(22 dicembre 2023 – 22 dicembre 2024)

Il primo cerchio del dolore
A sera
con la pioggia
comincia la vita
senza Zvezdan.
I fari delle auto
le gocce sul vetro
le scale di casa
le luci dell’albero,
sul letto, tra i cuscini,
leggiamo quello che scrivono di te.
Scrive tanto la gente, ha tanto da dire,
- noi qui a stento vediamo
la forma delle parole.
Posta, assiepa, chiede la gente,
foto, versi, brandelli su Z e
sembri nato ieri, vissuto
solo qualche anno,
in perpetuo esilio
nella baia di Panorama.
La tua morte è una casa smurata,
un'altra domenica di cera
colata nell'ascolto,
qualcuno sempre alla porta
o già sul divano
mentre finge
di non posare.
A loro non hai insegnato a stare due passi
dietro il primo cerchio del dolore
che è dolore altrui prima d'ogni cosa,
come a me, senza volerlo,
quando scrutavamo il suo sonno
- tutto quello che le restava,
che vi restava -
e avevo paura che anche il mio guardarla facesse rumore.
Pochi giorni da un ricordo
che non volevo trattenere,
ma lei mi ha chiesto che ti vedessi andare via,
disfarti,
per dire a tua sorella: è così, puoi non entrare.
Cinque giorni che non sei più da nessuna parte
e nel santuario passeggero di Mosta
dove chi ti era fratello ti ha ricomposto,
spalanca, profana la pietra e la voce,
spacca silenzi, calpesta più spazio e
s'industria la gente,
tre passi avanti a noi, al nostro dolore
questa pena infeltrita di lacune e cicloni
che brama una tenda tirata,
il gas spento, bicchieri vuoti
infrange il cerchio
per smaltire una pubblica afflizione,
nero su bianco, formato tascabile,
ottanta di grammatura.
Ma a lui sarebbe piaciuto così, sento dire,
il suo funerale, irruento creativo operoso,
vociare e un libretto arrangiato con niente
sul posto, e che macchia le dita.
C’è chi appare solo a sera,
è in quel momento che le feste sono piene,
pubblica, piange, si mostra, abbraccia,
ottiene quel dissonante omaggio, s’allontana,
pensa a quanto ancora con lui, di lui, si può fare.
Noi siamo già a casa, mi spoglio del nero e ti dico:
tuo padre non meritava tanta brutta poesia.
Inverno

La tua morte pure
è affollata,
non si vede
nel fragore
il vuoto
dell’inverno
che ci hai aperto
sotto i piedi.
Nel dono di una tregua,
tra il farsi rado degli sciami,
quando dal sacco del tuo fuoco
resteranno solo braci,
ti ritroveremo
alle radici di un corridoio,
su soglie dove non hai fatto ritorno,
in parole da custodire
come lacrime asciutte,
dentro l’ozio di brevi estati in città
che ci parevano specchiate,
gli indici a carezzarti la guancia
su una foto addormentata in un libro
riposto
nello sciabordio di bacinelle
a quietare burrasche sotto un sole rosso,
nel latitare argenteo
di istanti
fuori dall’inquadratura
a rifare il tempo
dietro una porta chiusa
con lei vestita d’orizzonti,
aria e bianco,
incastonarvi nei minuti
prima di uno scatto.
