Sottrazioni

In questi ultimi giorni di luglio, nel pieno di un’estate che pareva tardiva e si è rivelata inclemente, penso alle sottrazioni. A quello che va via, al vuoto che lascia.

Penso al sorriso gentile e bianco di labbra e di occhi di un antropologo che sapeva davvero ascoltare e dare rilievo e colore a ogni parola scambiata, così che l’astrattezza di ogni concetto e il fluire via di ogni suono si attaccassero invece tenaci alle pareti dei pensieri, come farfalle pronte a divenire altro ancora, a volare oltre. Fu così fin da quella prima chiacchierata insieme, dieci anni fa, durante una cena, quando a vicenda ci rivelammo e confrontammmo le nostre Malte, scoprendo di averne a volte percorso gli stessi sentieri. Caro Paul, mancherai molto.

Penso a quest’isola che si sta sbriciolando sotto i rulli delle schiacciasassi, divorata e masticata dalle gru, dai camion, dal rumore, dalla polvere. Penso a tutto quello che fa a pezzi spazi di respiro e di memoria. Penso a noi, depositari di memoria, che ne perdiamo i supporti, a noi che non possiamo esserne i soli supporti, perché è un attimo, e non siamo più.

Penso al sogno di stanotte: il maledetto Link project è fatto e finito ma a quello se ne sono aggiunti altri, e ora camminiamo e ci arrampichiamo a fatica sui palazzi e i cavalcavia ancora in costruzione, perché di vie non ne sono rimaste più, rischiamo di cadere, ci graffiamo le braccia, sbucciamo le ginocchia. Percorriamo sentieri sopraelevati di cemento e intorno, sotto e sopra di noi solo corsie a scorrimento veloce, palazzi grigi senza finestre, solo pertugi, e macchine che filano velocissime. E io penso che non vedo l’ora di fare ritorno a sud, nel villaggio in cui vivo, dove almeno sono rimasti i campi, dove posso adagiare lo sguardo sul mare.

E questo mi fa tornare alla mente quando, dodici anni fa, ebbi un grave incidente d’auto. Ero in macchina con un’amica, tornavamo da un pranzo e una festa, non fu colpa sua, fummo travolte da una macchina grande tre volte quella in cui eravamo noi e lo schianto la fece ancora più corta, i vetri scomparvero, gli oggetti volarono decine di metri oltre, per qualche attimo ebbi la lucida e stupita coscienza che sarei scomparsa anch’io. In quella sfortuna fummo, tuttavia, estremamente fortunate. Nelle settimane che seguirono, passate tra analisi alla testa, ospedali, fisioterapia e altro, tra le varie conseguenze del trauma, non riuscivo più a tollerare la vista e il rumore delle auto. Brividi di paura scorrevano lungo la mia schiena ammaccata, ogni volta che una mi passava accanto. Vivevo ancora a Monteverde vecchia e avevo a pochi minuti da casa la bella pur se trascurata Villa Pamphili. Se a poco a poco mi ripresi fu grazie al verde e ai pomeriggi passati a leggere all’ombra degli alberi del parco, sdraiata sul prato, con gli occhi a riposo completo tra i fili d’erba e le fronde, l’orecchio prestato unicamente al frinire delle cicale, ai cinguettii, al fruscio delle foglie. Il libro era Cent’anni di solitudine.

Come quelli di cui quest’isola avrebbe bisogno per curarsi da noi.