Malgrado Belgrado, in inverno.

Malgrado Belgrado in inverno non sia più e non sia ancora, non quello che speravamo – ha nevicato la settimana prima del nostro arrivo, nevicherà, forse, quella dopo la partenza – fa comunque freddo, ma non come vorrei, e neanche con questo viaggio metto tutti e due i piedi, le gambe e le braccia fuori dall’eterna estate, dall’infinito sabato in cui gli ultimi anni ci hanno catapultato, fuori del tutto dai tentacoli di quel parco giochi orripilante, nato già scalcinato, che ormai è Malta, fuori dalle luci che si danno battaglia invece di cullare i passi, fuori dai suoni che sferzano senza ritmo le tempie già solcate di cefaleiche cicatrici, antiche come le carruts. Suoni e luci per la via pedonale del centro, Улица Кнез Михаилова, ci ricordano da dove veniamo, dove torneremo, dove non potremo più tornare (alla domanda dove vorresti tornare? Risponderei Valletta pre-2018, Roma tra il ’99 e il 2007, Parigi tra il 2008 e il 2011), che l’inverno e il Natale non sono più pause, lentezza, sonni e riparo, ma un motivo per alzare ancora di più il volume di ogni cosa, per gettarsi tutti insieme nella baraonda.

Musica, luci variopinte e rumore bruciano la pelle come raggi a mezzogiorno in agosto.

Non dico che era giusto, che andava bene per tutti, ognuno faccia del Natale e dell’inverno quello che vuole, eppure era bello:

Coprirsi fino al naso con la sciarpa per opporsi, invano, alla tramontana.

La neve nel giardino da dove sono venuti i nostri gatti, tutti tranne Grisù, di fronte alla mia stanza (il giardino non esiste più da due anni, ci sono in costruzione palazzi di quattro piani). Neanche la mia stanza esiste più, da molto più tempo.

Fare l’albero quasi all’ultimo momento, dopo il 20 dicembre, io, mamma e Gaia, con i gatti che ingarbugliavano i fili dorati e le luci, che in un paio d’ore a casa era Natale, mentre un paio d’ore prima eravamo ancora in un tempo ordinario. Più di una volta con mamma, Gaia ancora non era neanche nella nostra immaginazione, facemmo albero e presepe la sera della vigilia.

Cercare e scegliere in vicolo del Lupo, in uno dei locali di una nota cartoleria, ogni anno, qualche nuova decorazione. Ci arrivavamo spesso dal negozio principale su via della Croce, giacché il vicolo in sé sembrava sempre introvabile, passando da una porta sul retro, come un segreto, come un’altra dimensione che si apriva solo a dicembre per poi svanire il resto dell’anno. Miti e rispettosi i nuovi oggetti da appendere all’albero, o alle porte, si lasciavano posare accanto a quelli più anziani.

In silenzio.

Il silenzio. Natale era silenzio. Silenzio di notte. Silenzio già nel tardo pomeriggio della vigilia, quando chiudevano i negozi perché anche chi ci lavorava aveva diritto al tempo di tornare a casa e preparare la cena, o prepararsi per la cena. Silenzio cercato allontanandosi da piazza Navona verso via dei Coronari, quando c’erano quasi solo antiquari e negozi che la sera chiudevano, e camminavamo quasi in punta di piedi, sotto un manto di lucine minuscole che andavano da muro a muro, per non disturbare il sonno di statue, credenze, quadri e bonsai oltre le vetrine.

A Belgrado questi giorni di silenzio ce ne era poco, e ci muovevamo scavando il peso del pensiero di chi non c’era più, spostandolo di lato, come neve che non si vuole sparisca del tutto, perché è bella, ma neanche che impedisca di andare avanti. Tante cose sono cambiate dal nostro ultimo viaggio balcanico. Non c’è più la libreria Apropo (ora solo on line) sostituita da un clinico negozio di scarpe; i suoi gatti e i biscotti alla lavanda a profumare adesso un salotto in chissà che parte della città. C’è però, poco prima, la libreria da dove Teodor mi regalò una borsa di stoffa e io presi una spilla (di libri non ne potevo, non ne posso, comprare) dove ci fermiamo, io, mamma e Gaia, per un caffè greco, turco o serbo; i nomi qui contano, quando ordini caffè, quindi dico semplicemente домаћа кафа, e noto due ciotole, per terra, di un ospite felino che va e viene e che, quel giorno, non ci onora della sua presenza. Lo fa il caffè e il caffè, come ci viene servito, è prezioso, luccicante. Arriva su un bel vassoio, con i ратлук, un biscotto, e una bottiglia d’acqua con un rametto di menta.

Non c’è più quel café, l’ennesimo dove c’eravamo fermati nell’ultima peregrinazione estiva, con in mostra tutte le macchine antiche per la torrefazione e la “cottura”. Qui il caffè si cuoce non si prepara, kuvam kafu, una delle poche cose che ricordo.

Il caffè che cuoce bolle e borbotta, non fa troppo rumore, e solo le cose troppo rumorose sopravvivono a lungo, o vengono sostituite da cose ancora più rumorose.

Siamo passati per la via dove con Ludo avevamo preso casa per seguire le nostre lezioni di serbo-croato, quando per un breve periodo della mia vita riuscivo a leggere il cirillico e a ordinare, senza ricorrere all’inglese, burek, štrudla sa makom e yogurt bianco salino da bere, nella sempre affollata Trpkovic Pekara in cima alla via dove i palazzi squartati dalle bombe ci indicano la strada. Mi fermo ogni volta a guardare quelle rovine, il cemento accartocciato, le stanze come un urlo, i pavimenti ondulati. Una storia che scrissi qualche anno fa e che parte da Split finisce proprio sul marciapiede di questa via, sotto uno di quei palazzi.

La пекара c’è ancora, e con quella posso radicarmi di nuovo, per poco, nella mia città bianca, ripercorrere il ritorno; posso riconoscerla nel mio passato, nella me che per la prima, seconda e terza volta, o forse di più, s’era messa in cerca di quel luogo che lessi su una Lonely Planet (quando i luoghi da scoprire erano più parole e frasi in bianco e nero che immagini, video rapidi, bandierine da mettere su una mappa, e racconti digitali piatti); posso ancora una volta, da là, acquistare il pranzo, sedermi su una panchina del giardino accanto, aspettare che il burek appena estratto da forno e tagliato in un istante si raffreddi un po’, e aggiungerla ancora nel mio presente, immaginare quando, nel futuro, vi farò ritorno. Per trovare la пекара abbiamo anche scoperto altre strade, altri luoghi, e una piccola pasticceria, “di dolci fatti col cuore”, dice Gaia, vicino alla fermata del 52; li appenderò, questi nuovi luoghi, come oggetti a un albero, accanto agli anziani, e a loro aggancerò i miei ritorni.

Anche il ristorante greco c’è ancora. Anche di quello avevo letto. Il ristorante che trovi entrando quasi a casa di altri, un ingresso, un corridoio, una porta poco visibile che dà su un cortile interno. Succede spesso a Belgrado, di “entrare a casa d’altri”, di avere l’impressione di violare spazi privati, qualcosa che emoziona e fa sentire stranamente a proprio agio, succede anche per alcuni negozi, altri locali; succede per la libreria Utopia, nascosta sul ballatoio scuro di una serie di appartamenti.

E così, alla fine, nelle ultime ore, nel buio completo e nel silenzio della notte, nell’aria gelata che lasciamo entrare dalla fessura della finestra a Кијево, nei luoghi che non si svelano subito, nei posti in cui questo viaggio mi permette ancora di tornare, nelle persone che di nuovo incontriamo in giornate meno tristi di due anni fa, nei binari e nelle colline, nella strana domesticità che Belgrado sempre offre, ricordo e così ritrovo scaglie di inverni passati da altre parti, li metto insieme, ne faccio un’unica stagione dove ho dieci, quindici, ventidue, trenta e infine più di quarant’anni, quasi cinquanta, e in tutte le età sono io e un’altra. Ed entrambe abbiamo finalmente smesso di farci piacere a forza quello che detestavamo, solo per confonderci tra la folla.

p.s.

Il primo viaggio è qui, e qui il secondo. Del terzo, non so perché, non avevo scritto. Lo farò, presto.