Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, 2014 [1986]
Indicazioni: ansie da passato irrisolto; ricerca della verità; dubbio; lotta antifascista.
Posologia: Prendersi un pomeriggio, una mattina, una sera e leggerlo tutto d’un fiato. Accompagnato da fiumi di tè bianco. Se possibile, affrontare i soliloqui a voce alta.
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A tratti, certo non sempre, ma io a questa cosa che la creatività sia legata al disordine, ai mucchi di carte e penne e tazze e filtri di tè sulla scrivania, non ci ho mai creduto molto. Negli altri tratti, invece, lo scompiglio di oggetti tra le chiazze blu del tavolo mi ha invece fatto assai comodo, ma solo perché si aveva tutto a portata di mano.
Mi capita, mi è capitato, sempre mi capiterà di lavorarci, in queste condizioni, chi lo nega, ma da qui a definirla una regola e una condizione ottimale, ce ne vuole. Quindi, spesso, quando ho tempo, la prima cosa che faccio è quella di liberare la scrivania, o almeno di dare una maggiore logica al mio disordine. Classificare, si sa, è un bisogno primordiale e universale e, oserei dire, la chiave di quasi ogni comportamento, individuale e collettivo, come il caro Durkheim e il carissimo Mauss mi hanno insegnato.
Se riduciamo all’osso il romanzo in questione, si potrebbe dire che mettere ordine è anche una delle ragioni che anima Milton, il protagonista inquieto de “Una questione privata”, di Beppe Fenoglio. E non si tratta di scrivanie, nel suo caso, benché di legna ce ne sia comunque molta. Ma come le scrivanie, anche il suo presente è colmo di oggetti non rimossi, ansie fuori posto, domande mai buttate via e che restano tutte là alla rinfusa nelle pagine di questo bel romanzo, sfocate, fuori portata, come i paesaggi gravati dalla nebbia, dalla rabbia, dall’affanno. “Ed è un libro assurdo”, scriveva Calvino, “misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché”. Che è poi quello che capita con qualsiasi questione sospesa, cuore in frantumi, amicizia tradita.
Cose che francamente, a un certo punto, se la nebbia si fa troppo fitta, bisognerebbe lasciar andare, visto che ci si potrebbe anche rimettere la vita. Specie se sei un partigiano che ricapita nella villa della donna amata un tempo, e ancora amata – con la custode che tra una frase e l’altra ti mette in testa strane idee, come quella che lei amasse invece, ricambiata, il tuo compagno di battaglie. Compagno che ti ritrovi a cercare nella nebbia, nel fango, tra i monti, schivando pallottole, fuggendo.
Voglio sperare che abbia parlato seriamente, in spirito di verità, perché non mi abbia fatto costruire un mondo di dubbio e di sofferenza su certe parole dette tanto per dire, approssimativamente. Così come, forse, Fulvia mi ha fatto costruire tutto un mondo di amore su parole dette pure così per dire. Basta, basta, basta. Stavo male per non saper che fare, dove andare, cosa risolvere, domani. Ma ora so cosa farò domani (p. 115).
La guerra fuori e dentro, dunque. E intorno, lo abbiamo detto, una nebbia fittissima che piomba dopo quella visita dal e nel passato. Ma è il passato delle illusioni o quello delle verità? C’è poi differenza? Conta tanto la differenza in ciò che più non ci appartiene? Per distinguere l’uno dall’altro, appunto, Milton sospende la sua battaglia collettiva verso un nemico certo, ravvisabile e si getta nell’opacità di un paesaggio che non riesce più a scorgere, costruendosi un nemico ambiguo, sfuggente, gettandovisi contro, rischiando molto.
‘Se è vero…’ Era così orribile che si portò le mani sugli occhi, ma con furore, quasi volesse accecarsi. Poi scostò le dita e tra esse vide il nerore della notte completa (p. 26)
Alla fine della storia la prima cosa che ci attraversa la mente è quindi, ma ne valeva la pena? Era proprio così necessario sapere?
Assolutamente no. La ricerca di verità passate (passate, appunto) non è quasi mai una buona idea. Non serve, né al passato né all’oggi: non è utile alla memoria, perché se in quella c’era anche qualche bel ricordo, questo si ritrova marcito, putrido; non serve al presente, se è solo una corsa di pensieri in circolo.
Le verità bisognerebbe a volte lasciarle nella nebbia e sotto il fogliame dei boschi dove gli alberi non cadono, perché non ne sentiamo il rumore. Perché se proprio non si rischia la vita, se ne compromette una buona misura. Soprattutto, si smette di lottare contro i fascisti. Il che non è mai il caso.