Nessuna è tranquilla

dsc_2909Dall’incipit:

“Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque neppure. Né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti, colorito itterico e malaticcio, zigomi un po’ sporgenti: quella sua aria timida e giallognola mi disse tutto quello che mi occorreva sapere di lei. Mentre si avvicinava al tavolo dove la aspettavo, non potei fare a meno di notare le sue scarpe: un paio di scarpe nere, le più banali che si possano immaginare. E quel suo modo di camminare, né veloce né lento, a passi né grandi né piccoli. Tuttavia, pur non avendo attrattive speciali, non presentava nemmeno particolari difetti, e quindi non ci fu ragione di non sposarci. La personalità passiva di quella donna in cui non intravedevo né freschezza né fascino, e nemmeno una singolare raffinatezza, faceva perfettamente al caso mio” (p. 13, corsivo mio).

Anche l’attribuzione di mitezza e calma è uno dei linguaggi di controllo e definizione del maschile sul femminile, un modo come tanti per reprimere il possente e creativo potenziale che ogni persona può celare. Ne fui vittima anche io, molte volte, in passato. Ne accusai il peso e il fastidio in più di un rendiconto sul proprio compagno, da parte di amiche:

mi piaci perché sei tranquilla

mi piaci perché sei riservata

tu sei una che non dà problemi

In altre parole, posso controllarti senza sforzo e se voglio posso modellare il tuo carattere che stimo debole e malleabile, a mio piacimento.

Questo è ciò che trovo imperdonabile nei rapporti umani. Il fraintendimento con conseguenze; la superficie dei sentimenti in nome di  un calcolo

“sto con lei perché è conveniente”

la cruda, intenzionale e comoda classificazione che imprigiona destini e possibilità.

Nel quotidiano le sbarre sono invisibili, e forse solo una salutare visione, un viaggio o un sogno, dove le metafore sono sciolte da qualsiasi opacità, può indicarcene spessore e materia.

Yeong-hie, la protagonista dell’ultimo romanzo di Han Kang fa un sogno. Da allora in poi ogni sottrazione da sé di ciò che ognuno dà per scontato in lei si fa processo irreversibile: in maniera totale e assoluta si svincola dalle spire di un giudizio e di un potere – maschile – che da sempre intrappola le sue giornate, il suo corpo e le sue idee. Elimina il superfluo: dal corpo, dalle giornate, dalle idee. Elimina la carne – esiste un cibo che sia più maschile? Le sue scelte, che nessuno afferra, che nessuno capisce, sono scelte dettate da un estremo, possente, tragico desiderio di libertà. E la libertà parla per infinite, impreviste lingue. Anche mute.

La libertà dà problemi, è irrequieta, è nuda, la libertà vuole luce e acqua,

e andarsene via, in qualsiasi modo.