
Racconto inviato la scorsa primavera per il concorso letterario Caffè Corretto, città di Cave (qui il regolamento per il 2020). Selezionato tra i primi cinque, arrivato quarto, mi sembra. Funziona così: ti danno un incipit e tu scrivi tutto il resto.
La fontana
“Silvia e Antonio non ci potevano credere, ma finalmente l’hanno trovata. E dopo tanto cercare, gli sembra impossibile averla tra le mani. Infatti per un po’ restano così, immobili a fissarsi, e a fissare questa vecchia scatola blu.
-Aprila tu-, dice Silvia.
-No, sei matta, aprila tu. Anzi, secondo me dovremmo proprio lasciarla chiusa, sai.
Ma non è vero. Anche lui muore dalla voglia di vedere cosa c’è dentro. Se è quel che pensa, se è qualcosa che invece non si aspetta proprio, se è valsa la pena di cercarla così tanto. Alla fine lo fanno insieme, le loro dita che si sfiorano mentre aprono la scatola. E insieme, Silvia e Antonio perdono il respiro.”
L’idea che la prozia Marga celasse chissà quale segreto in qualche vetusto contenitore o nel doppiofondo di una credenza, aveva da sempre solleticato la loro curiosità, oltre ad arricchire le estati della loro infanzia di continue spedizioni per tutte le stanze della villa appartenuta da sempre alla taciturna e solitaria parente. Era, la sua, l’ultima casa di un paesino di collina, dove erano soliti trascorrere il mese di agosto. Sebbene nessuna di queste ricerche avesse mai dato il risultato sperato, i due cugini non se ne erano mai fatti un cruccio. Le eccitanti e interminabili avventure carponi sul pavimento o tra i cespugli del giardino, le scoperte immaginate oltre gli sportelli serrati di un armadio, in fondo ai cassetti gracchianti, sotto i cuscini di velluto dei divani, nelle imbottiture delle poltrone, sotto una mattonella un po’ traballante, erano già una ricca ricompensa. Da settembre in poi, inoltre, aveva inizio tra i due cugini una fitta corrispondenza fatta di congetture su nascondigli non ancora valutati e di supposizioni evocanti una miriade di passaggi segreti, tra cui un tunnel sotterraneo che dalla villa avrebbe condotto alla grande fontana al centro del giardino, sul cui parapetto la zia soleva camminare, incurante del rischio di finire in acqua, una volta all’anno, sempre lo stesso giorno, un giorno di agosto.
Vi si arrampicava senza alcuna difficoltà, allo stesso modo con cui riusciva a inerpicarsi agile per tutte le scale di casa, nonostante l’età avanzata.
Marga era sempre stata alta e magra, le spalle larghe e dritte, e fino ai cinquant’anni, i capelli castani e lunghi fermati da una coda. Non si era mai sposata e si manteneva dando lezioni di pianoforte e solfeggio ai bambini del paese, almeno tre volte a settimana. Sebbene avesse più di settant’anni, era riuscita comunque a non perdere la maggior parte delle forme slanciate che l’avevano accompagnata per quasi tutta la sua vita. Solo i capelli si erano fatti bianchi come neve e il viso era ora appena un vago suggerimento di quella che era sicuramente stata, se non una convenzionale bellezza, almeno una graziosa leggiadria. Leggeva molto e annotava le impressioni ricevute dalla lettura su un taccuino color celeste. Era anche solita foderare tutti i suoi quaderni e gli spartiti con carta dello stesso colore. Non cucinava, non aveva voglia o forse non aveva mai imparato, ma aveva una vicina che le portava sempre qualcosa da mangiare e le andava a far spesa, in cambio di qualche spicciolo, di un vecchio soprammobile di famiglia o di un recital privato. Pur non uscendo quasi mai, e anche nei giorni in cui non aveva lezioni, trascorreva sempre almeno un’ora abbondante seduta alla toletta, intenta a truccarsi e ad aggiustarsi i capelli. A volte, nell’acconciarsi, si concedeva il vezzo di un fiore fresco colto dal giardino, sistemato con cura sopra l’orecchio destro.
Con i nipoti era affettuosa, faceva sempre trovare loro regali, soldi per il gelato e non se la prendeva se le mettevano a soqquadro la casa durante i loro giochi. Ma di sé non diceva mai nulla, cosa le piacesse, cosa le passasse per la testa, come avesse vissuto prima che loro venissero al mondo. Questo, assieme ad alcune sue abitudini, non facevano che acuire l’idea che la zia celasse un enorme segreto.
Avevano infatti notato di come, ogni volta che il cielo si rabbuiava e minacciava tempesta, Marga fosse solita dirigersi verso la finestra più vicina e con l’indice tracciare sul vetro parole invisibili, sussurrando frasi impossibili da cogliere, arrestandosi di scatto quando le prime gocce iniziavano a cadere. A quel punto chiudeva brusca le tende e riprendeva quella o quell’altra particolare occupazione interrotta a causa di quel bizarro rituale la cui durata non era mai completamente prevedibile. A questo strano gesto si aggiungevano poi le già citate rischiose camminate intorno all’acqua della fontana.
Ora, caso volle che un anno, quel particolare giorno di agosto in cui la zia ripeteva come sempre il suo tradizionale giro sul parapetto, il cielo si stesse anche rabbuiando, con la solita sollecitudine che hanno i temporali estivi. E così, come suo solito, dopo aver dedicato stavolta appena pochi secondi a quella impalpabile formula sul vetro, Marga si era precipitata in giardino, seguita dai due nipoti. Per la prima volta, aveva pregato Antonio che le desse una mano per salire sulla fontana, insistendo poi che non restassero là fuori, che tornassero in casa, ma loro non le avevano obbedito; almeno fino a pochi minuti dopo, quando i tuoni si erano fatti più prossimi e la superficie dell’acqua della vasca aveva iniziato a tintinnare di piccole gocce. Solo allora si erano precipitati in casa. Poco dopo l’avevano vista rientrare senza fretta, sorridente e fradicia dalla testa ai piedi.
Mentre si chiedevano come avesse fatto a scendere da sola e a bagnarsi in quel modo in così poco tempo, la zia aveva loro chiesto di attenderla in salone, perché c’era qualcosa che doveva loro assolutamente raccontare, non poteva crederci, finalmente era successo, ma poi era corsa di nuovo fuori, in cerca di qualcosa.
Quella era stata la loro ultima estate nella villa. Prima della fine di quello stesso anno Marga fu condotta a forza in una clinica privata dove avrebbe passato i successivi quindici anni.
Ha fatto ritorno alla villa solo da qualche settimana, e trascorre la maggior parte del tempo a letto, accudita dalla figlia di quella stessa vicina che per tanti anni si era presa cura di lei. Anche Antonio e Silvia sono tornati dopo tanto tempo per farle compagnia, assisterla e forse trovare il momento giusto per chiederle perdono: erano state infatti le loro parole a convincere i genitori che la zia non ci stesse più tanto con la testa e a fare in modo che fosse ricoverata. Senza valutare le conseguenze, quasi per scherzo, loro che della zia non dicevano mai nulla, avevano riferito ai loro genitori di quello strano giorno e dell’incredibile successivo racconto di Marga, della pioggia, di una scatola blu che avrebbero dovuto portarle e subito – perché non c’era tempo da perdere – della successiva disperazione della zia per una chiave smarrita.
– Ti dico io cosa ha smarrito quella! – aveva inveito allora il padre di Antonio.
La dura decisione presa dai genitori e la fine definitiva delle loro vacanze con la zia mise fine anche alla loro amicizia. Smisero di inviarsi lettere, di telefonarsi. Quella complicità aveva solo provocato danni e quindi era meglio farla finita. Due cugini che smettono di parlarsi non è poi cosa così rara, e infatti nessuno ci fece caso. Nelle rare riunioni di famiglia che seguirono, in occasione delle feste, di qualche matrimonio e di un funerale, riuscirono sempre a schivarsi, salvo poi cercarsi da lontano, tenendo l’uno lo sguardo nell’altro quel tanto che bastava per sospendere quella distanza e cullarli brevemente nell’illusione che il passato potesse essere riacciuffato e cambiato, cosicché sarebbero tornati a trascorrere l’ultimo sprazzo delle loro estati nella villa della zia, con la zia, per sempre. Ma poi l’assenza di Marga pesava come quei due massicci aironi di marmo al centro della fontana incriminata, il groppo nelle gole s’ingrossava fino quasi a soffocarli e lo sguardo finiva altrove, in luoghi più leggeri.
Eppure lei non sembra avercela con loro. È felice di rivederli, è lei a scusarsi per prima: per non essere più in grado di accompagnarli in giardino, per non avere la forza di alzarsi dal letto.
Al dottore che accettò il ricovero, la madre di Silvia riferì tra le lacrime come le dispiacesse che una donna come Marga, la quale era stata così brillante in gioventù, sebbene sempre un po’ con la testa fra le nuvole, si fosse poi reclusa come una monaca nella villa di famiglia; che nonostante questo lei e suo fratello si fidavano di lei, tanto da affidarle i figli per settimane, ogni anno; che un po’ se l’aspettava, quel suo essere andata fuori di testa, ma così presto no, decisamente no. Poteva almeno aspettare che i due cugini fossero maggiorenni. L’ultima frase però la pensò e basta, mordendosi il labbro inferiore per quell’indelicatezza che le stava inquinando i pensieri. Suo fratello, invece, riferì in maniera assai inaccurata il racconto con cui Marga avrebbe, a suo dire, messo in subbuglio l’animo di suo figlio e quello della figlia di sua sorella. Segno che, più che il racconto in sé, gli interessasse provare come avesse sempre avuto ragione sulle stranezze della zia.
– Si rende conto? Il mare! Il mare dentro una fontana, con lei che aspetta che piova per poter finalmente imparare a nuotare e ritornare al mare. Ma quando mai mia zia l’ha visto il mare? Non ha mai fatto un passo al di fuori dei cancelli della villa o tutt’al più al di là di quelle colline. Chiedeteglielo! Io gliel’ho chiesto, anche l’ultima volta che ci ho parlato, per scrupolo: zia Marga, questo dove tu vivi è un paese dell’interno, il mare è lontano, oltre le colline, hai mai fatto un passo per uscire dal paese? E lei: no caro, mai. E io: zia, dimmi la verità, sei mai stata al mare? E lei: certo caro. Ma si rende conto? Non ha mai fatto un passo fuori dal paese eppure è stata al mare! E mio figlio doveva correre in cerca di una scatola dimenticata chissà dove, finire di nuovo sotto la pioggia e i fulmini, assecondare le visioni di una vecchia pazza e buscarsi chissà che malanni, se non peggio! Sapevo che era strana, ma fino a questo punto!
Marga dorme. Il suo viso pare fatto di carta, pare una lettera scritta, appallottolata, raccolta di nuovo, riaperta e infine lisciata per potere essere letta ancora.
Dopo averla salutata, Silvia e Antonio vanno in giardino, si siedono sul parapetto della fontana asciutta con i piedi verso l’interno. Antonio le fa notare come un airone non abbia più il becco.
– Secondo te era vera quella storia del mare? – chiede Silvia.
Antonio scuote la testa. È il diciannove agosto, lo stesso giorno in cui Marga aveva l’abitudine di camminare in circolo dove loro ora sono seduti. Silvia se ne rende conto solo in quel momento e tutti i diciannove agosto passati lontano da quel giardino le sembrano non essere mai davvero trascorsi. Prende la mano di Antonio e gli sussurra:
– Mi sei mancato. Come abbiamo fatto a sprecare tutto questo tempo lontani? Lontani da qui? Io ci credo invece alla sua storia. Che ragione aveva di inventarsi tutto?
Nella vasca c’è appena un rivolo di acqua verdastra sul fondo, terriccio tutt’intorno e un oggetto di metallo arrugginito e sporco che non permette ai raggi del sole di farlo brillare ma che non sfugge allo sguardo di Silvia.
Intanto, nel suo letto, Marga sogna. Sogna di una lontana giornata trascorsa al mare, l’unica della sua vita, la giornata in cui in cui non aveva avuto il coraggio di imparare a nuotare. Era stato tutto così veloce, come le nuvole che quel pomeriggio le passavano sulla testa e che seguiva con lo sguardo ogni volta che, dopo avere inforcato la bicicletta e aver raggiunto un prato poco lontano da casa, si sdraiava tra l’erba a immaginare cosa potesse esserci oltre quei soffici cumuli, e verso che altri orizzonti si stessero recando. In quali altri sguardi sarebbero scivolati di lì a qualche ora.
Quanto tempo è passato? Quanti anni da quel giorno? Ottanta? Di più? Non ricorda neanche la sua età di adesso. Gli anni si sono sciolti in giorni identici e incolori, immobilizzata in un letto non suo, a seguire con gli occhi non più le nuvole ma i sentieri delle crepe sul soffitto, sperando che la conducessero comunque altrove. Gli anni sono scaduti in interminabili minuti a strusciarsi per le pareti bianche dei corridoi, a stringere le sbarre alle finestre, con l’amaro di tutte le pillole che le hanno fatto ingoiare e che, se ci pensa, le ristagna ancora nel palato. Ha smesso di misurare gli anni dal giorno in cui ha dovuto lasciare la villa e ora non ricorda più neanche che forma abbiano i numeri. Ricorda però che era molto giovane, che le piaceva osservare il cielo, le nuvole e, tra quelli, i bimotori che le trafiggevano come frecce, aerei diretti chissà dove, quell’ anno di guerra che nessuno sapeva che sarebbe stato l’ultimo ma tutti non facevano che desiderarlo. E un giorno d’estate, un giorno d’agosto, un aereo era atterrato all’improvviso nel vasto campo tra la villa e il resto del paese, a un qualche centinaia di metri dai suoi piedi.
Era una vasta e sgombra area lasciata apposta vuota e incolta per permettere ai piccoli mezzi di atterrare, fare rifornimenti, portare medicinali, consegnare la posta. A dire il vero quello non era il primo aereo che Marga aveva visto atterrarle vicino e per questo era rimasta immobile e tranquilla, almeno fino a quando un ragazzotto robusto e sorridente non ne era sceso, venendole incontro. Si era poi presentato dicendole di averla già vista dall’alto, sul terrazzo della villa o nel suo giardino, poco prima di ogni suo atterraggio. Era però la prima volta che la scorgeva ai bordi del campo e si era detto che doveva assolutamente conoscerla, parlarle. Le aveva rivelato di come ogni cosa dall’alto apparisse come su una tavolozza e tra i colori lei fosse sempre la pennellata più bella. Le aveva poi detto del nero delle rocce, del verde scuro degli altipiani, dei tanti blu che colorano il mare, ma tra tutti quei blu nessuno era luccicante come il vestito che ora lei indossava.
Il mare.
Marga non c’era mai stata e glielo aveva confessato, con un po’ di imbarazzo. Lo sguardo di lui s’era illuminato, l’aveva presa per mano, pregandola di seguirlo, assicurandole che sarebbero stati via appena qualche ora. A Marga era parsa la cosa più naturale del mondo salire su quel piccolo aereo e farsi portare al mare.
– Anche tu mi sei mancata – le risponde Antonio – Forse hai ragione, la zia era sincera. Non avremmo dovuto deriderla, dirlo ai nostri genitori. Ti rendi conto che è rimasta in quel posto per quindici anni a causa nostra? Io sarei furioso. E invece lei sembrava addirittura contenta di vederci. Sapessi quante volte ho pensato alle sue parole, all’espressione del suo viso quel pomeriggio, così felice, così diversa; mi sono anche chiesto tante volte cosa potesse esserci in quella scatola che sembrava così importante per lei. Forse era quello il segreto che le abbiamo sempre attribuito, il tesoro che per tanti anni abbiamo cercato.
– Ci ho pensato anche io, sai. Il tesoro della zia. L’avevamo cercato ovunque, senza neanche sapere cosa stessimo cercando davvero. E bastava chiedere. Credo non vedesse l’ora di dircelo, ma aspettava solo il momento giusto, come la rottura di un incantesimo di cui era prigioniera. Se penso di nuovo a quel giorno, al colore del cielo, al rumore dei tuoni e a lei che in bilico appoggia il piede sulla superficie dell’acqua, mi sembra ancora di essere in un sogno, ma un sogno non mio. E penso anche che il fatto di sentirmi un’intrusa nel suo sogno mi abbia fatto scappare via, e non la pioggia. E sono sicura che aspettasse quel giorno da sempre; ce lo disse anche, Antonio, ci disse che finalmente era successo. Si era liberata. E noi, con le nostre parole, l’abbiamo rinchiusa di nuovo.
Dopo neanche un’ora il bimotore era atterrato dolcemente su una pista poco distante dalla costa. Arturo, così si chiamava il giovane pilota, l’aveva aiutata a scendere e sempre per mano si erano diretti verso una spiaggia di rena leggera, cosparsa di tronchi e rami. Si erano tolti le scarpe, affondato i piedi nei granelli bollenti e di corsa, ridendo, avevano poi raggiunto la battigia. A quel punto si erano seduti sul bagnasciuga, incuranti delle onde leggere che bagnavano loro le vesti. Era vero, le aveva detto poco dopo, il vestito di lei era un’altra sfumatura del mare, la più bella. Aveva poi tracciato con l’indice il proprio nome sulla sabbia bagnata, lei vi aveva aggiunto il suo. Un’onda si era portata via gran parte delle lettere. Incuranti che sarebbe accaduto di nuovo avevano scritto di nuovo i loro nomi, due, tre, quattro, cinque volte ancora. Lei vi aveva anche aggiunto i primi versi di una poesia che aveva imparato a memoria gli ultimi giorni di scuola e quando si era interrotta lui le aveva sussurrato il verso successivo. Poi si era alzato in piedi, si era levato giacca e camicia e l’aveva invitata a fare altrettanto con il vestito, promettendole che non l’avrebbe guardata finché non fosse entrata completamente in acqua. Subito dopo si era immerso e con una serie di vigorose bracciate si era diretto al largo. Marga era rimasta a fissarlo con il vestito ormai completamente incollato alle cosce e alle ginocchia. Quando lui era tornato con in mano un guscio di madreperla come dono, l’aveva trovata seduta ancora sulla sabbia bagnata. Lei gli aveva confidato che le dispiaceva molto ma non sapeva proprio nuotare, non aveva mai imparato, neanche tutte le volte che l’insegnante aveva portato lei e le sue compagne di scuola in gita al lago.
Allora Arturo le si era seduto di nuovo accanto e le aveva raccontato di quando da piccolo anche lui avesse avuto paura dell’acqua, di come non si debba lottare contro le onde ma seguirne il ritmo, del modo in cui le gambe dovessero muoversi per non andare a fondo e delle volute da tracciare intanto con le braccia, in sincronia, come in un volo liquido. Le fece immaginare di essere una foglia sospesa sulla superficie o una ninfea che lui avrebbe sorretto, una ninfea marina, la prima, l’unica. Le disse dei pesci che li avrebbero accompagnati e di come avrebbe potuto vederli con facilità, tanto l’acqua era trasparente; le anticipò la forma delicata di ogni conchiglia che avrebbero raccolto poco lontano, dove il livello del mare tornava ad abbassarsi. Là avrebbe potuto di nuovo camminare.
Erano tutti e due così presi, lei da quel racconto e lui dalla sua pelle diafana, che non si accorsero dell’improvviso temporale che incombeva alle loro spalle.
Si era quasi lasciata convincere, quando pesanti gocce iniziarono a bagnarle i capelli e tutta la parte superiore del vestito che le onde avevano fino al quel momento risparmiato. Si precipitarono fuori dall’acqua in cerca di un riparo. La pioggia non durò molto. Quando lui la invitò nuovamente a tornare verso la riva, come se solo allora se ne fosse resa conto, Marga si ricordò di essere lontana da casa e che si stava facendo tardi. Lo pregò di riaccompagnarla indietro, gli disse che era meglio sospendere quella prima lezione di nuoto, ma che l’avrebbero ripresa, presto. Prima di infilarsi di nuovo le scarpe mise una manciata di sabbia dentro ognuna, per continuare a sentire sotto i piedi lo stesso sfrigolio che l’aveva condotta verso quella felicità breve e perfetta.
Un’ora dopo era di nuovo nel campo da cui era partita. Nessuno si era accorto della sua assenza. Il vestito era ancora bagnato ai lembi, salato. Lui la salutò con un bacio morbido sulla guancia e la promessa che avrebbero entrambi fatto ritorno su quella spiaggia, prima della fine dell’estate. Mentre l’aereo si rimpiccioliva di nuovo nel cielo, Marga strinse forte la conchiglia che Arturo aveva pescato per lei e pensò a tutte quelle che avrebbero raccolto insieme, da allora in poi. Rientrò in casa di soppiatto e prese dalla cucina una scatola di latta color blu. Vi mise dentro la conchiglia, vi svuotò la sabbia che aveva ancora nelle scarpe. Pensò che quello era solo l’inizio dei loro ricordi, che negli anni quella scatola si sarebbe riempita di preziosità marine, di foto, di pietruzze lisce, di coralli, vi immaginò anche la lisca brillante di un pesce raro.
Ma lui non fece mai ritorno.
– Lo attesi ogni giorno, per anni. Ma tanti aerei sparivano quegli anni, di tanta gente non si sapeva più nulla. Sapevo già che non sarei mai più stata felice come quel giorno, e per questo non volli stare con nessun’altro. Però decisi che ogni anno, quello stesso giorno, avrei camminato sul bordo della fontana, fingendo di essere ancora accanto alle onde, per ritrovare un poco di quell’emozione. Non solo, a ogni futuro annuncio di tempesta, ovunque mi trovassi, avrei scritto sul vetro le stesse parole che scrivemmo quel giorno insieme, ma stavolta con gli occhi in direzione del temporale, e già al riparo, per non essere più colta alle spalle, alla sprovvista. Oggi per la prima volta da allora, nello stesso giorno – come quel giorno – la pioggia è arrivata, così dal nulla. E cosa potevo fare stavolta se non tuffarmi? Avessi avuto allora il coraggio di oggi! E sapete ragazzi? Sono rimasta a galla, ho sollevato i piedi e sono rimasta a galla, tra le ninfee, tra le foglie, come una ninfea, come una foglia, proprio come aveva detto lui. E ho urlato al cielo: torna! Ora posso seguirti, ora possiamo andare insieme a raccogliere conchiglie! Quella fontana è stata di nuovo, per pochi minuti, il mio mare… La scatola! Antonio, vammi a prendere la scatola blu. Devo metterci qualcosa dentro, qualcosa di oggi.
Ma ai nipoti che la fissavano basiti non era stata in grado di indicare dove quella scatola fosse. Prima che Antonio potesse chiederglielo, si era messa le mani in tasca, aveva mormorato con un filo di voce di aver perso qualcosa ed era di nuovo corsa di fuori, sotto il temporale. Loro erano scoppiati a ridere.
– Cosa può essere?
Si chiede Silvia, scendendo con un balzo nella vasca asciutta e raccogliendo l’oggetto arrugginito che poco prima ha attirato la sua attenzione. Vi soffia sopra, lo pulisce con un lembo della gonna, incurante della terra che le sta macchiando la stoffa, e con stupore si accorge di avere tra le mani una piccola chiave.
In quel momento, dal balcone della stanza da letto di Marga la vicina si affaccia, li chiama, vuole che la raggiungano immediatamente. I due cugini attraversano il giardino, rientrano in casa, fanno le scale a due a due, l’ultima rampa tenendosi per mano.
Marga è sdraiata sul letto, con addosso una coperta leggera. Ha gli occhi chiusi. La vicina dice loro che non vuole più mangiare nulla, non vuole neanche più bere.
– Ci pensiamo noi ora Anna, grazie – le dice Silvia.
Si siede sul letto, sussurra il nome della zia. Poi chiede ad Antonio di avvicinarle il vassoio del pranzo.
Ma lui non le risponde e attira la sua attenzione verso il ripiano di uno scaffale dove, tra i quaderni foderati di celeste, i vasi di fiori secchi, gli spartiti ingialliti e stanchi che si piegano come giunchi, è poggiata una scatola di latta color blu, chiusa da un lucchetto.