A me ascoltare è sempre piaciuto. Ancora meglio se le voci arrivavano da lontano, dalle casse di una radio, accesa a mezzanotte, prima di dormire; dalle cuffie ora di un telefono, un tempo di un walkman, spesso sporco di sabbia, o schiacciato in una tasca, dalla danza delle dita in cerca di stazioni lontane. Alla dittatura delle immagini e dei video, da qualche anno sempre più opprimente, ho sempre preferito l’attenzione più riposata, ma anche più schietta, che diamo alle voci. Perché ascoltare ci permette anche di chiudere gli occhi, e sotto le palpebre vedere altro, immaginare altro, mentre seguiamo il filo di discorsi altrui.
Tutto questo per dire che poter solo parlare di quello che per me è il rapporto tra antropologia e letteratura, antropologia e fotografia, aggiungendo anche la mia passione per la traduzione dal maltese, senza dover preoccuparmi di apparire o forzare qualcuno a stancarsi gli occhi sullo schermo, non solo mi ha fatto molto piacere ma era forse quello di cui in questi giorni avevo più bisogno. Merito anche delle belle domande dell’intervistatrice, attraverso skype, per il podcast di Taħt il-Qoxra. E di uno schermo lasciato spento.
Qui l’intervista, in inglese, con introduzione in maltese.