V per Vienna.

Scrivere richiede distanza? Forse non sempre. Non quando vogliamo trattenere tutto quello che è stato così come è stato, senza fronzoli e cianfrusaglie, o senza ammantarlo d’altro di più profondo, di più ragionato. Non quando vogliamo mettere nero su bianco quello che un luogo ci ha dato, o con cui ci ha piano piano avvolto, senza neanche aspettare che glielo chiedessimo o ce lo andassimo a cercare; gli occhi su una mappa, su un cartello, su una guida con tutto quello da fare, le cose da non perdere, in uno, due, tre, sette giorni. Scrivere di un luogo, di una città, di un viaggio, poi, è sempre più complicato, data la rappresentazione moltiplicata già all’infinito di quello stesso luogo su carta (o su schermo), così che tanti posti, anziché desiderarli, ce li ritroviamo già masticati, inghiottiti, a volte indigesti, e spesso ci basta così.

Vienna. Quasi sono contenta che tanti me l’avessero descritta come noiosa, come non all’altezza di altre città europee, come Parigi o Roma, tanto per dirne due, che per quanto splendide pare stiano sempre a correre impettite e sui tacchi per stare al passo con quello che da loro ci si aspetta sempre, e nell’affrettarsi tante cose vanno perse, si inciampa, il tacco resta incastrato tra i sampietrini.

Vienna ti si accosta a passo lento e ti invita a camminarle accanto.

Se ti fermi, ti aspetta.

Vienna arrivata non come una stella cadente che ti procura sempre un tuffo al cuore, ma come una lenta e sinuosa stella marina, che già la intuisci da lontano per lo stacco di colore con le rocce e quando poi le sei appresso resti sospeso e ondeggiante ad ammirarla, nel silenzio e nella frescura dell’acqua, per poi nuotare oltre, in cerca di altre calme meraviglie.

Vienna, dove non sapevo che avrei passato del tempo, fino a due settimane fa. Vienna come un regalo, un delizioso strappo in un giugno pieno di frastuono (prendetemi e portatemi via, ovunque, vicino all’acqua, in posti che ancora non ho visto, mi farete felice).

Vienna. Vienna è splendida. E sì, questa è solo una prima impressione. Ogni tanto fa bene non andare a fondo alle cose, scrivere solo di prime impressioni. Un luogo, una città, sono fatti anche di questo, di prime impressioni, anche se sbagliate.

E quindi ecco cosa Vienna ci ha dato, non solo la bellezza incredibile dei suoi viali e stradine, delle sue collezioni, delle sue mostre temporanee, del verde che non senti come una concessione dall’alto o una faticosa vittoria popolare contro l’oscura planning authority, ma come uno spontaneo esserci, da tutte le direzioni. O è un dover esserci? Il verde come natura o come diritto, o anche come dovere di una città, di un paese, verso chi ci abita?

E dopo il verde, l’acqua. Il caffè costava una fortuna, sì, ma sempre arrivava con l’acqua. E l’acqua arrivava con il caffè e pure senza caffè, anche senza chiederlo. Acqua non di bottiglia, acqua di rubinetto. Che non ditemi che qui a Malta o altrove non si potrebbe fare. Certo, non è l’acqua delle Alpi. Ma esistono filtri, esiste l’osmosi inversa. L’acqua sul tavolo è una delle forme più spontanee e attente di gentilezza. Lo scambio della sete con la plastica e il denaro, invece, una barbarie.

Il verde, l’acqua e il silenzio. A parte le aree più frequentate – che non abbiamo frequentato più di tanto (con le uniche eccezioni dei passaggi veloci a Stephansplatz e del mescolarci ai banchi di turisti nelle stanze del castello di Schönbrunn; un posto dove, tornando indietro, sinceramente non riandrei, spendendo più tempo nel giardino e nella serra), la maggior parte delle strade in cui siamo capitati, ci ha restituito senza fatica (e qui concedetemi qualche immagine romantica) lo scalpiccìo dei nostri e degli altrui passi, il frusciare delle foglie tra i rami, il battere dei piedi sui pedali, le porte che si aprivano o chiudevano, lo scorrere dei tram, il chiacchiericcio leggero delle persone che parlavano, sempre, senza gridare. Mentre qui, invece, si grida per tutto, anche quando si cerca di rilassarsi di fronte a una birra, nel vano tentativo di espugnare il muro sgraziato del (neanche tanto) sottofondo musicale che ormai stritola e percuote sempre più angoli di questo arcipelago. Sì, delll’aver perso la Valletta che conoscevo, sepolta sotto una cacofonia di nulla, di microfoni, di casse, di tavolini, sedie, piatti e bicchieri ovunque, non me ne faccio una ragione.

Che poi non è che non ci fosse musica in giro, figuriamoci, a Vienna! Eppure, in tanti posti che abbiamo incontrato solo di passaggio, o in cui ci siamo fermati per un caffè, una birra o un pasto – e a prezzi accettabilissimi (perché a Vienna si mangia anche molto bene*, e non ci si alza dal tavolo con l’amaro in bocca per qualcosa pagato sempre troppo) – la musica era l’eccezione. O non c’era per niente, perfino la sera, perfino nei bar, oppure, se c’era, non si azzardava oltre la soglia, sostando nell’aria come un accompagnamento piacevole e discreto delle nostre (e altrui) chiacchiere leggere. Anche le orecchie, ogni tanto, meritano una vacanza.

Orecchie e occhi, nel caso del Film Festival (per tutta l’estate, fino a settembre, con ingresso libero), un evento in cui siamo capitati per caso grazie a una deviazione, prima di rincasare, e dove siamo rimasti altre due ore per assistere a Il Flauto Magico dal Salzburg Festival con la direzione di Lydia Steier, tornando poi, due sere dopo, per La Bella Addormentata della Opernhaus Zürich con l’innovativa rilettura e coreografia di Christian Spuck.

Tornando, va detto, dopo mezzanotte in neanche venti minuti a casa, grazie a un trasporto pubblico perfetto. Anche questo non è sempre scontato, e anche questo vorrei aggiungere al verde, all’acqua, al silenzio, alla bella musica.

Mi è poi venuto in mente, anche se tardi, l’ultimo giorno (ho una certa età, e la memoria vacilla) che Vienna è la città di Before Sunrise (ah, le camicione e le t-shirts sotto i vestiti a sottoveste degli anni ’90!). E infatti, per quasi tutti i giorni di questa vacanza inaspettata, non abbiamo fatto altro che camminare, camminare e camminare. Dopo il verde, l’acqua di rubinetto, il silenzio, la musica che è musica e non un atto di bullismo a oltranza, questa città restituisce, lenta come un’onda delicata, il piacere di camminare e vagare, e anche perdersi. E noi lo abbiamo fatto per la bellezza di circa 95000 passi. Per le strade, per i giardini, per i musei.

I musei. Se il verde, l’acqua, il silenzio e la bella musica non bastassero (siamo proprio incontentabili) c’è un intero quartiere di musei, un luogo pubblico nel vero senso della parola. I giorni erano pochi, era la mia prima volta a Vienna e non volevo certo trascorrere giorni nei musei, e quindi è stata d’obbligo una selezione. Ne sono usciti vincitori il Leopold, dove un certo peso hanno avuto la mia passione per Schiele e la Secessione Viennese, e il Mumok, uno spazio incredibile dove abbiamo avuto la fortuna di trovare due mostre sorprendenti (anche se credo sia la norma) di artisti che non conoscevo – ma io non faccio testo, essendo abbastanza ignorante in arte contemporanea: una di Elizabeth White, Imagination Factory (una giungla di colori) e una di Adam Pendleton, Blackness, White, and Light (un labirinto di bianco e nero).

L’ultima mattina, prima del volo di ritorno e del consueto shock culturale (anche gli antropologi ne soffrono, molto più spesso di quanto si pensi) abbiamo snobbato l’affollato Belvedere e ci siamo regalati una più tranquilla passeggiata nei corridoi del MAK, il Museo delle Arti applicate. Peccato avere solo due ore, davvero un peccato. Ma, anche se per poco, il nostro quotidiano bisogno di meraviglia è stato appagato.

Questo prima di fare rotta per un arcipelago che non è che di meraviglie sia privo, intendiamoci, ma ormai sono talmente sommerse e schiacciate da altro che quasi non ci si ricorda più che forma avessero; oppure, se ce lo ricordiamo, non è che uno sbrigativo promemoria che immediatamente sparisce per mutarsi, come un mostro mitologico, nel suo spaventoso risvolto. E tu sai che dietro le zanne e le squame quello che ti meravigliava e che tanto amavi di Malta c’è ancora, ma perfino strizzare lo sguardo per cercare di intravederlo di nuovo, adesso, è fatica.

Per fortuna, a casa, ci aspettavano i gatti.

Anche se, non resistendo al richiamo felino, una sosta breve l’avevamo fatta qui, al Cafè Neko.

* Dulcis in fundo, alcuni dei luoghi in cui ci siamo rifocillati: The Epos, Glacis Beisl, Ebi 1, 15 süße Minuten Café, Gota cafè, Cafè Goldegg, Dschungel Café e Biosk. Senza dimenticare il nostro fornitore ufficiale di burek e yogurt, praticamente sotto casa, il Balkan Burek & Cevapcici.