In viaggio, prima del viaggio.

Molti anni fa, mi mettevo in viaggio prima di partire. Aprivo la valigia, di solito una valigia grande – sarei diventata brava a ridurre e sottrarre solo col tempo le cose superflue, mentre le necessarie si sottraevano da sole, divenendo superflue – e la sistemavo per terra o sulla scrivania. Cominciavo dunque a riempirla già qualche giorno prima della partenza, con calma, ragionando su quello che c’era, osservandolo, cambiandolo. Era un’operazione che mi faceva stare bene, che mi metteva già di buonumore ancora prima di chiudermi dietro la porta e dirigermi verso posti nuovi, o posti già noti che si sarebbero rinnovati nel mio nuovo sguardo.

Forse, in maniera figurata, dovrei fare lo stesso adesso. Non solo prima di un viaggio di pochi giorni o settimane, ma prima di proseguire questo tutto che vivo, che mi graffia, delude e che mi travolge senza che io reagisca quasi più, in cui mi sembra sempre di riempire questa sacca grossa, scolorita e bitorzulota che sono le mie giornate, con oggetti per lo più inutili, persone che inquinano l’aria, e umori che creano ristagni insalubri nella mia testa. Ogni tanto riesco anche a fermarmi, ascoltarmi e trovare posto anche per oggetti e persone che mi fanno stare bene, che trasformano gli stagni dei miei pensieri in luccichii marini. Il problema è che le cose e le persone che mi fanno stare bene, quelle che riempirebbero meglio il bagaglio delle mie giornate non fanno rumore, non urlano in faccia; sono silenziose, miti, lontane.

Non è sempre facile scovarle, ricordarsi di lasciare loro spazio, far loro presente di sgomitare un po’, con delicatezza, per passare avanti, farmi un cenno, di tanto in tanto, indossare vesti più sgargianti.