Mentre Olivia dormiva…

Lady Olivia ancora ignara dell’arrivo di Duke Orsino, esattamente un anno fa.

…O forse era sveglia e si stava chiedendo perché avessimo preso dall’armadio quella borsa che le fa tanto paura, perché è la borsa con cui di solito la costringiamo a lasciare il suo territorio per andare dal veterinario (quando sua maestà pelosa non riceve la visita a casa), o per prendere un aereo. Forse era sveglia e si era nascosta, e forse poi a dormire si era messa davvero mentre noi, a piedi, raggiungevamo un rifugio di gatti (Rescued Paws Malta, ndr) nelle campagne qui vicino con in testa gli occhi grandi e irresisitibili di un gattino, intravisto tra i tanti pronti per essere adottati. Quel gattino ce l’eravamo un po’ sudato, diciamo, in una lunga intervista il giorno prima, intervista che mi aveva messo addosso non poca ansia: e se poi salta fuori che non siamo adatti a tenere gatti? Chi glielo dice a Olivia dopo tutti questi anni? Come potrò ormai andare avanti io, che sono gattara da quando ho praticamente cominciato a stare in piedi da sola?

La prima immagine di Duke Orsino (o Orsino, o Orsetto o Pampepato), dopo aver superato l’intervista e avere avuto accesso alle foto dei gattini pronti per l’adozione.

Ma l’intervista era andata bene e così potevamo andare a prendere il gattino, quello a cui era stato dato il temporaneo nome di Milo (e che, non lo sapevamo ancora, lo stesso veterinario di Olivia aveva visitato, sverminato e spulciato qualche giorno prima, per di più credendolo una gattina – pretty girls, aveva detto a lui e alla sua banda di fratellini – ed etichettandolo poi però come un esemplare di felino ferocissimo e di cui era ancora assai spaventato quando, qualche giorno dopo, glielo avrei riportato per una visita: “Tienilo tu”, mi avrebbe detto, “l’altra volta ha tentato di uccidermi”. Orsino, questo eri tu, gattino tra i più dolci del mondo. Un gattino che incuteva terrore. Tu, con quegli occhi col kajal, quelle zampette e quelle orecchiette a punta).

Milo-Orsino lo avevamo “scelto” tra altri, lo avevamo “scelto” per quegli occhi grandi e luminosi, e il manto di quelle sfumature di neve e roccia per cui io ho sempre avuto un debole, perché sono gli stessi colori di gatti dolcissimi, fieri e intelligenti, come Kiwi e Grigetto, che avevo già avuto la fortuna di incontrare.

Lui non era molto d’accordo sulla nostra decisione. Anzi, proprio non ne voleva sapere. Ha provato a spacciare suo fratello per lui, e a farlo adottare al posto suo, scappava, si nascondeva, si ribellava con tutte le sue forze, che per dimensioni ed età non erano poche. A un certo punto, quando mi è stato consegnato, mi ha morso, soffiato e graffiato – mentre altri gatti facevano a gara per infilarsi nel trasportino lasciato aperto e farsi portare via. Ma io sono di coccio. Volevo lui. Volevo quegli occhioni. Quelle orecchie a punta.

Ma cominciavo anche a perdere, a poco a poco le speranze, guardandomi un po’ intorno in cerca di alternative. Non mi andava di costringerlo.

Se non ci voleva non ci voleva, pace.

Dopo quella reazione non proprio incoraggiante, tuttavia, lui non era tornato a nascondersi come prima, ma si era raggomitolato su una copertina gialla, all’interno di un contenitore di plastica sistemato su un carrello a un metro da noi e ci guardava. Ed è a quel punto che Teodor mi fa: “He blinked at me”. Aspetta, wait.

Fermi tutti.

Qualche speranza c’è ancora. Un gattino che ti strizza gli occhi è un messaggio dall’universo. La vita che prende un bivio inatteso. Con l’aiuto del tipo del rifugio proviamo dunque a riprenderlo, lui ancora si ribella, ma alla fine lo mettiamo nel trasportino. “Lucky boy”, gli dice lui, nell’accomiatarsi da quel micetto trovato appena dieci giorni prima a Mosta assieme ai suoi due fratellini (altrettanto forastici), con un bacio sulla fronte. Orsino continua a non condividere la nostra scelta, trasformandosi di nuovo e ancora di più in una palla di pelo soffiante, sbraitante, miagolante, urlante che cerca di fare a pezzi, dall’interno, la borsa, e continuando a esprimere il suo ferino, primordiale e ferocissimo dissenso per tutto il viaggio di ritorno, con me preoccupatissima per lui, per Olivia, per noi, perché non era così che me l’ero immaginata quella nostra piccola idilliaca avventura alla ricerca del nostro nuovo gattino. Gattino che per nulla al mondo avrei mai riportato indietro.

A casa, seguiti da un’Olivia assai curiosa e un po’ perplessa, lo mettiamo al sicuro, isolato, nel mio studio, con acqua, cibo e lettiera e là lo lasciamo. Lui non mangia quasi nulla, ma esplora intorno, butta giù dalla scrivania qualcosa e usa la lettiera, come il più diligente dei micetti. Dopo qualche ora ancora fugge, ancora ci evita, ancora si nasconde, ancora soffia, ancora è del tutto terrorizzato dal non sapere dove si trovi, con chi e perché. Lo lasciamo ancora tranquillo, con Olivia che da dietro la porta smania per sapere cosa stia accadendo. Poi, lentamente, a sera, forse stremato, lo troviamo accoccolato e apparentemente calmo sulla sedia girevole. Mi avvicino, gli faccio annusare la mia mano, gli appoggio un dito sulla fronte per accarezzarlo. Soffia ancora ma, allo stesso tempo, comincia a fare le fusa. Soffia e fa le fusa. Non sa più neanche lui cosa deve fare…

Il resto della storia parla di un gattino meraviglioso e affettuoso che cresce a vista d’occhio, che cresce quando non siamo in casa, che è nemico giurato delle mie piante, loquacissimo, che ama giocare con i tappetti del latte di mandorla, che si emoziona quando pulisco le verdure, perché sono altri potenziali giochi. Il resto della storia parla di almeno cinque mesi (cinque!) di suoi tentativi quotidiani e strappacuore di conquistare la bella e riluttante Lady Olivia, la quale, come la sua shakespeariana omonima, lo respinge, lo evita, gli soffia, lo tiene a relativa distanza finché la pertinacia di Orsino-Orsetto-Pampepato – e il freddo delle case maltesi – non la fanno cedere.

Il resto della storia è Olivia che non dorme più da sola.

Se la cosa le faccia piacere o meno, l’autrice di questo blog non è però in grado di dirlo con certezza. Olivia è Olivia, e anche se è felice della presenza di Orsino, non lo ammetterà mai.

‘Since you came here, you brought another island in you’

Questa mattina mi trovo a riscoprire, come se uno potesse davvero dimenticarlo, la potenza della scrittura che ci fa dono di ubiquità spazio temporale, ora che non possiamo muoverci più di tanto. Ho ricevuto questi giorni una mail da una persona sconosciuta, alla quale è stato consigliato di contattarmi per un progetto. Tutto sembra essere partito dall’interesse suscitato per quanto scrissi su Undertow (Ede Books, Malta, 2016), una bella pubblicazione uscita a conclusione della prima fase di Rima, le cui copie sono ora esaurite (tempo di una seconda ristampa?). Di quanto scritto ricordavo poco, a dire il vero, e quindi, per capire cosa avesse colpito i miei interlocutori, sono andata a rileggere quel mio finale contributo, e con occhi quasi nuovi. Ammetto che la sorpresa è stata piacevole*. Lo ripubblico dunque qui sotto, per chi volesse dedicargli qualche minuto.

‘Since you came here, you brought another island in you’

My ideal place is the one in which it is more natural to live as a foreigner: that is why Paris is the city in which I got married, I settled, I had a daughter. My wife too is a foreigner: among the three of us we speak three different languages. Everything can change except for the language we have inside, or better, which contains ourselves as a world more exclusive and definitive than the maternal womb

(Italo Calvino, 2002).

With no consideration, no pity, no shame, /they have built walls around me, thick and high. /And now I sit here feeling hopeless.I can’t think of anything else: this fate gnaws my mind –/ because I had so much to do outside. /When they were building the walls, how could I not have noticed! /But I never heard the builders, not a sound./ Imperceptibly they have closed me off from the outside world

(Konstandinos Kavafis, 1879).

Under any circumstance, migration is not just about a rupture: an immediate, ineluctable change. It also determines a kind of self-perpetuation that, unlike the decision that gave it an impetus, carries out through slow, deep and constant rhythms. So, while on the surface all we record is the turmoil of a sudden change in the scenery and the vague farewell to long-ago tamed landscapes, deep down, a continuous process to perpetuate the awareness of who we are, symbolically, emotionally and contextually, moves forward, by blending memories and expectations. Leaving a city, a land, an island to head toward other cities, lands, islands, is one founding act – among many others – by which the individual claims, makes sense of, and establishes the continuity of their presence in the world. One could argue that, beyond the many meanings and consequences covered by such an experience, the act of migrating represents a kind of multi-situated ritual of presence just in the moment of the utmost exposure of the individual to the risk of losing themselves, to the inevitable fragmentation of their old and familiar horizon.

Horizon. The word jumps out at me during one of our interviews. My interlocutor remembers how, far from home, she misses a particular horizon quite badly – one that occupied her glance for a long time. Among the pages of a beloved text of mine, the italian author Cesare Pavese imagines a dialogue between Odysseus and Calypso. These are the words of the nymph: “if you do not renounce to your memories and dreams, if you do not lay your eagerness down, eventually accepting the horizon, you won’t ever escape from the fate that you know.” (Pavese, 1999: 101)

The fate of Odysseus we all know (and later Homer, Dante and Pavese remind us of it quite vividly) is one of restlessness. Restlessness about knowing, leaving, “ma misi me per l’alto mare aperto” (Alighieri, 1304-1321, v.100), he tells the reader – once imprisoned into a blazing hellish flame, according to the author in exile from his florence. Restlessness of returning. “Since you came here” – Calypso continues through the words that Pavese gave to her – “You brought another island in you” (Pavese, 1999: 103).“I have been searching for it for a long time. You don’t know what it means to catch sight of land, squint my eyes, but only to see that each time, I’ve deceived myself. I cannot accept that and merely remain silent.” (ibid.) – Odysseus replies. The horizon is not a mere faraway line, a view, a city, an island. It is not just something that, year after year, determined our world of imaginaries and possibilities. All this aside, a horizon is something that slowly passes through our flesh, to engrave its shape onto a permanent inner landscape – it is among the many ‘mother tongues’ which we speak in.ambivalent, malleable and elusive, both abstract and concrete, ours and someone else’s… that’s what this horizon is. Likewise the presence, our peculiar being in the world made by memory and experience, that across the line of such horizons stands out, traces and draws its lines; or finds in them its limits, and starting from them, any possible way out. The issue of the presence, and of the wonderful way the italian ethnologist Ernesto De Martino dealt with it (De Martino, 1973), is one of the key concepts of anthropology, the discipline to which I ritualistically turn to make sense of the world. My twenty-year relation with it, with its reasoning, the departure it pushed me into, the people I met thanks to it, the complex and eclectic looking glass it put between my glance and the world, have traced the most consistent part of a multifaceted perceptive, emotional and cognitive inner landscape; in other words, the coordinates of my being here and now. Being in the world means the creation of a reiterative, ritualistic and narrative connection with various times and places: with one’s own homeland, and with the soil where, at the present, our feet are grounded. Sometimes these places coincide, sometimes they don’t, so that the places of our maturity are different to the ones of our childhood. Nevertheless, the thread connecting us to the place we come from is the same thread we let loose when we run towards what we hope, or what we fear, awaits us in the future. It is this thread that ends up weaving what is both the intimate and collective – and certainly complex – storyline that makes up an individual. Intimate because it’s the result of experiences and choices which are individually unique; collective because, besides being the story of a life culturally and relationally structured, it also reflects experiences that are universally shared across centuries and latitudes. Universally shared experience, but also an issue implying detachment, loss, renouncement, struggle and courage, migration comes to us as a delicate matter, and as such it needs to be handled with care.in this regard, an approach that doesn’t shy away from the lacerations of the experience, but which is also able to dedicate space to the strategies and practices which aim to rebuild the individual’s life – and which do not stop at mere survival – proves to be not only necessary but also attentive to the delicacy of the process, to every facet of it. Within many discourses about migration, this would enhance the possibility to address, beyond the exceptionality of the stories, also common and comparable acts, susceptible to encourage a fruitful dialogue and, thanks to that, a possible overcoming of that iniquitous power of position, language and representation that seem to contaminate even the most emphatic and open-minded among us. Differences should be taken into account without, nevertheless, allowing them to limit a reciprocal and necessary translation. One has to remember that, by switching from a burdensome issue for us to a tragic and dramatic issue for them, the dangerous coincidence between migration and problem does not disappear, it simply shifts perspective. In other words, addressing the issue by simply evoking misery and distance means condemning both the process itself and its protagonists to a multiple and definitive alienation.

On the contrary, by reconstructing in the narration the details of a daily life to be structured again through projects, relations, carried, forgotten or lost objects, family ties, the individuality of the migrant ceases to be the indefinite and instrumental protagonist of a statistic, of an newspaper article, of a picture taken beyond a fence, on a boat, along a dusty road. It regains substance and complexity. It reclaims his peculiarity through a self-narration. Between what I am and the story of my life, there is an equivalence, Paul Ricœur emphasizes (Ricœur, 1988: 7). and what we are goes far beyond simply boarding and waiting.

Various migrant voices found themselves in the act of speaking a common language made by daily practices and ordinary habits, objects and places of memory; by the many strategies to build again, elsewhere, a sense of home. By details and contents that, ultimately, represent a shared and fundamental support of our being in the world, both in the mobility and in the immobility. After all, putting together different experiences through similar aspects is all about locating that point of convergence between horizons, which, though differently traced, are nevertheless the result of the same efforts and expectations. Obviously, in every experience of radical displacement, the structuring of one’s own presence, now elsewhere, requires far more reiteration and support than what’s needed in a ‘non-mobility’ situation.now, it could also happen, for various reasons, that these supports are slippery, difficult to recognize, hard to recall.

Then, something universal like literature can always be of some help – literature being an absolute and vital lieu de mémoire and a source of hope, and increasingly more ‘equal’ space because by being less western and eurocentric, it creates a strong backbone of discourse which anyone and everyone can contend with.that is why, in these pages, the reader found literary fragments directly intertwined with our collected narratives.“it is always about accepting a horizon, and for what?” (Pavese, 1999: 101) – claims odysseus, captive on the island of ogygia for seven years.i think, to come back to the beginning, that facing a horizon we always face a choice. It is always about accepting a horizon. Or leaving it. Or building it anew, because, and this is for certain, every horizon comes from a perpetual construction.it both faces our eyes and is not completely there; it is model and aim, past and present.and while the old horizon, with its profile, lights and sounds, takes on the mantle of nostalgia – as a source of refuge, rejection or idealisation – the new one calls for endless effort on our part; an effort in which daily practices, intentions, symbolic, affective and relational negotiation play a prominent role.

I am writing within the walls of my seventh, different home. I go mentally back to all the rooms where I seated down, ate, wrote, read, thought, left objects on the shelves, clothes in the wardrobe, unpacked luggage. When I think of all my lost homes, I think about the wardrobes, the first instant between their walls, with an open luggage on the floor. A horizon too is something we do and undo. a composition. The placement of objects, people and places on a far, vague shelf, throughout the narration by which, mentally and verbally, we put ourselves into a story of departures and returns.

“L’éternel errant n’a pas droit au retour”, the eternal errant lost his right to come back, Jean Claude Izzo writes, quoting Michel Saunier, at the beginning of his novel, Les marins perdus, the story of a dramatic limbo where feelings and memories get stuck (Izzo, 1997: 4). As is often the case, when it comes to departures. Nevertheless the impossibility of a return is partially true. It is true that nobody can come back to the place he or she left, because of reasons both inherent and beyond us. At the same time one cannot deny that every departure drags behind and perpetuates the breach to a new return, to more than one return. In the end, to return is but to find ourselves again, elsewhere.

References

Alighieri Dante, La Commedia – Inferno, canto XXVI, v. 100, 1307-1321, written in exile.

Calvino Italo, Eremita a Parigi (Hermit in Paris), Mondadori, Milano, 2002.

Ernesto De Martino, Prolegomeni a una Storia del Magismo (The Magic World. Prolegomena to a Story of Magism), Einaudi, Torino, 1973.

Kavafis Konstantinos, – “Ithaca” (31, 1911), in Poesie d’amore e della memoria (Poems of love and memory), Grandi tascabili Economici Newton, Roma, 2006. trans. Edmund Keeley and Philip sherrard, edited by George savidis, 1992. – “Walls” (1, 1897), op.cit. trans. Edmund Keeley and Philip Sherrard, 1992.

Izzo Jean-claude, Les marins perdus (Lost Sailors), Éditions Flammarion, Paris, 1997.

Pavese Cesare, Dialoghi con Leucò (Dialogues with Leucò), Einaudi, Torino, 1999 (1947).

Ricœur Paul, La componente narrativa della psicoanalisi (The narrative component of psychoanalysis), Metaxù, vol. 5, 1988.

E ora?

E ora, cosa faremo adesso? Sarà la stessa cosa di quando decidi di curarti gli occhi miopi, dopo decenni di mondi impressionisti nello sguardo? Sarà come passare da un risveglio senza contorni, solo colori, a un altro di bordi sempre più definiti? Quando sai che tuttavia devi aspettare, perché gli occhi devono imparare di nuovo a vedere (e la tua mente anche) o a distinguere, una a una, le lettere sulla pagina di un libro (i miei li rieducai su Cime Tempestose) e prendersi tutto il tempo di cui hanno bisogno per farlo? Quando devi trattenerti prima di guardare uno schermo, perché la luce fa male, e ti dici che aspetterai, che non c’è niente di urgente, niente di davvero essenziale nel virtuale e in quel ciarlare, in quel momento? Sarà così la nostra rieducazione a un mondo che non ci eravamo davvero soffermati a capire in tutti questi anni, a cui davamo solo occhiate distratte, e che inseguivamo, a nostra volta con l’idea bislaccca di dover sempre sbrigarci, come se qualcuno ci corresse sempre dietro? Sarà che capiremo che la vera urgenza è quella legata a cose più essenziali, la salute, l’istruzione, il rispetto, la gentilezza? E l’intelligenza collettiva di leggere e capire, a una a una, le istruzioni per questo nuovo mondo a cui dovremo addomesticarci piano, ci sarà? E per scriverne di nuove, chi prenderà in mano la penna?

Scritti in barattolo

Contavo i giorni che sono stata via quest’anno. Fanno settantaquattro, se ci aggiungo le notti a Gozo. Più di due mesi con la testa su altri cuscini. E sì che mi ero ripromessa che sarei stata buona buona in casa, a scrivere. Invece c’è stata Roma, sei volte, e sono felice di aver trascorso quattro di quelle con Kiwi, prima che se ne andasse, il dodici agosto.

Gatto mio bello, il mondo è davvero meno dolce senza di te, senza il tuo occhio color ruscello di montagna e l’altro di nebulosa di stelle.

C’è stata Parigi a fine gennaio, Parigi che ancora mi mette a disagio visitare da esterna, non viverci più. Quei tre giorni a San Valentino a Innsbruck, per lavoro, e nelle pause le Alpi, il freddo, la neve e la sacher di cui avevo bisogno. Il mio compleanno a Lisbona, una città che profuma di crema, pagine di vecchi libri e limonata. E poi i viaggi di cui ancora non ho scritto – ma lo farò presto, appena consegnati i due articoli, le mie sudate carte d’autunno. Amsterdam, una sorpresa verde e fresca, e il volo oltre oceano, il primo, a Toronto, che ancora se ci penso non ci credo. Strana e velocissima Toronto, dirò presto qualcosa anche di te. Qualcosa in realtà ho già detto.

Sono stata parecchio fuori, ma anche parecchio ho scritto. Traduzioni, articoli accademici, un articolo per una rivista, un racconto per un concorso (è arrivato tra i primi cinque, non ha poi vinto), l’ennesima correzione a un romanzo che ho iniziato più di dieci anni fa e chissà se sarà mai pubblicato. E poesie. Io non scrivo poesie, di solito. Ma quest’anno, anche ispirata da un paio di eventi dove sono stata coinvolta come traduttrice di poesia dal maltese, m’è venuto da buttar giù qualche verso, di tanto in tanto.

L’ultima poesia si intitola Jet-lag. Quel che in effetti ho già detto di Toronto.

E quindi la promessa l’ho mantenuta. Ho scritto. Anche se i miei scritti sono per il momento come conserve di frutta diversa messe in barattolo, ognuna con una diversa etichetta (prosa, poesia, traduzione, antropologia, altro), appoggiate sullo scaffale del quando la apro non si sa ma dovrò a un certo punto, una per una, il prossimo anno. Saranno saporite, profumate, belle. Sono sempre così, tante cose che rileggi, dopo tanto tempo.

p.s.

Buon Natale, intanto. Anche di questi giorni di festa, di quanto mi manchi essere a casa con tutti, e di quanto ormai non si possa più essere a casa con tutti, avrei dovuto scrivere. Ma ci sono cose di cui nulla, neanche i versi, possono parlare. Solo i pensieri a occhi chiusi, i viaggi veloci tra ricordi di voci e lampi di visi e stanze, quelli che parlano tutte le lingue e sono traducibili in nessuna.

Viaggio in Portogallo

Ovvero, il dramma del pomodoro.

Tutto è iniziato sul volo da Zurigo a Lisbona (non perso per un soffio), quando decido di prendere da bere, per la seconda volta nella mia vita, un succo di pomodoro (il primo fu a Parigi, per un aperitivo con Giulia C.). Adoro il pomodoro e spesso quando cucino la salsa della pasta una buona porzione se ne va in copiosi e ridondanti assaggi. Chi era con me non ne ha voluto sapere per più di un sorso e mi ha guardata, per usare un eufemismo, con scetticismo. E io ho pensato di come in effetti ogni pomodoro, una volta uscito dal suo ruolo comune, si muova nei terreni dell’incomprensione. Il dramma del pomodoro è reale ed è quello di un frutto costretto sempre a comportarsi da ortaggio per essere compreso – e consumato.

Ho ripensato a questa delicata questione mentre passeggiavo qualche giorno dopo per la bella Rua dos Remédios, a Lisbona, dove abbiamo soggiornato per una settimana e fatto regolarmente seconde colazioni nelle varie pastelarias e in particolare in quella all’inizio della via, l’Alfacinha, buona e onesta, con i suoi habitués, la sfilza di dolci cremosi (ce li sognamo ancora la notte, e anche il giorno), i barattoli di lupini e le signore del quartiere (sempre a tre a tre) che si incontravano là per un caffè.

Ci ho ripensato perché mi doleva di non essere anche io, in quel posto, une habituée, di non essere capace di ordinare cappuccino e pastel (o anche pan de deus, altra meraviglia) in portoghese, di essere confusa con tutti i turisti che passavano a decine di là per quella via, di non vivere il posto davvero, ma essere solo di passaggio, che la mia permanenza fosse veloce come il tempo di sparizione di due pasteis (perché che fai, ne prendi solo uno?). E in quel momento mi sono sentita anche io un pomodoro, qualcuno che era qualcosa ma doveva agire come qualcos’altro per trovare agio in quella realtà provvisoria di turista o viaggiatrice temporanea – se proprio vogliamo credere che le definizioni che diamo a noi stessi contino qualcosa. Viaggiatrice un corno, ero una turista, punto. Ma ero anche un’antropologa condannata a un perpetuo desiderio di ricerca, che avrebbe voluto fermarsi, trovare un argomento da approfondire, studiare la lingua, girare anche a vuoto e per giorni senza l’urgenza di far fruttare il tempo; di perderne parecchio, anzi, di tempo, per ascoltare il campo, farsi sedurre dalle sue deviazioni, chiacchierare con le persone che ci vivono e trovare nelle loro parole sentieri invisibili e nuovi. E invece tutto quello che potevo fare era consultare la guida, visitare i luoghi consigliati, cercare di perdermi un po’ ma non troppo, stare attenta ai borseggiatori (che pare siano abilissimi e in quella settimana abbiamo sentito più “attenzione ai borseggiatori” che “bon dia”) e conciliare la quantità immane di tuorli d’uovo, che quotidianamente ti passano con tutto quello che ordini, con le abitudini del mio fegato (che a un certo punto mi ha mandato a dire “Virgì, mo’ basta”).

Quando è in vacanza ogni antropologo è a suo modo un pomodoro. Ma è anche questo il bello, questo non adagiarsi mai in nulla, non prendere mai nulla per dato. Questa continua, succosa, inquietudine. E sapere che se si gratta la patina della turista, sotto sotto, c’è sempre un osservatore partecipante.

Nonostante il sentirsi un pomodoro, quei sette giorni a Lisbona sono stati quello che ci voleva. E se turista dovevo essere, allora tanto valeva farlo come si deve. Abbiamo visto parecchie cose quindi, raggiunte rigorosamente a piedi.

E quindi ecco, dopo i tentativi parigini di frivolezza, quelli lusitani, tenendo sempre conto che Lisbona è la città del fado (ah il fado) e quindi ogni frivolezza è solo di facciata.

  1. La to do list

Alcune cose non puoi proprio evitarle, specie se visiti una città per la prima volta. E quindi abbiamo ligiamente depennato dalla lista il Panteão Nacional , la torre di Belém e omonima pastelaria, il Mosteiro dos Jerónimos (splendido), il (purtroppo il chiostro era chiuso per lavori), la Praça do Comércio, il Museu Do Azulejo, il Calouste Gulbenkian, il tram 28, il Bairro Alto, la scontata LX Factory, la livraria Bertrand e una quantità innumerevole di miradores senza l’aiuto di alcun elevadores (la rima è puramente casuale). Tutto a piedi, dicevo. Succede sempre così, per un po’ di giorni ignoriamo i mezzi pubblici, facciamo come se non esistessero per niente, poi ci arriviamo per disperazione e per praticità. Ma in fondo Lisbona è una città piccola, così ha detto più volte un amico di Teo, la prima e l’ultima volta che ci siamo visti, ed è sempre bello avere amici in una città che si visita. Avere qualcuno da vedere e con cui passeggiare ti fa sentire meno pomodoro e più tomate (e quindi, cari Louis e Angelica, quando verrete a trovarci faremo di tutto per farvi sentire il più possibile dei tadam).


2. Il Feira da ladra, l’immancabile mercatino…

…dove non faccio mai nessun affare ma solo foto – e dove abbandono Teo al primo bancone di libri per tornare poi a cercarlo un quarto d’ora dopo e trovarlo esattamente dove l’ho lasciato.

3. La cura dei colori

Vivendo in un’isola gialla che per giorni e anche alla partenza era sotto un cielo grigio, uragani, tempeste, grandine, vento e chi più ne ha, Lisbona è stata davvero una cura per gli occhi.

4. Birdwatching

Venendo pure da un’isola che stermina la maggior parte dei volatili che osano mettere l’ala all’interno del suo spazio aereo, il Portogallo non ha deluso neanche in quello.

5. Sintra

L’ennesimo momento in cui ho rimpianto di aver dimenticato le mie ali da fata a Parigi. Perché Sintra è una fiaba. Ma può anche essere un incubo, se non si azzecca la stagione. Su Sintra ho letto parecchio prima di andare, cercando di capire cosa, tra le tante meraviglie, non si potesse escludere e ovunque, guide e siti, mettono in guardia dalle orde di persone che a gruppi di dieci, cento e mille la raggiungono, l’attraversano e la riempiono, traboccando da ogni dove. Nonostante il treno fosse già pieno di mattina presto e nonostante le scolaresche italiane e portoghesi in gita, siamo stati fortunati e abbiamo potuto girovagare per castelli, grotte, labirinti e lussuriosi giardini a nostro piacimento, senza file, senza intralci. Ci siamo anche seduti alla celeberrima pasteleria Piriquita dove i dolci del luogo li abbiamo provati tutti e due (i travesseiros e le queijadas) e anche quelli devo ammettere che ci mancano assai, ora. Il giro intelligente e fortunato è iniziato proprio dalla pasteleria, ha proseguito con il Palacio Nacional, la Quinta da Regaleira e infine il Palacio e Parque da Pena. Il tutto disquisendo anche di letteratura inglese e Lord Byron che a Sintra dedicò alcuni versi del Childe Harold’s Pilgrimage:


Lo! Cintra’s glorious Eden intervenes
In variegated maze of mount and glen.
Ah, me! what hand can pencil guide, or pen,
To follow half on which the eye dilates
Through views more dazzling unto mortal ken
Than those whereof such things the bard relates,
Who to the awe-struck world unlocked Elysium’s gates?

6. Alfama

Il quartiere dove avevamo casa. Il solo dove, se dovessi tornare a Lisbona, sceglierei ancora di stare. Il fado (ascoltato la sera del mio compleanno gustando un caldo verde al no. 83 di rua dos Remedios) e il commento di Teo “mi ricorda di quando ci siamo persi a Bitonto, ma senza l’ansia di stare per perdere il treno per Bari”, bastano per non desiderare di dormire altrove.

7. Quello che non mettiamo a fuoco,

che accantoniamo, che lasciamo in sospeso come le note notturne di un fado che si insinuano tra le mura piastrellate e ci accompagnano verso un sonno senza sogni, che di cose ne abbiamo già sognate abbastanza ed è tempo di riposare, di riguadagnare energie per altri sogni. Quello che è stato scartato in nome di cose che allora ci sembravano più perfette e solo ora capiamo che nello scarto c’è invece tutta la libertà e la possibilità di essere altro. E che certi errori sono anche bellissimi da fare e da ripetere.

Un errore da non rifare, tuttavia, è quello di lasciare ancora a lungo questo paese da parte. Il Portogallo, che ho vissuto per anni nella letteratura di Pessoa e Tabucchi, è stato un viaggio a lungo accantonato proprio come la sua posizione, defilata là nel lato estremo dell’Europa. Paese con lo sguardo rivolto verso il vento, l’oceano e terre ancora più lontane, terra a sua volta che parla poco del continente a cui appartiene e molto d’oltremare.

8. Dulcis in fundo.

Loro. Che pure se Lisbona non avesse avuto nulla da vedere, il viaggio valeva la pena di farlo solo per loro. Qui sotto la poesia di mani, crema e cottura a 200° della Manteigaria Fabrica de Pasteis De nata.

Obrigada.

Not-So-Lost in Translation

Writing in other languages has always amused me. When I was a teenager with just a couple of years of English under my belt (in the ’90s we would begin studying foreign languages in secondary school), I used to fill in the pages of my school journal in that language too, or what may have passed for a primordial version of the same. The extension of expressive possibility given by other languages (and the fact that Latin couldn’t serve that purpose) made me very passionate about English, so that I chose it as the first subject during my maturità, preceding even Italian, which was my second subject*. In 2002 I dedicated a few months to Spanish, but it didn’t last. Then, in 2004, I discovered the beauty of the Maltese language and its familiar exoticism. Three years later, I followed this up by learning French, whose sentences would have brought me away, first to Paris for my doctoral studies, and then again to the island. I also gave Serbian a try, last time I was in Belgrade. The two weeks there were useful at least to manage to read the signs in cyrillic in a bakery, make the order and get the right (celestial) food. And what about my first love, what about my mother tongue? Well, just when I thought I wouldn’t find time for “her” again, as I used to to before, I found a way to renovate my passion and my dedication to it thanks to the immersion into the deep and graceful sea of possibilities which translation implied. Since then I translated from English, French and Maltese prose and poetry, thanks to all the writers who entrusted me with their work. In 2013 my friend Clare gave me the wonderful opportunity to translate her intense collection of stories, Kulħadd Ħalla Isem Warajh (Merlin Publishers, 2014). Among them I particularly liked these (here’s just an excerpt of some of them):

Promotional postcard campaign for the launch (Photography by me and design by Pierre Portelli)

Rita

Sette minuti alle otto, il treno arriva racimolando fiacchezza e briciole di pane tostato ancora sulle labbra. Spazza via ogni sogno, bello e non, spazza via l’alito pesante. Spinge lontano il silenzio, ne occupa il posto appena per pochi secondi e poi riparte, lasciando che il primo si faccia di nuovo largo, e se non quello uno che gli somiglia. Otto meno sei, appare Rita con addosso il piombarle grave e ingombrante d’un cappotto acquistato l’inverno precedente a Petticoat Lane, molliche di toast sul risvolto, brutti sogni in bocca, gli occhi annebbiati dal basmati al curry. Qualche secondo dopo il suo arrivo sulla piattaforma di Stepney Green, linea verde, direzione Ealing Broadway, un treno si ferma. E preme sul silenzio, silenzio a cui lei si concede tutta. Resta immobile. Le persone le scorrono accanto come ratti, chi verso un vagone, chi verso un altro, chi in direzione delle scale. Due topini sbucano fuori di nuovo alla ricerca di quel pezzo di pane lasciato in sospeso, scovato prima che il treno si fermasse. Lei s’appoggia a un sedile attaccato al muro di piastrelle lerce, bianche. Raccoglie una copia di Metro dal posto accanto per dare un’occhiata ai pettegolezzi della giornata, scialbi come la notte. Come Salvo, le viene da pensare. Salvo è come la notte e questa copia di Metro come Salvo che è come la notte […].

(you can find the English version here)

Camilla

[…] Camilla Petroni, povera, non ebbe per niente fortuna. Perfino quando giunse qui. Restò prigioniera del suo dolore. Era come se un’ombra le gravasse addosso. Ombra, era questa la parola che usava. Dell, diciamo noi in maltese. E quest’ombra l’avvolgeva di continuo. L’ombra del ricordo di lui che ancora le permeava lo sguardo e s’impigliava tra i lunghi capelli. Un ricordo che non le dava scampo, notte dopo notte, quando dentro continuava a bruciarle l’umiliazione di essersi trovata tutto quello che le apparteneva messo alla porta, sparso sui gradini di Senglea. Invasa ancora dalle ultime parole che lui le aveva rivolto quel lunedì mattina, le ultime, in una fredda, stinta mattina. E se il passato continuava a scavarle dentro, ancora più profondo era il dolore inferto da un presente pieno di antidepressivi, dove lei si sentiva diversa, estranea anche a se stessa, irriconoscibile ai suoi propri occhi, tutt’altra donna da quella che era stata accanto a lui; le dita affusolate perennemente alla ricerca delle armonie smarrite di quell’amore, a tentoni verso il suono di una lingua, quella del mare, che non avrebbe più ascoltato; il groviglio dei suoi capelli come tentativo di celare tutto ciò che la dilaniava. Di lei serbo nella memoria lo sguardo di spettro, la voce avvolta in una tosse rauca e il bel corpo: una conchiglia imprigionata in un profondo blu, dove il suo cuore cercava rifugio. Eccola la mia Camilla.

Camilla would also go on to become a short film in 2018.

Polly

[…] Ovunque si recasse, Polly lasciava il suo marchio: pdm. Un piccolo scarabocchio sul muro, un graffio su una panchina o su una porta, su una ringhiera di ferro, per terra, su un secchio della spazzatura, sul sedile di un autobus, a una fermata del bus, sul monumento alla Libertà, i Barakka di su, i Barakka di giù, sui biglietti del trasporto di linea, sui barattoli di cibo, in fondo alle bottiglie del latte, nei cortili delle scuole in cui era stata, sui banchi della chiesa, minuto, appena appena visibile, con una moneta da due cent, su qualche lapide del cimitero, sotto le suola delle scarpe, su Gerfex la gatta tricolore, sul muro basso che circondava il tetto, nella cabina telefonica, nei pensieri dei bambini, sull’abito d’ogni bambola, sulla parete della fabbrica dove aveva per un po’ lavorato, su ogni macchinario d’assemblaggio d’occhiali, sul portone della libreria, sulla sua cartella, sul palmo della mano, sui santini dei defunti, sui libricini della messa, sul righello di legno da 30 cm, sui bastioni, sui lampioni, sulle porte dei club delle bande musicali, sul pianto versato dalla gente all’arrivo del feretro, sul chioschetto di legno in piazza, nel cantiere portuale numero uno, nei magazzini di Marsa, sulle scalinate, sul Cristo Redentore, sulle barche della regata, sui drappi, all’Ħofra[, nel cantiere cinese, sui vestiti stesi, sui cani randagi, sui giornali, sui segnali stradali, sulle sedie della sacrestia, sui lastroni delle tombe del padre e della madre, sulle cicche delle sigarette, sulla sua pipa, sulle facciate delle case, nella polvere, sul bordo delle gonne, tre minute lettere: pdm. E non solo con la moneta da due centesimi soleva imprimere il suo marchio, una volta erano ago e filo, un’altra vernice, un’altra ancora un pezzo di gesso o una pietra, sull’asfalto, sui marciapiedi, sui distributori di dolci, sui cavalli da giostra montati dai bambini, sui tavolini dei bar, sul muro del municipio, sul palo biforcuto sotto la statua del santo retto da un tipetto, nel posto di guardia o nel pubblico gabinetto, sui mai riempiti moduli del censimento, nelle croste di pane secco, nelle banconote, sulla busta della pensione, sui barattoli di tabacco, sulle bottiglie di limonata, sulle lattine di mais, sulle foglie dei fichi d’India, sui muri in macerie, nel mare, sull’elenco del telefono, ai Granai, sulle piante nei vasi, sul vetro delle finestre, nel cielo che si fa fosco, sulle rocce che fronteggiano il mare, sulle spiagge, sulle lingue della gente, sui cancelli delle grosse dimore, sulle portiere delle vetture della gente che la infastidiva e di quelli che la lasciavano stare, sui davanzali, i panni stesi, sulle mollette, sui menù svolazzanti appesi fuori le porte dei ristoranti, per terra, sul portamonete, sulla sua uniforme scolastica, ovunque non potesse essere scoperta, sulle saracinesche, sulle bombole di gas per la cucina, sullo scaldabagno al kerosene, sulle onde, le impronte delle persone, i giochi dei bambini, il suo grembiule, la bandiera con la torcia infuocata, il zittirsi delle pettegole, il tubare dei piccioni, il canto che si diffonde fuori dal convento delle suore di clausura mattino, pomeriggio, sera, sui poster, sul suo cuscino, sul letto, sulla sedia, sulla tavola, sulle scalinate, sui piedistalli nei giorni di festa, sui pannolini sporchi, sui piumoni messi via, nel vento, sui desideri dei bambini, sui lumini sotto l’Immacolata, nel confessionale, sul muro del palazzo del Gran Maestro, sui pomi delle porte, sui francobolli, sugli incarti dei pastizzi, sui cartelli dei prezzi al mercato del martedì mattina, sulle cassette delle lettere, i petardi durante le feste, i lacci che scivolano giù dalle code di cavallo delle ragazze, su un bicchierino di whisky o brandy, sulla porta del negozio di zio Vince a Whitechapel, sulla morte, sul suo fornello, sulla credenza, sul lumino tremolante sotto la Vergine, sulla litania del rosario, sulle scatoline dei fiammiferi, il secchio d’acqua saponata, la scopa, lo straccio da terra, i grani del rosario, sulla macchina da cucire, sulle cartoline d’auguri, sull’angustia serpentata delle strade, su bruttura, tristezza e solitudine, su tutto e niente, ovunque le capitasse d’essere, ovunque si recasse, tranne che sulla sua tomba, Polly lasciò il suo marchio, tre minute lettere, pure sul cuore, tre minute lettere: pdm.


Translating poetry, on the other hand, came about as the result of an unexpected (but welcome) proposal which emerged in the summer of 2017, by Nadja Mifsud. Thanks to it, I was introduced to one of the more interesting voices in Maltese poetry. And so, I translated a few poems ahead of her participation in the Italian poetry festival Voci lontane Voci sorelle .

Parentesi

Primo giorno

Ti saprò, frammento per frammento
gli occhi per cominciare
gli stessi che invocavano i miei
dal bordo della piazza
dove una folla impaziente s’era radunata
per ascoltare Adonis
e un sacco d’altri poeti
- e poi -
dammeli
mi sussurrasti nell’orecchio
lasciamene bere un sorso
fammeli amare
e di me neanche sapevi il nome.

Secondo giorno
Il mento sulla tua spalla
la mano a cingerti il fianco
adoro
fasciare la tua guancia
col mio fiato

Terzo giorno
Già naturale per i miei occhi appena schiusi cullarsi nel tuo sguardo
e fugata ormai la paura d’annegarti dentro
amo immergermi sempre più
immergermi fino a non avere respiro
immergermi fino a toccare il fondo

Quarto giorno
Testa contro testa
su questo divano vacillante
già le tue dita si dilettavano col mio ombelico
quando mi dicesti di tua madre
del suo ferro da stiro
brandito come una minaccia
tutte le volte che lacrime e sogni marciti
tracimavano margini non più contenuti dal vino
t’avrei offerto riparo nel mio ventre, ridato la vita
amato dalla testa
ai piedi
ovunque
come creatura mia
offerto il mio seno
nutrito, appagato
saziato, vezzeggiato
messo in fuga ogni affanno.
Il mio amore era allora più forte
mentre ninnavo i tuoi pensieri di roccia
e capivo meglio perché
casa tua aveva mura di colori diversi
uno per ogni umore
avevi detto
più tardi
con un rivolo d’argento
sul mio grembo
t’ascoltavo compiaciuta
slacciare tutti i nostri dobbiamo
per riannodarli in altri intrecci
in un monile di baci

Quinto giorno
Scossa dal gorgoglio
del caffè
che annuncia un’altra alba
affondo il naso nel cuscino
dove il tuo odore indugia ancora
appagata dallo scalpiccio
di te in cucina.
Lascio che carezzi il mio torpore
dilato fin che posso questi istanti
- fosse solo per sogno -
questa storia tra parentesi

Sesto giorno
Un pensiero spiacevole
fluttua in superficie
scarico il lavandino
la schiuma s’aggrappa
una lotta muta
contro l’acciaio inox
Parto domani
e non ne ho voglia.
 No, non è vero che la terra è tonda 
(per S.)

No, non è vero che la terra è tonda
ha bordi aguzzi e taglienti
come le parole che tuo padre scagliava
in faccia a tua madre
si frantumavano contro i muri
franandoti in grembo
e tu le intrecciavi con i capelli delle bambole
sperando di farle svanire.

Studiavi i colori
col mento sul tavolo della cucina
la mano di tua madre
febbrile nella semina
di una manciata di pasticche
come fuochi d’artificio
negli angoli più remoti della sua testa
o sciogliersi come arcobaleno
nel nero amaro dei suoi occhi

Sapevi a memoria
tutti i c’era una volta
e i vissero felici e contenti
ti ci rannicchiavi
assaporandoli
succhiandone ogni parola
poi li rimboccavi sotto le coperte
illudendoti di ammansire così
le durezze di un mondo
che t’irrompeva dentro con i singhiozzi di tua madre
e la bestialità di tuo padre.

Continuavi a dar retta a quelle storie
anche da ragazza
care a te come la vita
talismani color confetto
sempre addosso
e non ti tornava perché in questo mondo ingarbugliato
dove ogni cosa è sottosopra
i principi si mutano in ranocchi
e non il contrario.

La mano trema
nel seminare una manciata di pasticche
bianche come la morte
te le figuri esplodere nella testa
straordinario gran finale
sciogli i capelli
spegni la luce
senza vestiti
sdraiata a terra
marcisci ancora un po’.

And then, last summer (poetry always keeps me company during the sultry Maltese summer), I went deep in the words of another Maltese poet, whose verses I will add here as soon as they are published.

***

*prior to the reform in 1999 (where the student was given the luxury of choosing a single topic from each subject to be tested on), the final oral exam (following the written ones in Italian and Maths for those who attended Scientific high schools – Classic ones got Italian and Latin, lucky them) consisted in questions about all the programme of the year in about four subjects (actually they were “just” two, which the student chose according to a strategy of marks and hopes that the professor wouldn’t have “changed” their choice at the decisive moment). In 1997 the subjects in the Scientific strand were Italian, English, History and Physics.

Parigi… pace? Sette tentativi di riconciliazione (tra mostre, musei, poesia, galette e cucina vietnamita) e un promemoria.

Prima che iniziasse l’anno nuovo, mentre ero ancora là che mi districavo nei rimasugli del vecchio, mi sono detta, risoluta: nei prossimi mesi me ne starò tranquilla a casa a scrivere e quello che scrivo non resterà nelle disordinatissime cartelle del mio desktop, no, cara mia, stavolta quello che scrivi esce fuori, va pubblicato. Provaci, almeno.

E invece no. A gennaio sono tornata a Roma, a metà febbraio c’è stato l’intermezzo di lavoro austriaco e, tra il primo e il secondo viaggio, Parigi. Ma Parigi, mi chiedo ora, è un posto dove vado o dove ritorno? Il non capirlo mi provoca sempre problemi non irrilevanti con la città e col tempo che le dedico. Ora, mettiamo che Parigi sia il posto dove sempre torno, e non vado mai. Mettiamo che per tornare serva sempre un motivo. Quello sì, c’è sempre. E stavolta era pure validissimo: assistere alla soutenance – perfetta, incredibile, brillante – di Ludo. A Parigi non capito mai senza ragioni. Perché se non ci sono i motivi particolari ci sono comunque quelli ricorrenti: un seminario, un possibile lavoro, senza dimenticare tutti gli amici e tutti i luoghi dove non c’è mai un solo ricordo e dove le memorie si accalcano e fanno a gara per quella che emergerà per prima e per prima si lascerà raccontare.

Tutto questo fa di Parigi la città dei miei ritorni “a casa” (senza che una casa col portone di legno e il codice ci sia più), e mai la destinazione di una vacanza. Che poi queste schizofrenie tra andare e tornare, tra vacanza e quotidianità più o meno ritrovata, non diano problemi di gestione delle giornate, quello è un altro discorso che sa bene chi mi accompagna (e mi tollera). Perché io ci provo rilassarmi a Parigi, ma poi, più di tanto, non ci riesco. Parigi è pesante, sempre. Di nomi di vie e fermate di metro che sono sempre qualcosa di più, di rimorsi, di rimpianti, di visi, di occhi, di giri in bici, di valigie che non volevo fare, di ore in biblioteca, a lezione, di bei ricordi, di file alle panetterie, di giardini e picnic, di mesi che vorrei ancora trascorrervi. Però l’impegno a prendere la ville con più frivolezza c’è, c’è tutto.

Ed ecco, come prova, tutti i miei tentativi.

Tentativo no. 1: Quai Branly o Pompidou?

Avrei voluto fare un salto al Quai Branly, il quale, al di là di tutte le polemiche espositive che uno possa tirare fuori, resta uno dei luoghi più incredibili, in quanto a collezioni, in cui abbia mai messo piede. Quello e il Centre Pompidou, dove invece i piedi li ho messi tutti e due, qualche ora prima di tornare a Malta. Non sono riuscita a ritrovare il mio Matisse preferito e non so se mi piaccia la rigida seppur necessaria partizione cronologica tra arte moderna e contemporanea (preferisco sempre i percorsi tematici) ma capisco anche che sia difficile organizzare tutto quel ben di dio del moderno con le illuminazioni (o spesso i deliri) delle istallazioni contemporanee e quindi, alla fine, non sono uscita delusa (mai, dal Pompidou non si esce mai delusi. Forse un po’ scioccati per i sei euro della fetta di torta di mele. Ma era buona, e li valeva tutti).

Tentativo no. 2: dove non arriva l’arte, arriva la psicoanalisi.

Al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme c’era invece la bella mostra temporanea (ora terminata) Sigmund Freud. Du regard à l’écoute, un viaggio nella quotidianità (se così si può dire) di Freud, negli stimoli, studi, arte, spettacolo e ostruzioni del suo tempo. Non avrei messo Freud sullo stesso piano delle rivoluzioni di Copernico e Darwin (e qui l’inchino è sempre d’obbligo), ma il percorso tra astrusi macchinari di cura pre-psicoanalisi, la sua borsa da lavoro, la ricostruzione dello studio, i filmini di famiglia, le letture dell’epoca e gli schizzi illustranti le fasi dell’isterismo femminile, hanno un po’ messo a soqquadro le basi del mio scetticismo per la disciplina. Che fosse una tappa necessaria, nella storia e prima del pranzo al Marais, su questo non c’è dubbio.

Tentativo no. 3: se la vita è una, perché non viverla da rossa? 

Ancora aperta, fino al 20 maggio (lo dico perché quello che scrivo sia anche di qualche utilità) è invece un’altra bella mostra nel XVIIème (un arrondissement in genere poco praticato), presso il Musée National Jean-Jacques Henner, dal titolo Roux! e dedicata – sì, l’ho scelta io, apposta – ai capelli rossi (alla loro rarità, fascinazione demoniaca, eccezione, ossessione, attrazione, dal tempo del pittore fino a oggi, dall’arte alla pop culture). Il museo è già di per sé un viaggio nel tempo, tra le stanze e le scale di una casa accogliente che deve essere stata anche molto amata; la ricostruzione dell’atelier con scrivania, pennelli e tavolozza (o semplicemente il fatto che nulla sia stato toccato, presumo, da allora) soddisfano anche la più difficile antropologa appassionata di oggetti di memoria e gli schizzi di Henner sono un perfetto preludio delle opere più elaborate che tuttavia, anche nella loro completezza, sembrano sempre sospese nel sogno, in una perfetta soffusa fugacità, e con soggetti che non sai se saranno così disciplinati da restare là buoni e fermi, non appena avrai distolto lo sguardo.

Tentativo no. 4: Pablo. 

Ah, Picasso (al Musée Picasso e al Centre Pompidou). Non sono una critica d’arte e i miei ultimi studi strutturati di storia dell’arte risalgono al quinto liceo (se escludiamo Antropologia e Arte, durante la specialistica). Tutto questo per dire che su Picasso è meglio che taccia. Non mi piaceva molto, un tempo, ma ritengo perché allora non mi piacessi molto io e cercavo nell’arte più sicurezza che labirinti. Ora credo che il mondo senza la sua arte non sarebbe lo stesso: è un’arte che ti scaraventa oltre, e che in quell’oltre ti ci abbandona e smarrisce lasciandoti però allo stesso tempo gli indizi per tornare indietro. E tu ti incammini a ritroso, scosso, sorpreso, incantato, ma sempre con l’occhio rivolto a quel sentiero nascosto.


Tentativo no. 5: Virginie la reine (non proprio la cosa più sicura, in Francia).

Due galette, due vittorie. Non c’è molto altro da aggiungere. Sì, Teodor, anche io credevo che quel rigonfiamento fosse “il personaggio” (cit. Chiara Carolei) e la fetta te l’avevo lasciata scegliere apposta, e invece no, era una galette ingannevole. Le borse brutte (o forse i Buddha, libera interpretazione, ibidem) le ho entrambe trovate io.

Tentativo no. 6: i ristoranti vietnamiti

Se dovessi trasferirmi di nuovo a Parigi vorrei nei pressi di casa (tipo sotto, che posso anche andarci in ciavatte) un ristorante vietnamita. Una delle migliori cucine al mondo, delicata e intrigante, esotica e famigliare, con una perfetta combinazione di colori, come un affresco. E leggera. Siamo tornati con Giulia e Julien da Hanoi, dove cerco di passare ogni volta che capito nel XIème (cioè sempre) grazie a una fortuita combinazione di appetito, freddo, quartiere e mezzodì, tipo che uno ha detto ho fame e l’altro, ah ma qua vicino non c’è Hanoi? e un terzo, oh, c’è posto, e il quarto: entriamo. E zuppa fu.

Ma con Teodor abbiamo anche provato il Quan Viet e se ci tornassi ordinerei direttamente due-tre porzioni dei loro ravioli al vapore e sarei la persona più felice del mondo (almeno per una decina di minuti).

Tentativo no. 7: la poesia (e la filosofia)

Una serata di letture (anche in maltese, grazie Liz) nella bellissima libreria Les Petites Platons dedicata alla filosofia (per bambini, e quindi per tutti). E ricordarsi della bellezza della parola “leggiadro”. E sperare di poter davvero, un giorno, curare la traduzione di quella collana poetico-letteraria-filosofica. Eh, Ludo?

Serata di letture per i trent’anni della rivista Clandestino

Il migliore promemoria di sempre.

Passeggiata veloce, fredda, intensa al Père Lachaise, a due passi da dove alloggiavamo. Non ho trovato Chopin stavolta e la sua lapide piena di rose rosse. Sarà per la prossima.

Foto mie e di Teodor.

Scrivi (un manifesto e una poesia).

 
Prima di tutto, scrivi. Scrivi ogni parola, luce, fuga di lemmi avventata, 
sgrana tra i pensieri 
quello più salato
ma poi pure tra gli sciapi afferra una manciata, 
mettila da parte, lasciala a riposo. 
Scrivi tutto quello che pensi abbia rilievo,
anche la superficie, 
non dimenticare che un giorno pure quella
si muterà in maroso.  
Scrivi gli angoli in cui la mente si incastra e scalcia per uscire di nuovo,
e poi libera si dilegua in una corsa.
Annota le pause, 
non scordare gli inciampi. 
Metti su inchiostro quello che non vuoi sia trascinato via con la tramontana,
o scompaia con le luci delle auto che accelerano e rallentano le giornate, 
che resti imbrigliato 
sulle labbra screpolate, 
tra le frange della sciarpa, 
sulla punta delle dita, 
sul baratro della lingua, 
sullo sdrucciolo della fronte 
mentre pensi 
me lo ricorderò. 
Perché, come ben sai, non accade. 
E quindi scrivi, 
scrivi perché la tua testa è una tasca scucita 
la crepa di una roccia
dove la goccia è già cascata
e la scrittura una rete che trattiene.
Scrivi, scrivi subito. 
Perché a immergersi ogni volta nei pensieri che precipitano 
con la speranza di ripescare ciò che va perduto, 
chissà che titani richiameresti dal fondo di quel fiume buio, 
dal letto del tuo insoluto. 

[E quindi scrivi, scrivi per lasciar dormire gli spettri
e ridestare tutto il resto]. 

 

Cura per lo sguardo

Tra i miei oggetti che migrano, sostano, attendono e si rivelano di nuovo, ci sono, da qualche anno, un bel po’ di rullini in bianco e nero e a colori. Rullini che affido a persone care e i cui sviluppi riscopro, con sorpresa, solo dopo qualche mese, al mio ritorno. La fotografia su pellicola è il recupero di un rapporto diverso con il vedere e con il tempo, è cura e attesa, è antidoto contro la rumorosa invadenza degli schermi, contro la fatica di uno sguardo ingozzato a forza, ogni minuto.

Soprattutto per chi come me, quattro anni fa, ha imparato di nuovo a usare gli occhi, a poggiarli sulle cose, sulle persone, sulle lettere. Occhi nuovi che ora voglio vezzeggiare.

p.s. anni fa per sbaglio, persi tutti i rullini di una vacanza in Sardegna e ne soffrii un bel po’, nel tempo della traversata di ritorno, almeno. Credo fosse il 2001. La persona che era con me me lo fece pesare, e parecchio. Come se gli avessi sottratto, anzitempo, ricordi che poi comunque il tempo avrebbe sfumato, diluito, sciolto. Come se non avessi avuto diritto io, allora, e non senza una certa lungimiranza, a amnesie preventive, assolute e irreversibili.

Un sogno fatto in Sicilia

Sai cos’è la nostra vita? La tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse stiamo ancora lì e stiamo sognando. (Leonardo Sciascia)

La dimensione del sogno raccoglie allo stesso tempo tutto il possibile e tutto l’impossibile. Il sogno è un luogo fluido, dove troviamo barriere che nella vita desta supereremmo senza difficoltà (nel sogno, e sempre più nei sogni da adulti, non si riesce spesso a correre, a vedere, a parlare) o, viceversa, dove senza fatica riusciamo a proiettarci in gesti assoluti.

Tutto del sogno si consuma e dissolve quando apriamo gli occhi, tutto resta e continua a rimbombare nella testa e nel petto per ore, anche dopo alzati. Dimensione paradossale, indispensabile come aria.

Al di là della bruciante bellezza con cui una storia terribile e vera è stata narrata, al di là dei simboli scelti, del bosco che si stringe e si dilata, si illumina e si rabbuia intorno ai protagonisti, della voce dell’acqua, dell’acqua come soglia, dei suoni e dei paesaggi usati come incantesimi, al di là di tutte le corde toccate, il film “Sicilian Ghost Story” ci resta dentro come un sogno su cui si sono appena dischiuse le palpebre umidissime, e da cui il giorno vorrebbe allontanarci. Ma il cuore, morso, commosso, sconvolto, continua con fragore e forza a riprenderci e a ricondurci, anche molte ore dopo, per quei liquidi sentieri, ci scaglia sul bagnasciuga con tutta la schiuma salata delle onde, ci ricorda come è che si vive: amando, lottando, gridando.