Malgrado Belgrado, quasi un’abitudine.

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Belgrado, un anno dopo.

Belgrado buona la seconda, ma anche la prima era stata discreta. Discreta ma diversa, perché diverso era stato l’arrivo.

L’anno scorso, con un gruppo cospicuo di persone –  che si sa i gruppi cospicui diradano l’attenzione e smembrano il tuo punto di vista in tante voci e tanti bisogni e tante impazienze mentre si aspetta in una piazzola, in un caffè, all’inizio di una strada e si sta là, cercando di mettere un punto al da farsi.

L’anno scorso guidati per una città che già si dichiarava, ma senza alzare troppo il tono, interessante e verde, di punti ne erano stati messi parecchi, nessuno a capo. Solo puntini, tre, sospesi. Lo scorso anno era stata una città filtrata, molto più di quanto filtrata sia ogni altra città a cui giungiamo conoscendola già un poco, avendola già un poco immaginata. Belgrado era stata percorsa sotto la guida di chi già la conosceva,  sotto quello che ci si aspettava che fosse, imbrigliata dal numero limitato di ore concesso per capirla, da un arrivo sempre dall’esterno, per treno, per autobus.

Forse per questo la voglia di tornarci quest’anno non era così forte, non come lo era stata l’anno scorso. E non fosse stato per la proposta di Ludo, magari non l’avrei neanche presa in considerazione. E sarebbe stata ancora, tra qualche anno, la città di un breve viaggio, di un breve assaggio. Dall’esterno.

E invece.

E invece Belgrado mi ha ricordato quanto mi manchi una città quando ci vivi dentro.

Il suo rumore, le sue strade che sono sempre le stesse e sempre diverse, quel senso di scompigliata famigliarità che ci offre. La mattina odorosa di colazione, di pane fresco, di formaggio, di yogurt, di colline di frutta e verdura su grossi banchi. Di scuola, nel nostro caso. Di spruzzi d’acqua sui marciapiedi, di serrande ancora abbassate. Il pomeriggio più caldo, più grigio, più polveroso, che si fa oggi pomeriggio? Si studia o si esce? Una birra là in quella via dai sampietrini strani, a modo loro? E i libri. Non ci capivo quasi nulla, ovviamente, ma quanti e belli anche solo da vedere.

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Spot the #cat.

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La sera gialla, piena di note quando si usciva e fuori o a casa sempre un puntuale mancare ai propri voti alimentari, l’ennesimo cedimento a un piatto locale, ma come si fa a dire di no? Basta che ci siano ancora quei paradisiaci pomodori che neanche devi condirli, basta che ci sia un bašta, un giardino. O un cortile. Ah i cortili. Cortili tanti, tanti cortili che non ti aspetti, piogge di cortili fioriti, pieni di leggerezza e grazia, di sedie bianche, fiori, di mobili arrangiati, caffè profumati, prosecchi con petali di rosa, riportatemi in quei cortili.

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The ladies who do #dinner

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La notte mai vuota, per vie sempre piene ma senza più affanno. Costellazioni di pop-corn sul pavimento della via centrale, musica fino a tardi, fino a quando il tardi diviene presto. La città che si scrolla di dosso, ma senza troppa convinzione, l’acqua e i fulmini di un violento temporale. Un cinema per due sere, senza interruzioni, affogati dentro poltrone rosse. Il ritorno in discesa verso casa, che bello tornare a piedi, che bello quando parecchi luoghi sono a distanza di soli passi e sotto gli alberi.

L’anno scorso non sapevo cosa Belgrado volesse dire. Quest’anno ho imparato a leggerla un poco.

But… Why?  Ci chiede un cameriere quando, dopo la richiesta di un menù non solo in inglese ma anche in serbo gli spieghiamo che è perché lo stiamo studiando.

Perché?

E la stessa domanda pare ce la porgano in molti. Perché? Sembrano continuare a interrogarci gli occhi di molte persone, perché siete qui e non a Praga, Parigi, Madrid? Qui non si fa turismo, non ci sono fuochi d’artificio, mare, spettacoli, attrazioni; qui si vive, ci si arrabatta tra le abitudini, e qua e là, magari, ci casca pure nell’occhio un luogo di memoria, ma memoria nostra, memoria che voi neanche sapete che forme abbia. O se ve la immaginate dio solo sa come. Che chissà come ve l’hanno raccontata questa nostra memoria, chi ve l’ha raccontata. Chissà che ne sapevate già di questa nostra città elegante e decadente, verde e al riparo, il più possibile, il più a lungo possibile, dalla vostra immaginazione, dalla vostra memoria.

Care persone della città bianca, proprio l’abitudine ne è stata la ragione, e sì, pure un’immaginazione vaga, da sistemare, da completare.

E dunque grazie per queste giornate di straordinaria quotidianità: un po’ lavoro, qualche giro, molte soste, brevi liste di spesa, un viaggio fuori verso una vallata umida fuori dal tempo, letture abbastanza, quattro rullini da sviluppare,  gentilezza in dosi appaganti, una mansarda perfetta a cui fare ritorno.

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Memory house #banjavrujci

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#Office for the week #skadarlija

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É stata vacanza senza esserlo del tutto. Perché, come già convenuto più volte con Ludo di fronte a bevande e vivande di vario genere, una vacanza ha sempre aspettative troppo alte e un troppo frenetico da farsi, per lasciarti davvero il tempo di una quiete.

Scrivo ora da Malta, di fronte un mare in cui, e il solo pensiero mi dà tristezza, non nuoto più come prima.

In un mese sarà autunno, e l’autunno qui è la parte più bella dell’estate perché è solo quando i lidi si svuotano e tornano silenti che ci si può davvero e finalmente riconciliare con l’isola, amarla di nuovo, dare pace alle memorie.

Forse, tra un mese, riuscirò a mettere da parte Belgrado e quella nostalgia pungente che solo un altro luogo, se si esclude Malta, mi aveva dato molto tempo fa, dopo solo qualche giorno là trascorso. Nostalgia e un pungolo che mi sarei trascinata dietro per anni e anni.

Era un’altra vita. Ero molto giovane, persa tra gli esami, inquieta ma muta.

Era l’estate del duemila, la città Parigi.

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p.s. la prima foto è di Ludo, qualcuna è di Teo, altre fatte col telefono, tantissime sonnecchiano ancora nei rullini, spunteranno a ottobre-novembre, come i funghi