno. Per me, per i miei amici, per tutti. Potessero davvero risvegliarsi tutti.
Scrivere che Parigi non sarà più la stessa città di prima, che sarà sempre un po’ la città del tredici novembre, che gli echi di quella notte uno se la ritroverà di continuo nel tondo di un tavolino mentre ordina un caffè, una birra, un bicchiere di vino; nel vimini scricchiolante di una sedia di legno che dà le spalle alla strada; nel biglietto per un concerto; nel vetro di un ristorante dietro il quale vede scorrere la gente, le auto, le luci.
In quei giorni una vecchia amica mi ha detto “mi hanno sottratto la mia città, me l’hanno portata via, la città della mia giovinezza” alludendo non solo a quella notte ma anche a tutte le discutibili reazioni di controllo e limitazione di ogni libertà. Avrei voluto dirle, anche a me, che in questa città ho trovato quello che che una giovinezza altrove non aveva mai saputo darmi.
Su Parigi non ho scritto mai tanto, ma questo non significa che non le sia grata, che non le voglia bene, che non cercherò sempre di farvi ritorno. I grandi amori, come i dolori più tetri, non trovano ordine nella discrezione delle lettere.
La loro ragione giace nella carne, nel respiro, nel silenzio.