Viaggio, la vigilia. Pensando ad altri viaggi. Parlando di altri viaggi.

Ben cinque anni che non viaggiavo ad agosto – e Roma non fa testo, Roma è come uscire da casa mia, percorrere un corridoio di ore e ritrovarsi, sempre, a casa mia. Ben cinque anni. Domani sarà ancora la città bianca, e dovrei rispolverare almeno il mio cirillico, allargare il mio vocabolario qualche parola in più oltre doručak, burek, voda e vidimose. E mentre la valigia attende di essere riempita nel modo meno intelligente e più frivolo possibile (la mia terapia della frivolezza è sempre là) ho pensato che in questo mese di viaggi per tanti altri come me, in quello che è il mese dei viaggi, il mese che per molti anni ho sempre identificato con un paese arroccato in alta collina, circondato dal verde, battuto da piogge, il mese del “portati un giacchetto che fa freddo”, agosto, sì, agosto! ho pensato di fare una breve lista di tutte le altre volte che ho scritto di viaggi. Non pensate di trovare cose come dieci cose da non perdere a…, cosa vedere, cosa fare e cosa mangiare a. O la descrizione impeccabile e utilissima di come arrivare, come girare, dove dormire. C’è già chi lo fa meglio (e meglio di migliaia d’altri) e con più disciplina e metodo di me. Con più attenzione per i dettagli, più cura per il proprio pubblico di lettori. Io no. Io, come dice lei, non si sa mai da dove arrivo e con quali mezzi. La descrizione migliore che mi sia mai stata data. Vale per tutto. Un passepartout. E se non so bene da dove arrivo e con quali mezzi non posso che restare sul vago, girare in tondo, fermarmi più del dovuto in posti che tanti neanche considerano: se mi leggete mettete in conto queste soste, se mi leggete vi perdete. Leggetemi se volete perdervi. Scrivo sui miei viaggi così come camminerei nella nebbia, per ore, senza fermarmi neanche per un bicchiere d’acqua, cogliendo ombre, forme, cercando di diradarla a mani nude, mescolando tutto quello che incontro con l’oltre che ogni luogo sempre evoca, la memoria di posti che si sono lasciati troppo presto, ma che nonostante tutto continuano ad abitarci. Ogni viaggio, anche in un posto nuovo, è per me sempre un ritorno, una lettura tra le righe, la scoperta di strade che avrebbero potuto essere la mia quotidianità, se e solo se.

Oddio, poi qualche posto bello da vedere e qualche altro dove fermarsi a mangiare ce l’ho pure messo eh. Non sono completamente sprovveduta. E dunque, voilà!

Sulla città bianca, la bellissima Belgrado (e dintorni) in attesa del terzo racconto, di giri ce ne sono già due:

Da Est a Ovest, non posso non fermarmi nella mia Roma, una città dove mi sembra di non tornare mai davvero, ma da dove forse non sono neanche mai completamente partita, dove sono sempre, anche quando sto lontana:

Roma che è sempre il punto di partenza per qualcos’altro, come le terme, altri mari:

Un po’ più a ovest, sul margine dell’oceano, la bellissima, gialla (come la crema dei quotidiani pasteis de nata e la limonata), rossa d’uovo, multicolore, straordinaria Lisbona (con una punta a Sintra):

Oltre oceano… Toronto! Il viaggio per l’International Festival of Authors (dove Teodor era stato invitato) e del jet-lag (il mio) più lungo della storia dei jet-lag. Il viaggio del mio incontro con scrittori nativi canadesi. Chi dice che scrivere non ti porta da nessuna parte?

Sempre per motivi letterari (e per sfuggire all’orrido caldo dell’agosto maltese) c’è stata anche Helsinki con la sua pioggerellina e i suoi magnifici 15 gradi estivi. Helsinki e un salto a Tallinn, già che c’eravamo.

Anche l’antropologia fa viaggiare. Ecco un fugacissimo ricordo, impalpabile come un fiocco di neve, di quei due giorni a Innsbruck.

E infine Parigi, Parigi igi igi, come posso dimenticare Parigi? Tornerò mai a vivere a Parigi?

E presto, presto vagherò tra le righe di luoghi non ancora messi nero su bianco, come Amsterdam, Torino, Split, Dubai. E Malta. Forse è il caso che qualcosa che non siano lagne su questa benedetta isola la scriva pure, a un certo punto.

Buon agosto. E spero che dove sto andando piova almeno un po’.

Perché per tanti anni della mia vita agosto era il mese delle piogge. Non è agosto, senza pioggia.

Olivia e Orsino. A participant observation.

Ora che finalmente scadenze e impegni di lavoro hanno perso un po’ di peso, posso finalmente dedicarmi al catwatching, alla miciografia, all’osservazione partecipante, chiamatela come volete, di queste due affascinanti, elusive e morbide creature che popolano casa: Olivia – gatta magnifica, maestosa, affettuosa a sua discrezione – e Duke Orsino, trovatello dolcissimo, affamato e dalle lunghe zampette. La convinvenza non è facilissima, i tempi di accettazione e tolleranza di Olivia (che è con me da otto anni) nei confronti di Orsino (con noi da appena tre settimane) oscillano tra l’incoraggiante, il tenero e l’irrimediabilmente disarmante. Magari il tempo, e mesi più freddi, la faranno avvicinare al neo micetto. Nel frattempo, sono adorabili anche quando lui vuole per forza afferrarle la coda, le ruba il cibo, le occupa tutte le scatole, le nasconde i giochi sotto al divano, e quando lei soffia, sbuffa, si allontana come una diva e lascia intendere che cambierà la serratura la prossima volta che usciremo.

Scritti in barattolo

Contavo i giorni che sono stata via quest’anno. Fanno settantaquattro, se ci aggiungo le notti a Gozo. Più di due mesi con la testa su altri cuscini. E sì che mi ero ripromessa che sarei stata buona buona in casa, a scrivere. Invece c’è stata Roma, sei volte, e sono felice di aver trascorso quattro di quelle con Kiwi, prima che se ne andasse, il dodici agosto.

Gatto mio bello, il mondo è davvero meno dolce senza di te, senza il tuo occhio color ruscello di montagna e l’altro di nebulosa di stelle.

C’è stata Parigi a fine gennaio, Parigi che ancora mi mette a disagio visitare da esterna, non viverci più. Quei tre giorni a San Valentino a Innsbruck, per lavoro, e nelle pause le Alpi, il freddo, la neve e la sacher di cui avevo bisogno. Il mio compleanno a Lisbona, una città che profuma di crema, pagine di vecchi libri e limonata. E poi i viaggi di cui ancora non ho scritto – ma lo farò presto, appena consegnati i due articoli, le mie sudate carte d’autunno. Amsterdam, una sorpresa verde e fresca, e il volo oltre oceano, il primo, a Toronto, che ancora se ci penso non ci credo. Strana e velocissima Toronto, dirò presto qualcosa anche di te. Qualcosa in realtà ho già detto.

Sono stata parecchio fuori, ma anche parecchio ho scritto. Traduzioni, articoli accademici, un articolo per una rivista, un racconto per un concorso (è arrivato tra i primi cinque, non ha poi vinto), l’ennesima correzione a un romanzo che ho iniziato più di dieci anni fa e chissà se sarà mai pubblicato. E poesie. Io non scrivo poesie, di solito. Ma quest’anno, anche ispirata da un paio di eventi dove sono stata coinvolta come traduttrice di poesia dal maltese, m’è venuto da buttar giù qualche verso, di tanto in tanto.

L’ultima poesia si intitola Jet-lag. Quel che in effetti ho già detto di Toronto.

E quindi la promessa l’ho mantenuta. Ho scritto. Anche se i miei scritti sono per il momento come conserve di frutta diversa messe in barattolo, ognuna con una diversa etichetta (prosa, poesia, traduzione, antropologia, altro), appoggiate sullo scaffale del quando la apro non si sa ma dovrò a un certo punto, una per una, il prossimo anno. Saranno saporite, profumate, belle. Sono sempre così, tante cose che rileggi, dopo tanto tempo.

p.s.

Buon Natale, intanto. Anche di questi giorni di festa, di quanto mi manchi essere a casa con tutti, e di quanto ormai non si possa più essere a casa con tutti, avrei dovuto scrivere. Ma ci sono cose di cui nulla, neanche i versi, possono parlare. Solo i pensieri a occhi chiusi, i viaggi veloci tra ricordi di voci e lampi di visi e stanze, quelli che parlano tutte le lingue e sono traducibili in nessuna.

Hic sunt leones

Cartografie romane. Lo Gnam, il Giappone, il fumetto.

Ultimamente Roma per godersela bisogna prenderla alla lontana, navigando al largo, cercando di non finire nel vortice di folle, motori e vetrine del centro; a meno che al centro non si conoscano già una buona gelateria dove rifocillarsi e poi un porto sicuro dove approdare e dove faranno rotta anche le amiche più care, come è stato, e come accade spesso, alla libreria Griot, una domenica pomeriggio.

Fiera di Roma

La mattina di quella domenica giungevo tuttavia dall’immersione in altre folle, quelle variopinte del Romics, con mia sorella che di queste cose ne sa più di me e che disegna in modo incredibile, perdendoci e ripescandoci regolarmente tra nugoli di ragazzini, supereroi, disegni, schizzi e patatine fritte, dove un po’ mi ritrovavo e molto mi sentivo controvento. Eppure a me i fumetti piacciono assai, mi sono sempre piaciuti, li ho divorati, collezionati, disegnati anche, per divertimento. Regalatemi una graphic novel ben fatta e mi vedrete felice.

Sempre procedendo ai margini del centro, due giorni dopo ho dedicato qualche ora (per la quarta volta) a uno dei luoghi più belli e rasserenanti in cui mi sia mai capitato di mettere piede: lo Gnam.

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La Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea è uno di quei posti che vizia lo sguardo e l’animo e mette completamente a proprio agio, tra tanto ben di dio. La prima volta c’ero stata con Chiara (l’unica volta che avevo potuto ammirare il bacio di Klimt, tutte le altre volte sempre in viaggio), quando non era ancora stata ristrutturata; da quel che ricordo, era un bel museo come ce ne sono tanti grazie alla sua collezione, ma pesante, buio, polveroso. Da pochi anni è tutta un’altra storia. Gli spazi e il nuovo allestimento non cronologico sono belli quasi quanto le opere che ospitano. Le descrizioni non disturbano e quasi si confondono con il bianco delle mura. Tutto è arte, perché si è oltre qualsiasi categoria: l’etnico e il periodo storico sono stati messi al bando. Il moderno, il contemporaneo, l’occidentale e il non occidentale si mescolano, si accompagnano, si danno man forte e sembra si facciano i complimenti a vicenda. A volte si ha anche l’impressione che non abbiano più neanche bisogno dello sguardo del visitatore, della sua logica ordinatrice. Altre invece che lo invitino a unirsi, come una nuova opera mobile e sempre variante, alla festa perpetua che hanno messo in atto.

Perché, come già detto, è questo il punto. La visita allo Gnam è come una colazione sull’erba, una festa tra amici cari, una passeggiata sul prato a piedi scalzi, dove si può tranquillamente scegliere di non vedere tutto pedissequamente e sentirsi comunque a posto con la coscienza – la bellezza che ci circonda ci ha già raggiunto tutta, quasi per osmosi. Abolita la dittatura delle didascalie e dei periodi, si vaga, si vaga e basta alla ricerca della cosa più leggiadra o spiazzante; ci si inventa il proprio percorso, si torna indietro, ci si sdraia su divani che sembrano istallazioni, ci si muove in balia di onde leggere, trascinati verso sale che galleggiano nella luce come isole bianche piene di tesori. Se è tanto che non vedete un amico, se volete un bel posto dove passeggiare e ogni tanto fermarvi di fronte alle tele di Fontana, a una statua di Canova, a un quadro di Fattori, solo per citarne qualcuno, lo Gnam è il posto ideale. Altro che le vie di Trastevere.

Poco distante dalla galleria (nel bar servono anche ottime pizze bianche ripiene, così, tanto per dire), c’è l’Istituto Giapponese di Cultura, dove avevamo prenotato una fugace visita (è proprio il caso di dirlo), al giardino, per la fioritura dei ciliegi. La visita va prenotata il martedì e il giovedì ed è assai breve, non ci si può stare per più di mezz’ora, buona parte della quale si è accompagnati da due guide che raccontano la storia del giardino, si sforzano di farci immaginare che quello che abbiano davanti non è uno stagno ma il mare e ci tengono a specificare che il giardino in cui ci troviamo non sia zen. Zen o non zen il profumo del glicine e del ciliegio ci ha già stordito appena varcata la soglia, quei trenta minuti passano come se fossero solo cinque, la preoccupazione maggiore è quella di non finire a far compagnia alle carpe, e quando usciamo abbiamo la certezza che se la primavera tarda un po’ ad arrivare del tutto (venti freddi e piogge turbavano ancora la navigazione romana, per non parlare dell’atterraggio a Fiumicino) è forse perché si sta ancora stiracchiando le gambe sul prato di quell’incantevole giardino.


Parigi… pace? Sette tentativi di riconciliazione (tra mostre, musei, poesia, galette e cucina vietnamita) e un promemoria.

Prima che iniziasse l’anno nuovo, mentre ero ancora là che mi districavo nei rimasugli del vecchio, mi sono detta, risoluta: nei prossimi mesi me ne starò tranquilla a casa a scrivere e quello che scrivo non resterà nelle disordinatissime cartelle del mio desktop, no, cara mia, stavolta quello che scrivi esce fuori, va pubblicato. Provaci, almeno.

E invece no. A gennaio sono tornata a Roma, a metà febbraio c’è stato l’intermezzo di lavoro austriaco e, tra il primo e il secondo viaggio, Parigi. Ma Parigi, mi chiedo ora, è un posto dove vado o dove ritorno? Il non capirlo mi provoca sempre problemi non irrilevanti con la città e col tempo che le dedico. Ora, mettiamo che Parigi sia il posto dove sempre torno, e non vado mai. Mettiamo che per tornare serva sempre un motivo. Quello sì, c’è sempre. E stavolta era pure validissimo: assistere alla soutenance – perfetta, incredibile, brillante – di Ludo. A Parigi non capito mai senza ragioni. Perché se non ci sono i motivi particolari ci sono comunque quelli ricorrenti: un seminario, un possibile lavoro, senza dimenticare tutti gli amici e tutti i luoghi dove non c’è mai un solo ricordo e dove le memorie si accalcano e fanno a gara per quella che emergerà per prima e per prima si lascerà raccontare.

Tutto questo fa di Parigi la città dei miei ritorni “a casa” (senza che una casa col portone di legno e il codice ci sia più), e mai la destinazione di una vacanza. Che poi queste schizofrenie tra andare e tornare, tra vacanza e quotidianità più o meno ritrovata, non diano problemi di gestione delle giornate, quello è un altro discorso che sa bene chi mi accompagna (e mi tollera). Perché io ci provo rilassarmi a Parigi, ma poi, più di tanto, non ci riesco. Parigi è pesante, sempre. Di nomi di vie e fermate di metro che sono sempre qualcosa di più, di rimorsi, di rimpianti, di visi, di occhi, di giri in bici, di valigie che non volevo fare, di ore in biblioteca, a lezione, di bei ricordi, di file alle panetterie, di giardini e picnic, di mesi che vorrei ancora trascorrervi. Però l’impegno a prendere la ville con più frivolezza c’è, c’è tutto.

Ed ecco, come prova, tutti i miei tentativi.

Tentativo no. 1: Quai Branly o Pompidou?

Avrei voluto fare un salto al Quai Branly, il quale, al di là di tutte le polemiche espositive che uno possa tirare fuori, resta uno dei luoghi più incredibili, in quanto a collezioni, in cui abbia mai messo piede. Quello e il Centre Pompidou, dove invece i piedi li ho messi tutti e due, qualche ora prima di tornare a Malta. Non sono riuscita a ritrovare il mio Matisse preferito e non so se mi piaccia la rigida seppur necessaria partizione cronologica tra arte moderna e contemporanea (preferisco sempre i percorsi tematici) ma capisco anche che sia difficile organizzare tutto quel ben di dio del moderno con le illuminazioni (o spesso i deliri) delle istallazioni contemporanee e quindi, alla fine, non sono uscita delusa (mai, dal Pompidou non si esce mai delusi. Forse un po’ scioccati per i sei euro della fetta di torta di mele. Ma era buona, e li valeva tutti).

Tentativo no. 2: dove non arriva l’arte, arriva la psicoanalisi.

Al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme c’era invece la bella mostra temporanea (ora terminata) Sigmund Freud. Du regard à l’écoute, un viaggio nella quotidianità (se così si può dire) di Freud, negli stimoli, studi, arte, spettacolo e ostruzioni del suo tempo. Non avrei messo Freud sullo stesso piano delle rivoluzioni di Copernico e Darwin (e qui l’inchino è sempre d’obbligo), ma il percorso tra astrusi macchinari di cura pre-psicoanalisi, la sua borsa da lavoro, la ricostruzione dello studio, i filmini di famiglia, le letture dell’epoca e gli schizzi illustranti le fasi dell’isterismo femminile, hanno un po’ messo a soqquadro le basi del mio scetticismo per la disciplina. Che fosse una tappa necessaria, nella storia e prima del pranzo al Marais, su questo non c’è dubbio.

Tentativo no. 3: se la vita è una, perché non viverla da rossa? 

Ancora aperta, fino al 20 maggio (lo dico perché quello che scrivo sia anche di qualche utilità) è invece un’altra bella mostra nel XVIIème (un arrondissement in genere poco praticato), presso il Musée National Jean-Jacques Henner, dal titolo Roux! e dedicata – sì, l’ho scelta io, apposta – ai capelli rossi (alla loro rarità, fascinazione demoniaca, eccezione, ossessione, attrazione, dal tempo del pittore fino a oggi, dall’arte alla pop culture). Il museo è già di per sé un viaggio nel tempo, tra le stanze e le scale di una casa accogliente che deve essere stata anche molto amata; la ricostruzione dell’atelier con scrivania, pennelli e tavolozza (o semplicemente il fatto che nulla sia stato toccato, presumo, da allora) soddisfano anche la più difficile antropologa appassionata di oggetti di memoria e gli schizzi di Henner sono un perfetto preludio delle opere più elaborate che tuttavia, anche nella loro completezza, sembrano sempre sospese nel sogno, in una perfetta soffusa fugacità, e con soggetti che non sai se saranno così disciplinati da restare là buoni e fermi, non appena avrai distolto lo sguardo.

Tentativo no. 4: Pablo. 

Ah, Picasso (al Musée Picasso e al Centre Pompidou). Non sono una critica d’arte e i miei ultimi studi strutturati di storia dell’arte risalgono al quinto liceo (se escludiamo Antropologia e Arte, durante la specialistica). Tutto questo per dire che su Picasso è meglio che taccia. Non mi piaceva molto, un tempo, ma ritengo perché allora non mi piacessi molto io e cercavo nell’arte più sicurezza che labirinti. Ora credo che il mondo senza la sua arte non sarebbe lo stesso: è un’arte che ti scaraventa oltre, e che in quell’oltre ti ci abbandona e smarrisce lasciandoti però allo stesso tempo gli indizi per tornare indietro. E tu ti incammini a ritroso, scosso, sorpreso, incantato, ma sempre con l’occhio rivolto a quel sentiero nascosto.


Tentativo no. 5: Virginie la reine (non proprio la cosa più sicura, in Francia).

Due galette, due vittorie. Non c’è molto altro da aggiungere. Sì, Teodor, anche io credevo che quel rigonfiamento fosse “il personaggio” (cit. Chiara Carolei) e la fetta te l’avevo lasciata scegliere apposta, e invece no, era una galette ingannevole. Le borse brutte (o forse i Buddha, libera interpretazione, ibidem) le ho entrambe trovate io.

Tentativo no. 6: i ristoranti vietnamiti

Se dovessi trasferirmi di nuovo a Parigi vorrei nei pressi di casa (tipo sotto, che posso anche andarci in ciavatte) un ristorante vietnamita. Una delle migliori cucine al mondo, delicata e intrigante, esotica e famigliare, con una perfetta combinazione di colori, come un affresco. E leggera. Siamo tornati con Giulia e Julien da Hanoi, dove cerco di passare ogni volta che capito nel XIème (cioè sempre) grazie a una fortuita combinazione di appetito, freddo, quartiere e mezzodì, tipo che uno ha detto ho fame e l’altro, ah ma qua vicino non c’è Hanoi? e un terzo, oh, c’è posto, e il quarto: entriamo. E zuppa fu.

Ma con Teodor abbiamo anche provato il Quan Viet e se ci tornassi ordinerei direttamente due-tre porzioni dei loro ravioli al vapore e sarei la persona più felice del mondo (almeno per una decina di minuti).

Tentativo no. 7: la poesia (e la filosofia)

Una serata di letture (anche in maltese, grazie Liz) nella bellissima libreria Les Petites Platons dedicata alla filosofia (per bambini, e quindi per tutti). E ricordarsi della bellezza della parola “leggiadro”. E sperare di poter davvero, un giorno, curare la traduzione di quella collana poetico-letteraria-filosofica. Eh, Ludo?

Serata di letture per i trent’anni della rivista Clandestino

Il migliore promemoria di sempre.

Passeggiata veloce, fredda, intensa al Père Lachaise, a due passi da dove alloggiavamo. Non ho trovato Chopin stavolta e la sua lapide piena di rose rosse. Sarà per la prossima.

Foto mie e di Teodor.