Parigi… pace? Sette tentativi di riconciliazione (tra mostre, musei, poesia, galette e cucina vietnamita) e un promemoria.

Prima che iniziasse l’anno nuovo, mentre ero ancora là che mi districavo nei rimasugli del vecchio, mi sono detta, risoluta: nei prossimi mesi me ne starò tranquilla a casa a scrivere e quello che scrivo non resterà nelle disordinatissime cartelle del mio desktop, no, cara mia, stavolta quello che scrivi esce fuori, va pubblicato. Provaci, almeno.

E invece no. A gennaio sono tornata a Roma, a metà febbraio c’è stato l’intermezzo di lavoro austriaco e, tra il primo e il secondo viaggio, Parigi. Ma Parigi, mi chiedo ora, è un posto dove vado o dove ritorno? Il non capirlo mi provoca sempre problemi non irrilevanti con la città e col tempo che le dedico. Ora, mettiamo che Parigi sia il posto dove sempre torno, e non vado mai. Mettiamo che per tornare serva sempre un motivo. Quello sì, c’è sempre. E stavolta era pure validissimo: assistere alla soutenance – perfetta, incredibile, brillante – di Ludo. A Parigi non capito mai senza ragioni. Perché se non ci sono i motivi particolari ci sono comunque quelli ricorrenti: un seminario, un possibile lavoro, senza dimenticare tutti gli amici e tutti i luoghi dove non c’è mai un solo ricordo e dove le memorie si accalcano e fanno a gara per quella che emergerà per prima e per prima si lascerà raccontare.

Tutto questo fa di Parigi la città dei miei ritorni “a casa” (senza che una casa col portone di legno e il codice ci sia più), e mai la destinazione di una vacanza. Che poi queste schizofrenie tra andare e tornare, tra vacanza e quotidianità più o meno ritrovata, non diano problemi di gestione delle giornate, quello è un altro discorso che sa bene chi mi accompagna (e mi tollera). Perché io ci provo rilassarmi a Parigi, ma poi, più di tanto, non ci riesco. Parigi è pesante, sempre. Di nomi di vie e fermate di metro che sono sempre qualcosa di più, di rimorsi, di rimpianti, di visi, di occhi, di giri in bici, di valigie che non volevo fare, di ore in biblioteca, a lezione, di bei ricordi, di file alle panetterie, di giardini e picnic, di mesi che vorrei ancora trascorrervi. Però l’impegno a prendere la ville con più frivolezza c’è, c’è tutto.

Ed ecco, come prova, tutti i miei tentativi.

Tentativo no. 1: Quai Branly o Pompidou?

Avrei voluto fare un salto al Quai Branly, il quale, al di là di tutte le polemiche espositive che uno possa tirare fuori, resta uno dei luoghi più incredibili, in quanto a collezioni, in cui abbia mai messo piede. Quello e il Centre Pompidou, dove invece i piedi li ho messi tutti e due, qualche ora prima di tornare a Malta. Non sono riuscita a ritrovare il mio Matisse preferito e non so se mi piaccia la rigida seppur necessaria partizione cronologica tra arte moderna e contemporanea (preferisco sempre i percorsi tematici) ma capisco anche che sia difficile organizzare tutto quel ben di dio del moderno con le illuminazioni (o spesso i deliri) delle istallazioni contemporanee e quindi, alla fine, non sono uscita delusa (mai, dal Pompidou non si esce mai delusi. Forse un po’ scioccati per i sei euro della fetta di torta di mele. Ma era buona, e li valeva tutti).

Tentativo no. 2: dove non arriva l’arte, arriva la psicoanalisi.

Al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme c’era invece la bella mostra temporanea (ora terminata) Sigmund Freud. Du regard à l’écoute, un viaggio nella quotidianità (se così si può dire) di Freud, negli stimoli, studi, arte, spettacolo e ostruzioni del suo tempo. Non avrei messo Freud sullo stesso piano delle rivoluzioni di Copernico e Darwin (e qui l’inchino è sempre d’obbligo), ma il percorso tra astrusi macchinari di cura pre-psicoanalisi, la sua borsa da lavoro, la ricostruzione dello studio, i filmini di famiglia, le letture dell’epoca e gli schizzi illustranti le fasi dell’isterismo femminile, hanno un po’ messo a soqquadro le basi del mio scetticismo per la disciplina. Che fosse una tappa necessaria, nella storia e prima del pranzo al Marais, su questo non c’è dubbio.

Tentativo no. 3: se la vita è una, perché non viverla da rossa? 

Ancora aperta, fino al 20 maggio (lo dico perché quello che scrivo sia anche di qualche utilità) è invece un’altra bella mostra nel XVIIème (un arrondissement in genere poco praticato), presso il Musée National Jean-Jacques Henner, dal titolo Roux! e dedicata – sì, l’ho scelta io, apposta – ai capelli rossi (alla loro rarità, fascinazione demoniaca, eccezione, ossessione, attrazione, dal tempo del pittore fino a oggi, dall’arte alla pop culture). Il museo è già di per sé un viaggio nel tempo, tra le stanze e le scale di una casa accogliente che deve essere stata anche molto amata; la ricostruzione dell’atelier con scrivania, pennelli e tavolozza (o semplicemente il fatto che nulla sia stato toccato, presumo, da allora) soddisfano anche la più difficile antropologa appassionata di oggetti di memoria e gli schizzi di Henner sono un perfetto preludio delle opere più elaborate che tuttavia, anche nella loro completezza, sembrano sempre sospese nel sogno, in una perfetta soffusa fugacità, e con soggetti che non sai se saranno così disciplinati da restare là buoni e fermi, non appena avrai distolto lo sguardo.

Tentativo no. 4: Pablo. 

Ah, Picasso (al Musée Picasso e al Centre Pompidou). Non sono una critica d’arte e i miei ultimi studi strutturati di storia dell’arte risalgono al quinto liceo (se escludiamo Antropologia e Arte, durante la specialistica). Tutto questo per dire che su Picasso è meglio che taccia. Non mi piaceva molto, un tempo, ma ritengo perché allora non mi piacessi molto io e cercavo nell’arte più sicurezza che labirinti. Ora credo che il mondo senza la sua arte non sarebbe lo stesso: è un’arte che ti scaraventa oltre, e che in quell’oltre ti ci abbandona e smarrisce lasciandoti però allo stesso tempo gli indizi per tornare indietro. E tu ti incammini a ritroso, scosso, sorpreso, incantato, ma sempre con l’occhio rivolto a quel sentiero nascosto.


Tentativo no. 5: Virginie la reine (non proprio la cosa più sicura, in Francia).

Due galette, due vittorie. Non c’è molto altro da aggiungere. Sì, Teodor, anche io credevo che quel rigonfiamento fosse “il personaggio” (cit. Chiara Carolei) e la fetta te l’avevo lasciata scegliere apposta, e invece no, era una galette ingannevole. Le borse brutte (o forse i Buddha, libera interpretazione, ibidem) le ho entrambe trovate io.

Tentativo no. 6: i ristoranti vietnamiti

Se dovessi trasferirmi di nuovo a Parigi vorrei nei pressi di casa (tipo sotto, che posso anche andarci in ciavatte) un ristorante vietnamita. Una delle migliori cucine al mondo, delicata e intrigante, esotica e famigliare, con una perfetta combinazione di colori, come un affresco. E leggera. Siamo tornati con Giulia e Julien da Hanoi, dove cerco di passare ogni volta che capito nel XIème (cioè sempre) grazie a una fortuita combinazione di appetito, freddo, quartiere e mezzodì, tipo che uno ha detto ho fame e l’altro, ah ma qua vicino non c’è Hanoi? e un terzo, oh, c’è posto, e il quarto: entriamo. E zuppa fu.

Ma con Teodor abbiamo anche provato il Quan Viet e se ci tornassi ordinerei direttamente due-tre porzioni dei loro ravioli al vapore e sarei la persona più felice del mondo (almeno per una decina di minuti).

Tentativo no. 7: la poesia (e la filosofia)

Una serata di letture (anche in maltese, grazie Liz) nella bellissima libreria Les Petites Platons dedicata alla filosofia (per bambini, e quindi per tutti). E ricordarsi della bellezza della parola “leggiadro”. E sperare di poter davvero, un giorno, curare la traduzione di quella collana poetico-letteraria-filosofica. Eh, Ludo?

Serata di letture per i trent’anni della rivista Clandestino

Il migliore promemoria di sempre.

Passeggiata veloce, fredda, intensa al Père Lachaise, a due passi da dove alloggiavamo. Non ho trovato Chopin stavolta e la sua lapide piena di rose rosse. Sarà per la prossima.

Foto mie e di Teodor.