Malgrado Belgrado (una storia di pesci).

DSC_1346Della terra dove ho passato alcuni giorni d’estate, quest’anno, avevo due vividi ricordi risalenti a parecchi anni fa. Nel primo ho circa quindici anni e sono al liceo, la professoressa di lettere del biennio, una donna rossa di capelli, giovane, scarmigliata e con accento non romano, accantonando grammatica e Virgilio, ci fa “ragazzi, ma voi ve ne siete resi conto o no che qua vicino, oltre l’Adriatico, ci sta una guerra?”. DSC_1347

Allora credevo di saperlo, i telegiornali non parlavano d’altro e nei miei quindici anni di bambagia e isolamenti letterari, musicali e grafici quello che vedevo a cena e a pranzo mi bastava. Anni dopo, leggendo, studiando e riconsiderando il tutto con occhi da antropologa mi sono resa conto che no, nel ’93 di quella guerra non sapevo nulla.

Secondo ricordo, stavolta siamo nella seconda metà degli anni ’80. Gli zii e le cugine catanesi si fermano qualche giorno nella ex-nostra immensa e odorosa casa di pietra e scale a ridosso dei monti Lepini. Vengono da un lungo viaggio, hanno appena attraversato in camper un luogo chiamato Jugoslavia o Iugoslavia, come scrivevamo noi. E’ loro assai piaciuta.

Io in Iugoslavia non ci sono mai stata ma avrei voluto, magari proprio a nove o dieci anni, quando la parola “estero” mi provocava emozioni viscerali, quando non sapevo nulla di invisibili confini etnici e nazionalismo e vivevo ogni esperienza in un presente infinito di stupore fluido e guizzante come le mosse di un pesce nel Danubio o nella Sava, i due imponenti corsi d’acqua che tra Zemun e Belgrado, sottolineava la zia di Teo l’ultimo giorno, a pranzo sulle loro rive, si incontrano per recarsi insieme verso il mare.

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Ho usato l’immagine del pesce di proposito. Il viaggio in Serbia, a metà agosto, è infatti storia di pesci. I primi sono stati quelli agognati da uno dei compagni di viaggio, Adrian, “pesci di fiume, river fish“, per noi assai comuni, qui a Malta dei rarissimi incontri. Nessuno stupore quindi se qualche ora dopo due esamplari della specie, elegantemente composti in un mosaico all’ingresso di una delle prime chiese ortodosse visitate, hanno strappato non pochi sorrisi. Ne avremmo avuto un veemente e vario assaggio qualche giorno dopo, in una radura danubiana. Vario perchè condito e cucinato in varia maniera, immerso in una zuppa saporitissima (che sì, in confronto altre zuppe di pesce sono acqua) o dorato in fragranti (anche se troppo sapide) fritture. Vario perchè protagonista di sorprendenti gesti, un salto dal fiume ai piedi e sullo zaino di una cara amica; oggetto di memorie a lungo termine e sussulti del primo giro in barca tra le isolette di conchiglie e gusci polverizzati di quella parte del Danubio che di lì a poco avremmo percorso anche a bracciate lente e gambe a rana.

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Le rane, anche quelle ne abbiamo viste parecchie, ranocchie grandi da poter stare nel palmo di una mano o minute da poggiarsi giusto su una falange.

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DSC_1472Nel piccolo ruscello che scorreva ai piedi di un giardino in una (per me) remota località a sud di Belgrado e verso la Bosnia, località intrisa di acque termali e abbracciata da montagne di un bel verde cupo, Teo mi diceva di come, bambino, si fosse messo a inseguire un pesce tra i ciottoli, lontano fino a dove il richiamo della nonna non poteva più seguirlo. Io in quel ruscello, affacciata dallo stretto ponticello di legno, ci ho gettato spesso gli occhi, sperando di scorgere un pesce da pedinare, trovandoci però solo una mela e il bagno momentaneo di qualche raggio al tramonto.

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Di mele, del resto, ce ne erano a perdita d’occhio.

Una, nell’acqua, doveva per forza scivolare.

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Ma torniamo ai pesci. I pesci di Belgrado, una città che mi sembrava di conoscere e percepire meglio quando non la conoscevo e che percorrendola mi ha fatto sentire miope, come se la miriade di dettagli che la componevano mi si fosse catapultata negli occhi in maniera distinta e rumorosa, senza tuttavia che una volta fatto qualche passo a ritroso, da lontano, DSC_1986riuscissi a ricostruire di quella stessa città un quadro completo, un sentimento tornito.

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I pesci di un pranzo giapponese, finalmente, dopo tanta carne, in un luogo dal nome, Supermarket, poco attraente, devo ammettere, ma pur sempre evocativo di luoghi dove la nazionalità e i confini geografici possono essere argomenti potenzialmente superati nello spazio di uno scaffale.

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I pesci dell’ultimo pasto a Zemun, luogo che trent’anni fa fu testimone della venuta al mondo di un giovane biondo, bello e di gentile aspetto, con sopra l’un dei cigli la memoria millimetrica e cicatrizzata di pelle recisa.

I pesci guizzanti fuori dal manifesto di una mostra, purtroppo chiusa, che mi sarebbe piaciuto vedere (e anche a Marta non sarebbe dispiaciuta, ne sono certa).  DSC_2001

I pesci nella chiesa di San Nicola, nell’affresco di un episodio del Vangelo che non sono in grado di evocare, nè ora ne poi. Forse uno di loro saltò nella barca, forse. DSC_2035

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A doverla dire tutta, la storia del viaggio in Serbia è stata anche storia di gatti cercati tra un numero imprecisato di cani, e storia di pomodori come non se ne erano più gustati da tanti anni. La vera abilità di questo scritto – e siatemene grati – è stata quella di riuscire a non nominare nè gli uni nè gli altri, e di non fare alcuna allusione alla loro paradisiaca condizione.

O quasi.

Mачка, mачка, mачка... 

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