
I primi battiti di ciglia di un anno che avanza già troppo veloce sono ancora impastati dei residui del vecchio. La tramontana non è bastata a farne pulizia. Non è bastato sciacquarsi giorno e notte il pensiero con la consolazione di un altro inizio, col sollievo che più passano le ore di questo nuovo anno disparo e più ci si allontana dalle insonnie del paro, dalle sue contaminazioni, dai solchi amari di rapporti stonati e storti trascinati per mesi, dalle loro ipocrisie e ottusità come pane quotidiano – io che il pane neanche lo mangio così tanto qui, mi è indigesto; è un pane ingannevole quello la cui mollica non si abbandona alla crosta ma vi si tende poco convinta, come una stretta di mano molle.
Eppure, anno vecchio, non ti porto rancore. Che colpa può avere un numero, uno tra tanti, di arraffamenti a man bassa e appropriazioni indebite, di travisamenti della parola cultura, delle sue tante ignominiose riduzioni? Di giornate e stagioni riempite alla rinfusa come pignatte da svuotare poi fragorosamente, contenitori sulle nostre teste vomitanti tutto e niente, grandini di cartacce appiccicose già senza la caramella dentro, che al loro confronto anche l’effimero fuoco d’artificio ha più cose da dire mentre si consuma, che anche il coriandolo della festa ha più spessore?
Nessuna, nessuna colpa hai tu, vecchio anno.
Ma ora, e prima possibile, allontanati per davvero, scendi le scale, attraversa la strada e tuffati nella fredda baia che ho di fronte, scrollati dalla pelle tutto quello che ti ha reso inviso – i pesi, le opacità, le lame nella schiena, il sangue gelato – e torna nella mia memoria come l’anno in cui ho rivisto Berlino, Napoli, Palermo e la Puglia. Riporta indietro solo i visi delle persone limpide e, pure se non ce ne fosse bisogno, ricordami di nuovo a voce alta i loro tratti, quelli che sarà bello rivedere spesso, o presto. Ripresentati sull’uscio come l’anno in cui credevo di non far nulla fatto bene, e invece.
E invece.