Lady Olivia ancora ignara dell’arrivo di Duke Orsino, esattamente un anno fa.
…O forse era sveglia e si stava chiedendo perché avessimo preso dall’armadio quella borsa che le fa tanto paura, perché è la borsa con cui di solito la costringiamo a lasciare il suo territorio per andare dal veterinario (quando sua maestà pelosa non riceve la visita a casa), o per prendere un aereo. Forse era sveglia e si era nascosta, e forse poi a dormire si era messa davvero mentre noi, a piedi, raggiungevamo un rifugio di gatti (Rescued Paws Malta, ndr) nelle campagne qui vicino con in testa gli occhi grandi e irresisitibili di un gattino, intravisto tra i tanti pronti per essere adottati. Quel gattino ce l’eravamo un po’ sudato, diciamo, in una lunga intervista il giorno prima, intervista che mi aveva messo addosso non poca ansia: e se poi salta fuori che non siamo adatti a tenere gatti? Chi glielo dice a Olivia dopo tutti questi anni? Come potrò ormai andare avanti io, che sono gattara da quando ho praticamente cominciato a stare in piedi da sola?
La prima immagine di Duke Orsino (o Orsino, o Orsetto o Pampepato), dopo aver superato l’intervista e avere avuto accesso alle foto dei gattini pronti per l’adozione.
Ma l’intervista era andata bene e così potevamo andare a prendere il gattino, quello a cui era stato dato il temporaneo nome di Milo (e che, non lo sapevamo ancora, lo stesso veterinario di Olivia aveva visitato, sverminato e spulciato qualche giorno prima, per di più credendolo una gattina – pretty girls, aveva detto a lui e alla sua banda di fratellini – ed etichettandolo poi però come un esemplare di felino ferocissimo e di cui era ancora assai spaventato quando, qualche giorno dopo, glielo avrei riportato per una visita: “Tienilo tu”, mi avrebbe detto, “l’altra volta ha tentato di uccidermi”. Orsino, questo eri tu, gattino tra i più dolci del mondo. Un gattino che incuteva terrore. Tu, con quegli occhi col kajal, quelle zampette e quelle orecchiette a punta).
Milo-Orsino lo avevamo “scelto” tra altri, lo avevamo “scelto” per quegli occhi grandi e luminosi, e il manto di quelle sfumature di neve e roccia per cui io ho sempre avuto un debole, perché sono gli stessi colori di gatti dolcissimi, fieri e intelligenti, come Kiwi e Grigetto, che avevo già avuto la fortuna di incontrare.
Lui non era molto d’accordo sulla nostra decisione. Anzi, proprio non ne voleva sapere. Ha provato a spacciare suo fratello per lui, e a farlo adottare al posto suo, scappava, si nascondeva, si ribellava con tutte le sue forze, che per dimensioni ed età non erano poche. A un certo punto, quando mi è stato consegnato, mi ha morso, soffiato e graffiato – mentre altri gatti facevano a gara per infilarsi nel trasportino lasciato aperto e farsi portare via. Ma io sono di coccio. Volevo lui. Volevo quegli occhioni. Quelle orecchie a punta.
Ma cominciavo anche a perdere, a poco a poco le speranze, guardandomi un po’ intorno in cerca di alternative. Non mi andava di costringerlo.
Se non ci voleva non ci voleva, pace.
Dopo quella reazione non proprio incoraggiante, tuttavia, lui non era tornato a nascondersi come prima, ma si era raggomitolato su una copertina gialla, all’interno di un contenitore di plastica sistemato su un carrello a un metro da noi e ci guardava. Ed è a quel punto che Teodor mi fa: “He blinked at me”. Aspetta, wait.
Fermi tutti.
Qualche speranza c’è ancora. Un gattino che ti strizza gli occhi è un messaggio dall’universo. La vita che prende un bivio inatteso. Con l’aiuto del tipo del rifugio proviamo dunque a riprenderlo, lui ancora si ribella, ma alla fine lo mettiamo nel trasportino. “Lucky boy”, gli dice lui, nell’accomiatarsi da quel micetto trovato appena dieci giorni prima a Mosta assieme ai suoi due fratellini (altrettanto forastici), con un bacio sulla fronte. Orsino continua a non condividere la nostra scelta, trasformandosi di nuovo e ancora di più in una palla di pelo soffiante, sbraitante, miagolante, urlante che cerca di fare a pezzi, dall’interno, la borsa, e continuando a esprimere il suo ferino, primordiale e ferocissimo dissenso per tutto il viaggio di ritorno, con me preoccupatissima per lui, per Olivia, per noi, perché non era così che me l’ero immaginata quella nostra piccola idilliaca avventura alla ricerca del nostro nuovo gattino. Gattino che per nulla al mondo avrei mai riportato indietro.
A casa, seguiti da un’Olivia assai curiosa e un po’ perplessa, lo mettiamo al sicuro, isolato, nel mio studio, con acqua, cibo e lettiera e là lo lasciamo. Lui non mangia quasi nulla, ma esplora intorno, butta giù dalla scrivania qualcosa e usa la lettiera, come il più diligente dei micetti. Dopo qualche ora ancora fugge, ancora ci evita, ancora si nasconde, ancora soffia, ancora è del tutto terrorizzato dal non sapere dove si trovi, con chi e perché. Lo lasciamo ancora tranquillo, con Olivia che da dietro la porta smania per sapere cosa stia accadendo. Poi, lentamente, a sera, forse stremato, lo troviamo accoccolato e apparentemente calmo sulla sedia girevole. Mi avvicino, gli faccio annusare la mia mano, gli appoggio un dito sulla fronte per accarezzarlo. Soffia ancora ma, allo stesso tempo, comincia a fare le fusa. Soffia e fa le fusa. Non sa più neanche lui cosa deve fare…
Il resto della storia parla di un gattino meraviglioso e affettuoso che cresce a vista d’occhio, che cresce quando non siamo in casa, che è nemico giurato delle mie piante, loquacissimo, che ama giocare con i tappetti del latte di mandorla, che si emoziona quando pulisco le verdure, perché sono altri potenziali giochi. Il resto della storia parla di almeno cinque mesi (cinque!) di suoi tentativi quotidiani e strappacuore di conquistare la bella e riluttante Lady Olivia, la quale, come la sua shakespeariana omonima, lo respinge, lo evita, gli soffia, lo tiene a relativa distanza finché la pertinacia di Orsino-Orsetto-Pampepato – e il freddo delle case maltesi – non la fanno cedere.
Il resto della storia è Olivia che non dorme più da sola.
Se la cosa le faccia piacere o meno, l’autrice di questo blog non è però in grado di dirlo con certezza. Olivia è Olivia, e anche se è felice della presenza di Orsino, non lo ammetterà mai.
Ora che finalmente scadenze e impegni di lavoro hanno perso un po’ di peso, posso finalmente dedicarmi al catwatching, alla miciografia, all’osservazione partecipante, chiamatela come volete, di queste due affascinanti, elusive e morbide creature che popolano casa: Olivia – gatta magnifica, maestosa, affettuosa a sua discrezione – e Duke Orsino, trovatello dolcissimo, affamato e dalle lunghe zampette. La convinvenza non è facilissima, i tempi di accettazione e tolleranza di Olivia (che è con me da otto anni) nei confronti di Orsino (con noi da appena tre settimane) oscillano tra l’incoraggiante, il tenero e l’irrimediabilmente disarmante. Magari il tempo, e mesi più freddi, la faranno avvicinare al neo micetto. Nel frattempo, sono adorabili anche quando lui vuole per forza afferrarle la coda, le ruba il cibo, le occupa tutte le scatole, le nasconde i giochi sotto al divano, e quando lei soffia, sbuffa, si allontana come una diva e lascia intendere che cambierà la serratura la prossima volta che usciremo.
Il fiore di cotone nella sua conchiglia da viaggio (2012)
Prevengo subito ogni obiezione che potrà essere qui, facilmente avanzata. Sono io, in fondo, il primo a riconoscerlo: mi sono dichiarato un fiore di cotone quando di quello non sono che un filacciosamente rado e ridotto frammento.
Ma credete davvero che, una volta posti di fronte a un fiore intero, lo scarto tra ciò che è completo e ciò che di quella completezza è pura volenterosa evocazione, salterebbe lesto all’occhio?
Abbassate le palpebre. Toccatemi.
Soffice al tatto, una molle eppur in fondo risoluta cascata lieve di fili aggrappati l’uno all’altro. Che lasciarsi è perdersi, svanire. Ci sono stati fili a cui ero legato e che, colti impreparati da un soffio di vento più intenso del solito, non hanno più fatto ritorno.
Non scorgete alcun ramo a sorreggermi, dite?
Aspettate. Ho sostenuto di essere un fiore, non la pianta completa. Di quella non ho che vaghissimi, imperfetti ricordi. Da dove ero, nel mio affaccio oscillante e imprudente verso il mondo dei gerani e dei mirti, nel ripiano sottostante, non potevo scorgerne granché. Dovreste chiedere agli altri, ai miei fratelli, da sempre stretti agli steli più bassi. I pavidi.
Ascoltate la mia storia, adesso, non interrompetemi ancora.
Restate.
Perché, vi chiedo, la voce di quello che è ormai debolmente ravvisabile non dovrebbe essere tanto meritevole di attenzione quanto le parole che cadono da un immediato riconoscibile?
E perché non dovrei sentirmi ciò che desidero continuare a essere, un fiore, tutto, solo perché divelto oramai da una rassicurante continuità con un talamo e un magro rametto scuro, le mie radici, qualche pugno di terra ad accoglierle?
A dirla tutta, se esistere è averne coscienza, poi, la mia nascita è nella perdita di quella definizione che tanto alacremente ricercate.
Prima non sapevo di essere un fiore. Meglio, non sapevo di essere. Sostavo sul mio calice, annuivo alle povere brezze spezzate nel loro iniziale vigore dal muro dietro il quale le mani del giardiniere mi avevano sistemato. Lasciavo che qualche raggio polveroso asciugasse quelle due, tre gocce trattenute dai miei filamenti.
La coscienza è venuta tempo dopo, e tutta assieme: fu lo scorgere rapidissimo gli altri fili ancora stretti ai sepali da cui mi stavo allontanando, fili che là si sarebbero per sempre trattenuti, immobili, sicuri, incoscienti. Fu il brivido freddo che cominciò a percorrere ogni mia fibra, una volta oltre quel muro, gli spifferi di bora che s’insinuavano tra le dita della ragazza dai ciuffi rossi, nel cui palmo pallido e lindo avevo trovato accoglienza. Fu la sensazione che mai più sarei tornato nel luogo in cui ero nato.
Dimostrare che esisto è spossante. E io non sono che un pezzo di fiore di cotone.
Vengo dunque da un vivaio, dove, due persone cercavano un surrogato di albero di Natale, più lei che lui, a dire il vero, circa due mesi fa. Lei ricordava di come qualche rametto di cotone le fosse piaciuto, tempo prima, in un vaso, un vaso dello stesso vivaio. E così vi erano tornati.
Ora, il tempo, il vento e il fresco non avevano mantenuto intatta la fonte di quello stupore e i rametti erano ormai pochi e scarni. Restava un fiore. Io sono un frammento morbido di quel fiore, tirato via dalla mano di lui. “Tieni”, le aveva detto, per scherzo.
Là dunque la mia origine, dalla costatazione di un cambiamento inesorabile, da uno strappo, da un dono leggero, dagli occhi divertiti di lei che sorride, perché le ricordo altro, una coniglia dagli occhi celesti ora mischiata alla terra di un campo lontano. Mi prende, mi stringe nel palmo, mi porta a casa, mi mette in una conchiglia raccolta da lui durante una delle sue nude immersioni. La mia conchiglia da viaggio, appunto.
“Siamo due oggetti semplici da toccare e vedere” pensai “Staremo bene”.
Dovetti invece presto ricredermi.
Il rapporto con la conchiglia si faceva di giorno in giorno più difficile: liscia, algida e scivolosa non aveva nulla a cui intrecciare i miei fili. Ma era bella, di abbandonarne il guscio non mi riusciva. La riluttanza di un gesto che mi avrebbe sollevato lo spirito, di nuovo, e alleggerito di ogni pensiero, mi dava il tormento.
A volte penso che uno, il complicato, più lo scansa e più ci ritrova impigliato.
Ma come si fa a non ingarbugliarsi se in fondo tutto quello che percorre e stringe e circonda i miei pensieri non sono che filamenti?
Iniziai a sentire la nostalgia allora, di lui, del mio fiore, del ramo scarno. Mi mancava l’abbraccio del fiore e dei fili, di tutti gli altri fili, da cui sono stato tirato via.
Provo ancora ad aggrapparmi alla mia conchiglia ora, alla mia conchiglia fredda. La mia conchiglia da viaggio. La conchiglia di un viaggio statico, polare.
Ho deciso di uscirne. Svincolarsi da un abbraccio può essere estremamente semplice, se l’abbraccio non c’è.
Le ho chiesto comunque se avesse voglia di seguirmi, giù dalla succulenta, nel vaso in cui la mano di lei mi ha per poco lasciato.
Non ha fatto alcun cenno, la bella conchiglia. – Resta pure lassù, fa’ come vuoi, io me ne vado – le ho detto mentre avanzavo verso il bordo di terracotta, in attesa di un soffio di vento che non ha tardato ad arrivare.
E là, solo là, m’è sembrato di scorgere nella sua madreperla l’onda di un riflesso di luce debolmente diverso. S’era mossa, finalmente. O ero solo io a essere più lontano?
*Qualche giorno fa mi è tornato in mente questo blog che avevo su tumblr e ho voluto mettere insieme un po’ di contenuti, ritenendo che quello che questo fiore di cotone aveva da dire, allora, sia oggi ancora meritevole di attenzione.
Da quando questo universale rinchiudersi è cominciato, al di là di una ragionevole ansia sui cambi di direzione che avrebbe comportato e continuerà a comportare, mentre si cercava di mettere insieme – più come un minestrone che come un ordinato mosaico – il nuovo assetto del nostro quotidiano, si è anche cercato di non soccombere all’assedio fragoroso di 30, 100, 1000 modi di impiegare il tuo tempo! Cosa vedi fuori dalla tua finestra? Metti a posto i tuoi vestiti in ordine alfabetico! Gli ortaggi in frigo secondo tutte le sfumature dell’arcobaleno! Hai mai provato a fare un Mont-Blanc a casa? Creatività a tonnellate, prendine una manciata! Iscriviti a questo gruppo! Arte, musica, poesie da condividere, visite on-line di musei, città… Sì, dico a te, ma stavi davvero pensando di oziare sul divano tutto il pomeriggio a seguire le curve di intonaco e i disegni della luce sul soffitto? A leggere? Ad ascoltare musica? Senza gli occhi piantati su uno schermo? Attenzione! Leggete tutti l’ennesima mail sull’innumerevole quantità di strumenti per la didattica on-line che abbiamo a disposizione, questo mi sa che vi è sfuggito! Continuità! Facile, facilissimo! So excited! Thanks technology, thanks! Ready for the next lecture!
La clausura (qui a Malta) era iniziata da un minuto e sedici secondi e già c’erano persone di fronte allo schermo, a ripetere la loro lezione, con un sorriso da guancia a guancia, quello dei primi della classe, di chi è sempre stato più svelto a salire sul treno; mentre io mi chiedevo ma cosa vi siete presi?
E pensavo, fermiamoci. Fermiamoci qualche minuto o tre giorni interi a guardare i movimenti di questo nuovo paesaggio sociale da lontano, in silenzio, per vedere oltre l’opacità di questo più che previsto rivolgimento, non construendoci subito una facciata di blanda illusione che la norma sia ancora replicabile, perpetuabile, per poi a far sapere a chiunque, come un urlo nella rete, che wow, sì, puoi farcela anche tu. TU.
Io.
Io, cosa ho fatto?
Io, che già da settimane vivevo su altri paralleli, cercando di soffocare l’angoscia per quello che stava accadendo in Italia; io che rinchiusa in me stessa ci sto da una vita, e in casa la maggior parte del tempo (specie in seguito a certi terremoti sociali a cui ancora non riesco a rimediare) quando non viaggio, quando non nuoto, quando non ho appuntamenti di lavoro, quando non vado in cerca di altri posti per stare sola. Io che preferisco stare dietro un obbiettivo che davanti. Davanti lo trovo sempre inopportuno, invasivo, violento. Che ancora non rivedo i video della mia discussione di laurea. Che a malapena riesco a sostenere la vista di quelli delle recite scolastiche di trenta anni fa.
Io, di cosa ho riempitoquesta strana primavera?
Non di quello che avrei voluto, non così spesso. Le lezioni hanno iniziato a prendermi molto più tempo di quello che normalmente ci voleva prima. Tre, quattro volte tanto. Organizzare la spesa per mangiare pure. Dimenticare quanto l’esperienza di uscire sia divenuta disturbante (anche se non così limitata come in Italia) non ne parliamo. Immaginare cosa potesse servire e tutte le combinazioni utili e intelligenti per resistere almeno due settimane, lasciamo perdere. Cucinare sempre tutti i giorni anche per un’altra persona e non risolvere in dieci minuti con un riso in bianco o una fetta di pane e pomodoro anche.
Capire cosa leggere, cosa ascoltare, a chi dare retta. Come non soccombere a un virus anche più infido, quello dell’acriticità, del pensiero comodo, della generalizzazione.
Dalla suacella lei vedeva solo il mare.Dalla sua cella lei avrebbe solo voluto vedere il mare. E spera di non scorgere due lune…
Questo è solo un preambolo. Scampoli di tempo per inseguire altro ci sono stati.
E quidi alla prossima, presto, con una serie di frivolissimi post dedicati, tra le altre cose a
Libere colture di capelli bianchi
La gioia di scoprire (avendolo dimenticato) l’esistenza di un terzo volume del già lunghissimo romanzo su cui sto da mesi e avere così da leggere altre 395 pagine di una storia che proprio ora sembra fatta apposta per queste giornate. Cambiato il paesaggio, cambiate le regole.
Il mancato cambio di stagione. Stagioni in casa.
Meditazioni sul tetto.
Ricette e Propp.
E chissà che altro, chissà. È quasi estate, tempo per svuotare il tempo, ce n’è.
La scorsa notte ho sognato di andare in Grecia. Non era che la breve tappa di un viaggio più lungo e di cui non saprei dire la meta finale. Ricordo solo una limpida e pura sensazione di felicità per quelle poche ore di transito in Grecia. Ad Atene, per la precisione. Ricordo di aver detto a Teodor che era con me, “dai corriamo a vedere il Partenone!”. Non sono mai stata in Grecia ed è strano, perché è quel posto che di solito capita assai presto, quando si hanno ancora pochi anni, ma abbastanza per andare in giro da soli. Ma io, per cominciare ad andare in giro da sola, ho dovuto avere la “scusa” di una ricerca, una cornice accademica intorno, inquietudine insopprimibile e molti anni di più. Non sono mai stata in Grecia (io, innamorata di Mediterraneo e di cultura classica, io che snobbo il Rinascimento al Louvre e co. per perdermi tra statue, fregi e cocci di vasi), non sono mai andata a studiare inglese a Londra (o chissà dove), non ho mai fatto un Interrail, quando tutti, intorno a me, andavano in Grecia, a Londra, in Interrail. Forse è per questo che stare ferma troppo a lungo, ora, mi fa male alle gambe, che non aver studiato greco resta il mio più grande (scolastico) rimpianto – e una delle ragioni per cui lasciai Archeologia dopo un anno di università, migrando verso la più fascinosa, intensa e accattivante antropologia – lei sì che mi avrebbe portato via da casa.
Forse è per questo che ancora sogno la Grecia, e ancora me la lascio da parte, come quel boccone che appare più delizioso di tutti gli altri e per questo, nel piatto, lo si lascia alla fine.
Racconto inviato la scorsa primavera per il concorso letterario Caffè Corretto, città di Cave (qui il regolamento per il 2020). Selezionato tra i primi cinque, arrivato quarto, mi sembra. Funziona così: ti danno un incipit e tu scrivi tutto il resto.
La fontana
“Silvia e Antonio non ci potevano credere, ma finalmente l’hanno trovata. E dopo tanto cercare, gli sembra impossibile averla tra le mani. Infatti per un po’ restano così, immobili a fissarsi, e a fissare questa vecchia scatola blu.
-Aprila tu-, dice Silvia.
-No, sei matta, aprila tu. Anzi, secondo me dovremmo proprio lasciarla chiusa, sai.
Ma non è vero. Anche lui muore dalla voglia di vedere cosa c’è dentro. Se è quel che pensa, se è qualcosa che invece non si aspetta proprio, se è valsa la pena di cercarla così tanto. Alla fine lo fanno insieme, le loro dita che si sfiorano mentre aprono la scatola. E insieme, Silvia e Antonio perdono il respiro.”
L’idea che la prozia Marga celasse chissà quale segreto in qualche vetusto contenitore o nel doppiofondo di una credenza, aveva da sempre solleticato la loro curiosità, oltre ad arricchire le estati della loro infanzia di continue spedizioni per tutte le stanze della villa appartenuta da sempre alla taciturna e solitaria parente. Era, la sua, l’ultima casa di un paesino di collina, dove erano soliti trascorrere il mese di agosto. Sebbene nessuna di queste ricerche avesse mai dato il risultato sperato, i due cugini non se ne erano mai fatti un cruccio. Le eccitanti e interminabili avventure carponi sul pavimento o tra i cespugli del giardino, le scoperte immaginate oltre gli sportelli serrati di un armadio, in fondo ai cassetti gracchianti, sotto i cuscini di velluto dei divani, nelle imbottiture delle poltrone, sotto una mattonella un po’ traballante, erano già una ricca ricompensa. Da settembre in poi, inoltre, aveva inizio tra i due cugini una fitta corrispondenza fatta di congetture su nascondigli non ancora valutati e di supposizioni evocanti una miriade di passaggi segreti, tra cui un tunnel sotterraneo che dalla villa avrebbe condotto alla grande fontana al centro del giardino, sul cui parapetto la zia soleva camminare, incurante del rischio di finire in acqua, una volta all’anno, sempre lo stesso giorno, un giorno di agosto.
Vi si arrampicava senza alcuna difficoltà, allo stesso modo con cui riusciva a inerpicarsi agile per tutte le scale di casa, nonostante l’età avanzata.
Marga era sempre stata alta e magra, le spalle larghe e dritte, e fino ai cinquant’anni, i capelli castani e lunghi fermati da una coda. Non si era mai sposata e si manteneva dando lezioni di pianoforte e solfeggio ai bambini del paese, almeno tre volte a settimana. Sebbene avesse più di settant’anni, era riuscita comunque a non perdere la maggior parte delle forme slanciate che l’avevano accompagnata per quasi tutta la sua vita. Solo i capelli si erano fatti bianchi come neve e il viso era ora appena un vago suggerimento di quella che era sicuramente stata, se non una convenzionale bellezza, almeno una graziosa leggiadria. Leggeva molto e annotava le impressioni ricevute dalla lettura su un taccuino color celeste. Era anche solita foderare tutti i suoi quaderni e gli spartiti con carta dello stesso colore. Non cucinava, non aveva voglia o forse non aveva mai imparato, ma aveva una vicina che le portava sempre qualcosa da mangiare e le andava a far spesa, in cambio di qualche spicciolo, di un vecchio soprammobile di famiglia o di un recital privato. Pur non uscendo quasi mai, e anche nei giorni in cui non aveva lezioni, trascorreva sempre almeno un’ora abbondante seduta alla toletta, intenta a truccarsi e ad aggiustarsi i capelli. A volte, nell’acconciarsi, si concedeva il vezzo di un fiore fresco colto dal giardino, sistemato con cura sopra l’orecchio destro.
Con i nipoti era affettuosa, faceva sempre trovare loro regali, soldi per il gelato e non se la prendeva se le mettevano a soqquadro la casa durante i loro giochi. Ma di sé non diceva mai nulla, cosa le piacesse, cosa le passasse per la testa, come avesse vissuto prima che loro venissero al mondo. Questo, assieme ad alcune sue abitudini, non facevano che acuire l’idea che la zia celasse un enorme segreto.
Avevano infatti notato di come, ogni volta che il cielo si rabbuiava e minacciava tempesta, Marga fosse solita dirigersi verso la finestra più vicina e con l’indice tracciare sul vetro parole invisibili, sussurrando frasi impossibili da cogliere, arrestandosi di scatto quando le prime gocce iniziavano a cadere. A quel punto chiudeva brusca le tende e riprendeva quella o quell’altra particolare occupazione interrotta a causa di quel bizarro rituale la cui durata non era mai completamente prevedibile. A questo strano gesto si aggiungevano poi le già citate rischiose camminate intorno all’acqua della fontana.
Ora, caso volle che un anno, quel particolare giorno di agosto in cui la zia ripeteva come sempre il suo tradizionale giro sul parapetto, il cielo si stesse anche rabbuiando, con la solita sollecitudine che hanno i temporali estivi. E così, come suo solito, dopo aver dedicato stavolta appena pochi secondi a quella impalpabile formula sul vetro, Marga si era precipitata in giardino, seguita dai due nipoti. Per la prima volta, aveva pregato Antonio che le desse una mano per salire sulla fontana, insistendo poi che non restassero là fuori, che tornassero in casa, ma loro non le avevano obbedito; almeno fino a pochi minuti dopo, quando i tuoni si erano fatti più prossimi e la superficie dell’acqua della vasca aveva iniziato a tintinnare di piccole gocce. Solo allora si erano precipitati in casa. Poco dopo l’avevano vista rientrare senza fretta, sorridente e fradicia dalla testa ai piedi.
Mentre si chiedevano come avesse fatto a scendere da sola e a bagnarsi in quel modo in così poco tempo, la zia aveva loro chiesto di attenderla in salone, perché c’era qualcosa che doveva loro assolutamente raccontare, non poteva crederci, finalmente era successo, ma poi era corsa di nuovo fuori, in cerca di qualcosa.
Quella era stata la loro ultima estate nella villa. Prima della fine di quello stesso anno Marga fu condotta a forza in una clinica privata dove avrebbe passato i successivi quindici anni.
Ha fatto ritorno alla villa solo da qualche settimana, e trascorre la maggior parte del tempo a letto, accudita dalla figlia di quella stessa vicina che per tanti anni si era presa cura di lei. Anche Antonio e Silvia sono tornati dopo tanto tempo per farle compagnia, assisterla e forse trovare il momento giusto per chiederle perdono: erano state infatti le loro parole a convincere i genitori che la zia non ci stesse più tanto con la testa e a fare in modo che fosse ricoverata. Senza valutare le conseguenze, quasi per scherzo, loro che della zia non dicevano mai nulla, avevano riferito ai loro genitori di quello strano giorno e dell’incredibile successivo racconto di Marga, della pioggia, di una scatola blu che avrebbero dovuto portarle e subito – perché non c’era tempo da perdere – della successiva disperazione della zia per una chiave smarrita.
– Ti dico io cosa ha smarrito quella! – aveva inveito allora il padre di Antonio.
La dura decisione presa dai genitori e la fine definitiva delle loro vacanze con la zia mise fine anche alla loro amicizia. Smisero di inviarsi lettere, di telefonarsi. Quella complicità aveva solo provocato danni e quindi era meglio farla finita. Due cugini che smettono di parlarsi non è poi cosa così rara, e infatti nessuno ci fece caso. Nelle rare riunioni di famiglia che seguirono, in occasione delle feste, di qualche matrimonio e di un funerale, riuscirono sempre a schivarsi, salvo poi cercarsi da lontano, tenendo l’uno lo sguardo nell’altro quel tanto che bastava per sospendere quella distanza e cullarli brevemente nell’illusione che il passato potesse essere riacciuffato e cambiato, cosicché sarebbero tornati a trascorrere l’ultimo sprazzo delle loro estati nella villa della zia, con la zia, per sempre. Ma poi l’assenza di Marga pesava come quei due massicci aironi di marmo al centro della fontana incriminata, il groppo nelle gole s’ingrossava fino quasi a soffocarli e lo sguardo finiva altrove, in luoghi più leggeri.
Eppure lei non sembra avercela con loro. È felice di rivederli, è lei a scusarsi per prima: per non essere più in grado di accompagnarli in giardino, per non avere la forza di alzarsi dal letto.
Al dottore che accettò il ricovero, la madre di Silvia riferì tra le lacrime come le dispiacesse che una donna come Marga, la quale era stata così brillante in gioventù, sebbene sempre un po’ con la testa fra le nuvole, si fosse poi reclusa come una monaca nella villa di famiglia; che nonostante questo lei e suo fratello si fidavano di lei, tanto da affidarle i figli per settimane, ogni anno; che un po’ se l’aspettava, quel suo essere andata fuori di testa, ma così presto no, decisamente no. Poteva almeno aspettare che i due cugini fossero maggiorenni. L’ultima frase però la pensò e basta, mordendosi il labbro inferiore per quell’indelicatezza che le stava inquinando i pensieri. Suo fratello, invece, riferì in maniera assai inaccurata il racconto con cui Marga avrebbe, a suo dire, messo in subbuglio l’animo di suo figlio e quello della figlia di sua sorella. Segno che, più che il racconto in sé, gli interessasse provare come avesse sempre avuto ragione sulle stranezze della zia.
– Si rende conto? Il mare! Il mare dentro una fontana, con lei che aspetta che piova per poter finalmente imparare a nuotare e ritornare al mare. Ma quando mai mia zia l’ha visto il mare? Non ha mai fatto un passo al di fuori dei cancelli della villa o tutt’al più al di là di quelle colline. Chiedeteglielo! Io gliel’ho chiesto, anche l’ultima volta che ci ho parlato, per scrupolo: zia Marga, questo dove tu vivi è un paese dell’interno, il mare è lontano, oltre le colline, hai mai fatto un passo per uscire dal paese? E lei: no caro, mai. E io: zia, dimmi la verità, sei mai stata al mare? E lei: certo caro. Ma si rende conto? Non ha mai fatto un passo fuori dal paese eppure è stata al mare! E mio figlio doveva correre in cerca di una scatola dimenticata chissà dove, finire di nuovo sotto la pioggia e i fulmini, assecondare le visioni di una vecchia pazza e buscarsi chissà che malanni, se non peggio! Sapevo che era strana, ma fino a questo punto!
Marga dorme. Il suo viso pare fatto di carta, pare una lettera scritta, appallottolata, raccolta di nuovo, riaperta e infine lisciata per potere essere letta ancora.
Dopo averla salutata, Silvia e Antonio vanno in giardino, si siedono sul parapetto della fontana asciutta con i piedi verso l’interno. Antonio le fa notare come un airone non abbia più il becco.
– Secondo te era vera quella storia del mare? – chiede Silvia.
Antonio scuote la testa. È il diciannove agosto, lo stesso giorno in cui Marga aveva l’abitudine di camminare in circolo dove loro ora sono seduti. Silvia se ne rende conto solo in quel momento e tutti i diciannove agosto passati lontano da quel giardino le sembrano non essere mai davvero trascorsi. Prende la mano di Antonio e gli sussurra:
– Mi sei mancato. Come abbiamo fatto a sprecare tutto questo tempo lontani? Lontani da qui? Io ci credo invece alla sua storia. Che ragione aveva di inventarsi tutto?
Nella vasca c’è appena un rivolo di acqua verdastra sul fondo, terriccio tutt’intorno e un oggetto di metallo arrugginito e sporco che non permette ai raggi del sole di farlo brillare ma che non sfugge allo sguardo di Silvia.
Intanto, nel suo letto, Marga sogna. Sogna di una lontana giornata trascorsa al mare, l’unica della sua vita, la giornata in cui in cui non aveva avuto il coraggio di imparare a nuotare. Era stato tutto così veloce, come le nuvole che quel pomeriggio le passavano sulla testa e che seguiva con lo sguardo ogni volta che, dopo avere inforcato la bicicletta e aver raggiunto un prato poco lontano da casa, si sdraiava tra l’erba a immaginare cosa potesse esserci oltre quei soffici cumuli, e verso che altri orizzonti si stessero recando. In quali altri sguardi sarebbero scivolati di lì a qualche ora.
Quanto tempo è passato? Quanti anni da quel giorno? Ottanta? Di più? Non ricorda neanche la sua età di adesso. Gli anni si sono sciolti in giorni identici e incolori, immobilizzata in un letto non suo, a seguire con gli occhi non più le nuvole ma i sentieri delle crepe sul soffitto, sperando che la conducessero comunque altrove. Gli anni sono scaduti in interminabili minuti a strusciarsi per le pareti bianche dei corridoi, a stringere le sbarre alle finestre, con l’amaro di tutte le pillole che le hanno fatto ingoiare e che, se ci pensa, le ristagna ancora nel palato. Ha smesso di misurare gli anni dal giorno in cui ha dovuto lasciare la villa e ora non ricorda più neanche che forma abbiano i numeri. Ricorda però che era molto giovane, che le piaceva osservare il cielo, le nuvole e, tra quelli, i bimotori che le trafiggevano come frecce, aerei diretti chissà dove, quell’ anno di guerra che nessuno sapeva che sarebbe stato l’ultimo ma tutti non facevano che desiderarlo. E un giorno d’estate, un giorno d’agosto, un aereo era atterrato all’improvviso nel vasto campo tra la villa e il resto del paese, a un qualche centinaia di metri dai suoi piedi.
Era una vasta e sgombra area lasciata apposta vuota e incolta per permettere ai piccoli mezzi di atterrare, fare rifornimenti, portare medicinali, consegnare la posta. A dire il vero quello non era il primo aereo che Marga aveva visto atterrarle vicino e per questo era rimasta immobile e tranquilla, almeno fino a quando un ragazzotto robusto e sorridente non ne era sceso, venendole incontro. Si era poi presentato dicendole di averla già vista dall’alto, sul terrazzo della villa o nel suo giardino, poco prima di ogni suo atterraggio. Era però la prima volta che la scorgeva ai bordi del campo e si era detto che doveva assolutamente conoscerla, parlarle. Le aveva rivelato di come ogni cosa dall’alto apparisse come su una tavolozza e tra i colori lei fosse sempre la pennellata più bella. Le aveva poi detto del nero delle rocce, del verde scuro degli altipiani, dei tanti blu che colorano il mare, ma tra tutti quei blu nessuno era luccicante come il vestito che ora lei indossava.
Il mare.
Marga non c’era mai stata e glielo aveva confessato, con un po’ di imbarazzo. Lo sguardo di lui s’era illuminato, l’aveva presa per mano, pregandola di seguirlo, assicurandole che sarebbero stati via appena qualche ora. A Marga era parsa la cosa più naturale del mondo salire su quel piccolo aereo e farsi portare al mare.
– Anche tu mi sei mancata – le risponde Antonio – Forse hai ragione, la zia era sincera. Non avremmo dovuto deriderla, dirlo ai nostri genitori. Ti rendi conto che è rimasta in quel posto per quindici anni a causa nostra? Io sarei furioso. E invece lei sembrava addirittura contenta di vederci. Sapessi quante volte ho pensato alle sue parole, all’espressione del suo viso quel pomeriggio, così felice, così diversa; mi sono anche chiesto tante volte cosa potesse esserci in quella scatola che sembrava così importante per lei. Forse era quello il segreto che le abbiamo sempre attribuito, il tesoro che per tanti anni abbiamo cercato.
– Ci ho pensato anche io, sai. Il tesoro della zia. L’avevamo cercato ovunque, senza neanche sapere cosa stessimo cercando davvero. E bastava chiedere. Credo non vedesse l’ora di dircelo, ma aspettava solo il momento giusto, come la rottura di un incantesimo di cui era prigioniera. Se penso di nuovo a quel giorno, al colore del cielo, al rumore dei tuoni e a lei che in bilico appoggia il piede sulla superficie dell’acqua, mi sembra ancora di essere in un sogno, ma un sogno non mio. E penso anche che il fatto di sentirmi un’intrusa nel suo sogno mi abbia fatto scappare via, e non la pioggia. E sono sicura che aspettasse quel giorno da sempre; ce lo disse anche, Antonio, ci disse che finalmente era successo. Si era liberata. E noi, con le nostre parole, l’abbiamo rinchiusa di nuovo.
Dopo neanche un’ora il bimotore era atterrato dolcemente su una pista poco distante dalla costa. Arturo, così si chiamava il giovane pilota, l’aveva aiutata a scendere e sempre per mano si erano diretti verso una spiaggia di rena leggera, cosparsa di tronchi e rami. Si erano tolti le scarpe, affondato i piedi nei granelli bollenti e di corsa, ridendo, avevano poi raggiunto la battigia. A quel punto si erano seduti sul bagnasciuga, incuranti delle onde leggere che bagnavano loro le vesti. Era vero, le aveva detto poco dopo, il vestito di lei era un’altra sfumatura del mare, la più bella. Aveva poi tracciato con l’indice il proprio nome sulla sabbia bagnata, lei vi aveva aggiunto il suo. Un’onda si era portata via gran parte delle lettere. Incuranti che sarebbe accaduto di nuovo avevano scritto di nuovo i loro nomi, due, tre, quattro, cinque volte ancora. Lei vi aveva anche aggiunto i primi versi di una poesia che aveva imparato a memoria gli ultimi giorni di scuola e quando si era interrotta lui le aveva sussurrato il verso successivo. Poi si era alzato in piedi, si era levato giacca e camicia e l’aveva invitata a fare altrettanto con il vestito, promettendole che non l’avrebbe guardata finché non fosse entrata completamente in acqua. Subito dopo si era immerso e con una serie di vigorose bracciate si era diretto al largo. Marga era rimasta a fissarlo con il vestito ormai completamente incollato alle cosce e alle ginocchia. Quando lui era tornato con in mano un guscio di madreperla come dono, l’aveva trovata seduta ancora sulla sabbia bagnata. Lei gli aveva confidato che le dispiaceva molto ma non sapeva proprio nuotare, non aveva mai imparato, neanche tutte le volte che l’insegnante aveva portato lei e le sue compagne di scuola in gita al lago.
Allora Arturo le si era seduto di nuovo accanto e le aveva raccontato di quando da piccolo anche lui avesse avuto paura dell’acqua, di come non si debba lottare contro le onde ma seguirne il ritmo, del modo in cui le gambe dovessero muoversi per non andare a fondo e delle volute da tracciare intanto con le braccia, in sincronia, come in un volo liquido. Le fece immaginare di essere una foglia sospesa sulla superficie o una ninfea che lui avrebbe sorretto, una ninfea marina, la prima, l’unica. Le disse dei pesci che li avrebbero accompagnati e di come avrebbe potuto vederli con facilità, tanto l’acqua era trasparente; le anticipò la forma delicata di ogni conchiglia che avrebbero raccolto poco lontano, dove il livello del mare tornava ad abbassarsi. Là avrebbe potuto di nuovo camminare.
Erano tutti e due così presi, lei da quel racconto e lui dalla sua pelle diafana, che non si accorsero dell’improvviso temporale che incombeva alle loro spalle.
Si era quasi lasciata convincere, quando pesanti gocce iniziarono a bagnarle i capelli e tutta la parte superiore del vestito che le onde avevano fino al quel momento risparmiato. Si precipitarono fuori dall’acqua in cerca di un riparo. La pioggia non durò molto. Quando lui la invitò nuovamente a tornare verso la riva, come se solo allora se ne fosse resa conto, Marga si ricordò di essere lontana da casa e che si stava facendo tardi. Lo pregò di riaccompagnarla indietro, gli disse che era meglio sospendere quella prima lezione di nuoto, ma che l’avrebbero ripresa, presto. Prima di infilarsi di nuovo le scarpe mise una manciata di sabbia dentro ognuna, per continuare a sentire sotto i piedi lo stesso sfrigolio che l’aveva condotta verso quella felicità breve e perfetta.
Un’ora dopo era di nuovo nel campo da cui era partita. Nessuno si era accorto della sua assenza. Il vestito era ancora bagnato ai lembi, salato. Lui la salutò con un bacio morbido sulla guancia e la promessa che avrebbero entrambi fatto ritorno su quella spiaggia, prima della fine dell’estate. Mentre l’aereo si rimpiccioliva di nuovo nel cielo, Marga strinse forte la conchiglia che Arturo aveva pescato per lei e pensò a tutte quelle che avrebbero raccolto insieme, da allora in poi. Rientrò in casa di soppiatto e prese dalla cucina una scatola di latta color blu. Vi mise dentro la conchiglia, vi svuotò la sabbia che aveva ancora nelle scarpe. Pensò che quello era solo l’inizio dei loro ricordi, che negli anni quella scatola si sarebbe riempita di preziosità marine, di foto, di pietruzze lisce, di coralli, vi immaginò anche la lisca brillante di un pesce raro.
Ma lui non fece mai ritorno.
– Lo attesi ogni giorno, per anni. Ma tanti aerei sparivano quegli anni, di tanta gente non si sapeva più nulla. Sapevo già che non sarei mai più stata felice come quel giorno, e per questo non volli stare con nessun’altro. Però decisi che ogni anno, quello stesso giorno, avrei camminato sul bordo della fontana, fingendo di essere ancora accanto alle onde, per ritrovare un poco di quell’emozione. Non solo, a ogni futuro annuncio di tempesta, ovunque mi trovassi, avrei scritto sul vetro le stesse parole che scrivemmo quel giorno insieme, ma stavolta con gli occhi in direzione del temporale, e già al riparo, per non essere più colta alle spalle, alla sprovvista. Oggi per la prima volta da allora, nello stesso giorno – come quel giorno – la pioggia è arrivata, così dal nulla. E cosa potevo fare stavolta se non tuffarmi? Avessi avuto allora il coraggio di oggi! E sapete ragazzi? Sono rimasta a galla, ho sollevato i piedi e sono rimasta a galla, tra le ninfee, tra le foglie, come una ninfea, come una foglia, proprio come aveva detto lui. E ho urlato al cielo: torna! Ora posso seguirti, ora possiamo andare insieme a raccogliere conchiglie! Quella fontana è stata di nuovo, per pochi minuti, il mio mare… La scatola! Antonio, vammi a prendere la scatola blu. Devo metterci qualcosa dentro, qualcosa di oggi.
Ma ai nipoti che la fissavano basiti non era stata in grado di indicare dove quella scatola fosse. Prima che Antonio potesse chiederglielo, si era messa le mani in tasca, aveva mormorato con un filo di voce di aver perso qualcosa ed era di nuovo corsa di fuori, sotto il temporale. Loro erano scoppiati a ridere.
– Cosa può essere?
Si chiede Silvia, scendendo con un balzo nella vasca asciutta e raccogliendo l’oggetto arrugginito che poco prima ha attirato la sua attenzione. Vi soffia sopra, lo pulisce con un lembo della gonna, incurante della terra che le sta macchiando la stoffa, e con stupore si accorge di avere tra le mani una piccola chiave.
In quel momento, dal balcone della stanza da letto di Marga la vicina si affaccia, li chiama, vuole che la raggiungano immediatamente. I due cugini attraversano il giardino, rientrano in casa, fanno le scale a due a due, l’ultima rampa tenendosi per mano.
Marga è sdraiata sul letto, con addosso una coperta leggera. Ha gli occhi chiusi. La vicina dice loro che non vuole più mangiare nulla, non vuole neanche più bere.
– Ci pensiamo noi ora Anna, grazie – le dice Silvia.
Si siede sul letto, sussurra il nome della zia. Poi chiede ad Antonio di avvicinarle il vassoio del pranzo.
Ma lui non le risponde e attira la sua attenzione verso il ripiano di uno scaffale dove, tra i quaderni foderati di celeste, i vasi di fiori secchi, gli spartiti ingialliti e stanchi che si piegano come giunchi, è poggiata una scatola di latta color blu, chiusa da un lucchetto.
Contavo i giorni che sono stata via quest’anno. Fanno settantaquattro, se ci aggiungo le notti a Gozo. Più di due mesi con la testa su altri cuscini. E sì che mi ero ripromessa che sarei stata buona buona in casa, a scrivere. Invece c’è stata Roma, sei volte, e sono felice di aver trascorso quattro di quelle con Kiwi, prima che se ne andasse, il dodici agosto.
Gatto mio bello, il mondo è davvero meno dolce senza di te, senza il tuo occhio color ruscello di montagna e l’altro di nebulosa di stelle.
C’è stata Parigi a fine gennaio, Parigi che ancora mi mette a disagio visitare da esterna, non viverci più. Quei tre giorni a San Valentino a Innsbruck, per lavoro, e nelle pause le Alpi, il freddo, la neve e la sacher di cui avevo bisogno. Il mio compleanno a Lisbona, una città che profuma di crema, pagine di vecchi libri e limonata. E poi i viaggi di cui ancora non ho scritto – ma lo farò presto, appena consegnati i due articoli, le mie sudate carte d’autunno. Amsterdam, una sorpresa verde e fresca, e il volo oltre oceano, il primo, a Toronto, che ancora se ci penso non ci credo. Strana e velocissima Toronto, dirò presto qualcosa anche di te. Qualcosa in realtà ho già detto.
Sono stata parecchio fuori, ma anche parecchio ho scritto. Traduzioni, articoli accademici, un articolo per una rivista, un racconto per un concorso (è arrivato tra i primi cinque, non ha poi vinto), l’ennesima correzione a un romanzo che ho iniziato più di dieci anni fa e chissà se sarà mai pubblicato. E poesie. Io non scrivo poesie, di solito. Ma quest’anno, anche ispirata da un paio di eventi dove sono stata coinvolta come traduttrice di poesia dal maltese, m’è venuto da buttar giù qualche verso, di tanto in tanto.
L’ultima poesia si intitola Jet-lag. Quel che in effetti ho già detto di Toronto.
E quindi la promessa l’ho mantenuta. Ho scritto. Anche se i miei scritti sono per il momento come conserve di frutta diversa messe in barattolo, ognuna con una diversa etichetta (prosa, poesia, traduzione, antropologia, altro), appoggiate sullo scaffale del quando la apro non si sa ma dovrò a un certo punto, una per una, il prossimo anno. Saranno saporite, profumate, belle. Sono sempre così, tante cose che rileggi, dopo tanto tempo.
p.s.
Buon Natale, intanto. Anche di questi giorni di festa, di quanto mi manchi essere a casa con tutti, e di quanto ormai non si possa più essere a casa con tutti, avrei dovuto scrivere. Ma ci sono cose di cui nulla, neanche i versi, possono parlare. Solo i pensieri a occhi chiusi, i viaggi veloci tra ricordi di voci e lampi di visi e stanze, quelli che parlano tutte le lingue e sono traducibili in nessuna.
Potessi chiamarti oggi, per dirti buon compleanno. Non ti lascerei solo un messaggio nei tanti luoghi che abbiamo per lasciarci parole mute, senza tono. Ti chiamerei e ti direi: auguri bellezza, ci vediamo stasera allora? Stasera? Mi diresti. Sì, stasera. Torno a casa un paio di giorni, e guarda un po’, torno oggi che è il tuo compleanno. Quanto tempo che non passiamo un tuo compleanno insieme, eppure sei stata subito così cara da quella sera in cui ci siamo conosciute in piscina, quando ancora gli anni non avevano il venti davanti e la più grande paura era il compito in classe, o l’interrogazione. E mi dispiace che poi ci siamo un po’ perse, è stata più colpa mia che tua, lo ammetto; non si dovrebbe mai delegare a un altro tutta la propria libertà, non si dovrebbe mai mettere l’amicizia in secondo piano per un po’ di baci, per l’illusione di una sicurezza sentimentale. A quell’età, poi. Non si è sicuri mai, figurati sul ciglio dei venti. Ma il passato non si cambia, aggiungeresti tu, mettendo sull’a di quell’ultima parola il tuo bel sorriso e sollevando le spalle. No, non si cambia, aggiungerei io, e la lezione l’ho imparata, però almeno ci siamo ritrovate, sì, anche se di anni ne sono dovuti passare quanti? Dieci? Ma eccoci di nuovo qui, a parlare come se niente fosse, a uscire di nuovo insieme da quella bella estate del 2009 quando per puro caso abbiamo cominciato a riscriverci, a vederci, a ordinare insieme una chiara grande. Avevi promesso di venire a Parigi, ricordi? Mi avevi raccomandato di trovare una stanza grande, e mi avresti raggiunta, e io la trovai, alla fine, proprio a Montmartre, dopo tanto peregrinare, in una via vicina a quella di ciottoli dove tu ti eri scattata quella foto, ricordi? Nei tuoi primi anni di lavoro. Che bella foto. Non ne abbiamo quasi nessuna insieme, forse nessuna, chi girava con la macchina fotografica quando ci siamo conosciute? Chi pensava a farsi foto in continuazione? Gli appuntamenti li prendevamo ancora sul telefono fisso, o al citofono. E quindi avremmo potuto farcene una proprio lì, di foto, lì e in tante altre parti. Ci sarebbero bastate poche ore per cancellare l’assenza stupida di quei dieci anni passati solo a pensarsi, da lontano.
Le ore non sono bastate, te ne sei andata prima, senza volerlo, pochi mesi dopo, in un giorno di aprile. E da nove anni i miei auguri si perdono nell’aria, tra le nuvole, sulle strade che non percorreremo mai insieme, sui tavolini intorno ai quali non ci sederemo più per una chiacchiera, mia bella Rosalba. Eppure io te li faccio lo stesso, amica.
In questi ultimi giorni di luglio, nel pieno di un’estate che pareva tardiva e si è rivelata inclemente, penso alle sottrazioni. A quello che va via, al vuoto che lascia.
Penso al sorriso gentile e bianco di labbra e di occhi di un antropologo che sapeva davvero ascoltare e dare rilievo e colore a ogni parola scambiata, così che l’astrattezza di ogni concetto e il fluire via di ogni suono si attaccassero invece tenaci alle pareti dei pensieri, come farfalle pronte a divenire altro ancora, a volare oltre. Fu così fin da quella prima chiacchierata insieme, dieci anni fa, durante una cena, quando a vicenda ci rivelammo e confrontammmo le nostre Malte, scoprendo di averne a volte percorso gli stessi sentieri. Caro Paul, mancherai molto.
Penso a quest’isola che si sta sbriciolando sotto i rulli delle schiacciasassi, divorata e masticata dalle gru, dai camion, dal rumore, dalla polvere. Penso a tutto quello che fa a pezzi spazi di respiro e di memoria. Penso a noi, depositari di memoria, che ne perdiamo i supporti, a noi che non possiamo esserne i soli supporti, perché è un attimo, e non siamo più.
Penso al sogno di stanotte: il maledetto Link project è fatto e finito ma a quello se ne sono aggiunti altri, e ora camminiamo e ci arrampichiamo a fatica sui palazzi e i cavalcavia ancora in costruzione, perché di vie non ne sono rimaste più, rischiamo di cadere, ci graffiamo le braccia, sbucciamo le ginocchia. Percorriamo sentieri sopraelevati di cemento e intorno, sotto e sopra di noi solo corsie a scorrimento veloce, palazzi grigi senza finestre, solo pertugi, e macchine che filano velocissime. E io penso che non vedo l’ora di fare ritorno a sud, nel villaggio in cui vivo, dove almeno sono rimasti i campi, dove posso adagiare lo sguardo sul mare.
E questo mi fa tornare alla mente quando, dodici anni fa, ebbi un grave incidente d’auto. Ero in macchina con un’amica, tornavamo da un pranzo e una festa, non fu colpa sua, fummo travolte da una macchina grande tre volte quella in cui eravamo noi e lo schianto la fece ancora più corta, i vetri scomparvero, gli oggetti volarono decine di metri oltre, per qualche attimo ebbi la lucida e stupita coscienza che sarei scomparsa anch’io. In quella sfortuna fummo, tuttavia, estremamente fortunate. Nelle settimane che seguirono, passate tra analisi alla testa, ospedali, fisioterapia e altro, tra le varie conseguenze del trauma, non riuscivo più a tollerare la vista e il rumore delle auto. Brividi di paura scorrevano lungo la mia schiena ammaccata, ogni volta che una mi passava accanto. Vivevo ancora a Monteverde vecchia e avevo a pochi minuti da casa la bella pur se trascurata Villa Pamphili. Se a poco a poco mi ripresi fu grazie al verde e ai pomeriggi passati a leggere all’ombra degli alberi del parco, sdraiata sul prato, con gli occhi a riposo completo tra i fili d’erba e le fronde, l’orecchio prestato unicamente al frinire delle cicale, ai cinguettii, al fruscio delle foglie. Il libro era Cent’anni di solitudine.
Come quelli di cui quest’isola avrebbe bisogno per curarsi da noi.
A meno che tu non lo sia davvero, i punti esclamativi di cui carichi le comunicazioni scritte non fanno di te una persona più simpatica, più affabile. Per niente.
Stridono come la punta di un gesso sulla lavagna, stonano come ogni falso sorriso che appiccichi addosso a chiunque e soprattutto a chi, come me, ne farebbe volentieri a meno. Consumati e vischiosi, tu, il tuo sorriso e il tuo punto esclamativo siete peggio di una gomma appiccicata sotto le suole. Fastidiosa e inopportuna mentre tiene per pochi istanti ancora il piede legato a una strada che non si vede l’ora di lasciarsi alle spalle e di cui la cosa migliore sarà sbarazzarsene al più presto. E tornare a camminare in pace.