Ci sono libri che quando li leggi ti danno quasi l’impressione di trovarti in una stanza da rassettare, tanti sono i particolari disseminati in giro, i personaggi da seguire, il contesto storico a cui richiamarsi, gli appigli ai momenti di varia verosimiglianza e il lascio della presa su quelli di liscia, scorrevole elegia. Tutti aspetti a cui solo a poco a poco riesci a dare un ordine.
La stanza è nell’oscurità, per di più, e la luce non c’è, o almeno non è la tua, ma quella di una casa di fronte. Eppure inizi lo stesso a mettere scrupolosamente in fila tutte le vicende, magari andando un po’ a tastoni fintanto che la luce del dirimpettaio ti permetterà di farlo. Solo una volta terminato di mettere in ordine, forse, scenderai a comprare una lampadina e ciò ti permetterà di apprezzare meglio anche il risultato della tua opera.
E’ quello che è successo a me con “La donna abitata” di Gioconda Belli, romanzo intenso a più voci (femminili) ambientato in Nicaragua nel corso della rivoluzione sandinista di cui, lo ammetto, conoscevo poco e niente, documentandomi (riparando dunque al guasto) solo a romanzo concluso.
La protagonista è Lavinia, una giovane architetto tornata nel suo paese dopo gli studi in Europa.
Di lei sappiamo, attraverso una decrizione in cui amo vedere anche me stessa, che “vive da sola. Non ha famiglia e non ha un uomo. si comporta come un alto dignitario senza altro padrone che se stesso […]. Distende il suo corpo e pensa. Passa il tempo a pensare. A stare così, senza far niente, a pensare”.
E’ un’altra donna a dircelo, una donna dalla pelle di corteccia.
Nel giardino della casa della ragazza, infatti, le radici di un albero d’arance si trascinano dentro, improvvisamente, dalla terra, lo spirito mai acquietato di un’india morta secoli prima per mano degli invasori spagnoli che in quella pianta rigogliosa ritrova la vista, l’olfatto, il respiro, la veemente nostalgia per il suo corpo e quello del guerriero amato, Yarince.
Inizialmente solo osservatrice esterna e poi, attraverso un morso che Lavinia dà a uno dei suoi frutti, forza, maturazione e coscienza anche dell’altra. Tanto che non sappiamo se tutta l’intensità e la lotta dell’annoiato e borghese architetto sarebbero rimaste, senza quell’atto di pura e diretta magia, solo un potenziale sopito, un fiore quindi, mai un frutto. A dire il vero amo pensare anche l’inizio della lettura di ogni libro come un morso.
Ecco dunque l’incantesimo dell’incipit, quello per il quale, ogni volta, non vedrai l’ora di ricadere nella voce in prima persona di Itza, l’india la cui memoria corposa e bruciante taglia ogni volta il nostro palato muto come un aspro, rosso e abbondante sorso di spremuta:
All’albeggiare emersi. E’ strano tutto ciò che è accaduto dal giorno in cui mi trovai nell’acqua, l’ultima volta che vidi Yarince. Gli anziani dicevano nel corso della cerimonia che avrei viaggiato verso il Tlalocan, i tiepidi giardini d’oriente-paese del verde e dei fiori accarezzati dalla pioggia tenue- e invece mi sono ritrovata sola per secoli in una dimora di terra e radici, a osservare stupita il disfacimento del mio corpo nell’humus e nella vegetazione. Tanto tempo ad alimentare la memoria vivendo del ricordo delle maracas, del frastuono dei cavalli, delle sommosse, delle lance, dell’angoscia per la sconfitta, di Yarince e delle forti nervature della sua schiena. Erano giorni che udivo i piccoli passi della pioggia, le grandi correnti sotterranee che si avvicinavano alla mia dimora centenaria, si aprivano varchi, e mi attiravano dall’umida porosità del suolo. Sentivo che il mondo era vicino, me ne accorgevo dal colore diverso della terra.Vidi le radici, le mani tese che mi chiamavano. E la forza di quell’ordine mi attirò irresistibilmente. Penetrai nell’albero e lo percorsi come una lunga carezza i linfa e di vita, un disschiudersi di petali, un tremito di foglie. Sentii il ruvido involucro, la delicata architettura dei rami, e mi allungai nei meandri vegetali di questa nuova pelle, mi stiracchiai dopo tanto tempo, sciolsi le mie chiome, e mi affacciai verso il cielo azzurro attraversato da nuvole bianche per ascoltare gli uccelli che continuavano a cantare come prima. Cantai anche io(avrei voluto danzare) e sopra il mio tronco apparvero zagare e , in tutti i miei rami, profumo di arance. Mi chiedo se finalmente ho raggiunto le terre tropicali, il giardino dell’abbondanza e del riposo la gioia pacata e inesauribile riservata a coloro che muoiono sotto il segno di Quiote-Tlaloc, signore delle acque… Perchè non è tempo di fioriture, è tempo di frutti. Ma l’albero ha assunto il mio calendario, la mia vita; il ciclo di altri crepuscoli. E’ tornato a nascere, abitato da sangue di donna.”.