Il giorno prima di partire per Roma, a casa, è mancata l’acqua. Le bottiglie che di solito riempio e lascio piene per le piante sono servite a sciacquare via giusto il primo strato di sale, dopo un tuffo al mare. Il secondo e forse il terzo sono rimasti sulla pelle che è partita dunque assetata, impaziente di acque ben più sciape.
Alba di casa
Fuori da Fiumicino l’aria era già più fresca e clemente. Il giorno dopo era nuvolo, e ha piovuto. Quant’era che le narici non si riempivano di umidità buona e fresca? La pioggia ha fatto saltare il programma di recarsi tutti insieme alle terme, spostato al giorno dopo, e ci ha portato in centro, ad assistere al fenomeno di una città che si svuotava come una vasca a cui è stato tolto il tappo. A Malta non succede, Malta non si svuota mai.
Mentre percorrevamo le vie dietro Corso Vittorio ho ripensato che, quando si è a Roma, più di scarpe a prova di sampietrini (e no, le espadrillas piatte non lo sono) e un voto di resistenza alle gelaterie (miseramente fallito), è importante mettere in borsa una bottiglia vuota; e poi iniziare a vagare senza mete precise, ma con una lista – vaga – di posti in cui ci si vorrebbe di nuovo – casualmente – trovare e se non succede, pazienza. In tutti questi vagheggiamenti c’è però una costante e questa costante è il nasone, la fontanella. Non si va in cerca della fontanella, tuttavia. La fontanella è una cosa che capita, una bella sorpresa, come la neve e l’arcobaleno. L’acqua che ne esce è la migliore che si sia mai bevuta (se poi ci si vuole dissetare con acqua pura e buona come il miele, almeno così si dice sia, bisogna camminare fino a piazza Barberini, alla fontana delle api – luogo in cui, stavolta, non ci siamo imbattuti).
Il giorno dopo, finalmente, le terme di Chianciano. Ho perso il conto del tempo passato in acqua, sotto gli spruzzi, tra le bolle, a far sonnecchiare beato lo sguardo nel verde di un boschetto tutt’intorno, sotto l’ombra. L’acqua è il mio spazio di meditazione e riappacificazione con il mondo. Che sia il mare, il getto di una doccia o una piscina, l’acqua mi restituisce a quello che sono, a quello che vorrei essere: liquida, fresca, trasparente e vestita di tutte le sfumature del blu. Chiare, fresche e dolci acque.
Acqua, mescolata con altri ingredienti trasformati in qualcosa di divino, è quella che ci siamo ancora concessi prima di fare ritorno nel Lazio. Tre agosto duemiladiciannove è il giorno in cui credo di aver mangiato una delle pizze migliori di tutta la mia vita al ristorante Re al Quadrato di Chianciano: pomodorini, colatura di alici, alici, burrata e prezzemolo. Più gli assaggi alle altre: margherita e marinara. Chi dice che la felicità non può essere mangiata e perfettamente digerita?
E poi, infine, ancora mare, perché il mare è come la pizza, non se ne ha mai abbastanza. Sempre in Toscana, dove abbiamo fatto ritorno, ai piedi dell’Argentario. L’ultima volta che mi ero bagnata nel mio Tirreno era stato nel 2008, durante un paio di giorni a Orbetello con due care amiche antropologhe, prima che il destino ci disperdesse come correnti marine. Orbetello anche questa volta, ma dall’altra parte del promontorio, a Ansedonia. Guardando dal mare verso la spiaggia ho ricordato che il mare italiano è anche contrasto tra spiaggia libera e l’occupazione degli stabilimenti, e poi alternanza tra l’una e gli altri per chilometri, a perdita d’occhio.
L’acqua era una danza di rametti e sabbia, limpida e piacevole ma così diversa da quella a cui ora sono tornata. Acqua turchese, un poco mossa, che ho salutato questa mattina, facendomela di nuovo famigliare nel mio volo liquido tra tanti pesci e una medusa.
In questi ultimi giorni di luglio, nel pieno di un’estate che pareva tardiva e si è rivelata inclemente, penso alle sottrazioni. A quello che va via, al vuoto che lascia.
Penso al sorriso gentile e bianco di labbra e di occhi di un antropologo che sapeva davvero ascoltare e dare rilievo e colore a ogni parola scambiata, così che l’astrattezza di ogni concetto e il fluire via di ogni suono si attaccassero invece tenaci alle pareti dei pensieri, come farfalle pronte a divenire altro ancora, a volare oltre. Fu così fin da quella prima chiacchierata insieme, dieci anni fa, durante una cena, quando a vicenda ci rivelammo e confrontammmo le nostre Malte, scoprendo di averne a volte percorso gli stessi sentieri. Caro Paul, mancherai molto.
Penso a quest’isola che si sta sbriciolando sotto i rulli delle schiacciasassi, divorata e masticata dalle gru, dai camion, dal rumore, dalla polvere. Penso a tutto quello che fa a pezzi spazi di respiro e di memoria. Penso a noi, depositari di memoria, che ne perdiamo i supporti, a noi che non possiamo esserne i soli supporti, perché è un attimo, e non siamo più.
Penso al sogno di stanotte: il maledetto Link project è fatto e finito ma a quello se ne sono aggiunti altri, e ora camminiamo e ci arrampichiamo a fatica sui palazzi e i cavalcavia ancora in costruzione, perché di vie non ne sono rimaste più, rischiamo di cadere, ci graffiamo le braccia, sbucciamo le ginocchia. Percorriamo sentieri sopraelevati di cemento e intorno, sotto e sopra di noi solo corsie a scorrimento veloce, palazzi grigi senza finestre, solo pertugi, e macchine che filano velocissime. E io penso che non vedo l’ora di fare ritorno a sud, nel villaggio in cui vivo, dove almeno sono rimasti i campi, dove posso adagiare lo sguardo sul mare.
E questo mi fa tornare alla mente quando, dodici anni fa, ebbi un grave incidente d’auto. Ero in macchina con un’amica, tornavamo da un pranzo e una festa, non fu colpa sua, fummo travolte da una macchina grande tre volte quella in cui eravamo noi e lo schianto la fece ancora più corta, i vetri scomparvero, gli oggetti volarono decine di metri oltre, per qualche attimo ebbi la lucida e stupita coscienza che sarei scomparsa anch’io. In quella sfortuna fummo, tuttavia, estremamente fortunate. Nelle settimane che seguirono, passate tra analisi alla testa, ospedali, fisioterapia e altro, tra le varie conseguenze del trauma, non riuscivo più a tollerare la vista e il rumore delle auto. Brividi di paura scorrevano lungo la mia schiena ammaccata, ogni volta che una mi passava accanto. Vivevo ancora a Monteverde vecchia e avevo a pochi minuti da casa la bella pur se trascurata Villa Pamphili. Se a poco a poco mi ripresi fu grazie al verde e ai pomeriggi passati a leggere all’ombra degli alberi del parco, sdraiata sul prato, con gli occhi a riposo completo tra i fili d’erba e le fronde, l’orecchio prestato unicamente al frinire delle cicale, ai cinguettii, al fruscio delle foglie. Il libro era Cent’anni di solitudine.
Come quelli di cui quest’isola avrebbe bisogno per curarsi da noi.
Cartografie romane. Lo Gnam, il Giappone, il fumetto.
Ultimamente Roma per godersela bisogna prenderla alla lontana, navigando al largo, cercando di non finire nel vortice di folle, motori e vetrine del centro; a meno che al centro non si conoscano già una buona gelateria dove rifocillarsi e poi un porto sicuro dove approdare e dove faranno rotta anche le amiche più care, come è stato, e come accade spesso, alla libreria Griot, una domenica pomeriggio.
Fiera di Roma
La mattina di quella domenica giungevo tuttavia dall’immersione in altre folle, quelle variopinte del Romics, con mia sorella che di queste cose ne sa più di me e che disegna in modo incredibile, perdendoci e ripescandoci regolarmente tra nugoli di ragazzini, supereroi, disegni, schizzi e patatine fritte, dove un po’ mi ritrovavo e molto mi sentivo controvento. Eppure a me i fumetti piacciono assai, mi sono sempre piaciuti, li ho divorati, collezionati, disegnati anche, per divertimento. Regalatemi una graphic novel ben fatta e mi vedrete felice.
Sempre procedendo ai margini del centro, due giorni dopo ho dedicato qualche ora (per la quarta volta) a uno dei luoghi più belli e rasserenanti in cui mi sia mai capitato di mettere piede: lo Gnam.
La Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea è uno di quei posti che vizia lo sguardo e l’animo e mette completamente a proprio agio, tra tanto ben di dio. La prima volta c’ero stata con Chiara (l’unica volta che avevo potuto ammirare il bacio di Klimt, tutte le altre volte sempre in viaggio), quando non era ancora stata ristrutturata; da quel che ricordo, era un bel museo come ce ne sono tanti grazie alla sua collezione, ma pesante, buio, polveroso. Da pochi anni è tutta un’altra storia. Gli spazi e il nuovo allestimento non cronologico sono belli quasi quanto le opere che ospitano. Le descrizioni non disturbano e quasi si confondono con il bianco delle mura. Tutto è arte, perché si è oltre qualsiasi categoria: l’etnico e il periodo storico sono stati messi al bando. Il moderno, il contemporaneo, l’occidentale e il non occidentale si mescolano, si accompagnano, si danno man forte e sembra si facciano i complimenti a vicenda. A volte si ha anche l’impressione che non abbiano più neanche bisogno dello sguardo del visitatore, della sua logica ordinatrice. Altre invece che lo invitino a unirsi, come una nuova opera mobile e sempre variante, alla festa perpetua che hanno messo in atto.
Perché, come già detto, è questo il punto. La visita allo Gnam è come una colazione sull’erba, una festa tra amici cari, una passeggiata sul prato a piedi scalzi, dove si può tranquillamente scegliere di non vedere tutto pedissequamente e sentirsi comunque a posto con la coscienza – la bellezza che ci circonda ci ha già raggiunto tutta, quasi per osmosi. Abolita la dittatura delle didascalie e dei periodi, si vaga, si vaga e basta alla ricerca della cosa più leggiadra o spiazzante; ci si inventa il proprio percorso, si torna indietro, ci si sdraia su divani che sembrano istallazioni, ci si muove in balia di onde leggere, trascinati verso sale che galleggiano nella luce come isole bianche piene di tesori. Se è tanto che non vedete un amico, se volete un bel posto dove passeggiare e ogni tanto fermarvi di fronte alle tele di Fontana, a una statua di Canova, a un quadro di Fattori, solo per citarne qualcuno, lo Gnam è il posto ideale. Altro che le vie di Trastevere.
Poco distante dalla galleria (nel bar servono anche ottime pizze bianche ripiene, così, tanto per dire), c’è l’Istituto Giapponese di Cultura, dove avevamo prenotato una fugace visita (è proprio il caso di dirlo), al giardino, per la fioritura dei ciliegi. La visita va prenotata il martedì e il giovedì ed è assai breve, non ci si può stare per più di mezz’ora, buona parte della quale si è accompagnati da due guide che raccontano la storia del giardino, si sforzano di farci immaginare che quello che abbiano davanti non è uno stagno ma il mare e ci tengono a specificare che il giardino in cui ci troviamo non sia zen. Zen o non zen il profumo del glicine e del ciliegio ci ha già stordito appena varcata la soglia, quei trenta minuti passano come se fossero solo cinque, la preoccupazione maggiore è quella di non finire a far compagnia alle carpe, e quando usciamo abbiamo la certezza che se la primavera tarda un po’ ad arrivare del tutto (venti freddi e piogge turbavano ancora la navigazione romana, per non parlare dell’atterraggio a Fiumicino) è forse perché si sta ancora stiracchiando le gambe sul prato di quell’incantevole giardino.
Tutto è iniziato sul volo da Zurigo a Lisbona (non perso per un soffio), quando decido di prendere da bere, per la seconda volta nella mia vita, un succo di pomodoro (il primo fu a Parigi, per un aperitivo con Giulia C.). Adoro il pomodoro e spesso quando cucino la salsa della pasta una buona porzione se ne va in copiosi e ridondanti assaggi. Chi era con me non ne ha voluto sapere per più di un sorso e mi ha guardata, per usare un eufemismo, con scetticismo. E io ho pensato di come in effetti ogni pomodoro, una volta uscito dal suo ruolo comune, si muova nei terreni dell’incomprensione. Il dramma del pomodoro è reale ed è quello di un frutto costretto sempre a comportarsi da ortaggio per essere compreso – e consumato.
Ho ripensato a questa delicata questione mentre passeggiavo qualche giorno dopo per la bella Rua dos Remédios, a Lisbona, dove abbiamo soggiornato per una settimana e fatto regolarmente seconde colazioni nelle varie pastelarias e in particolare in quella all’inizio della via, l’Alfacinha, buona e onesta, con i suoi habitués, la sfilza di dolci cremosi (ce li sognamo ancora la notte, e anche il giorno), i barattoli di lupini e le signore del quartiere (sempre a tre a tre) che si incontravano là per un caffè.
Ci ho ripensato perché mi doleva di non essere anche io, in quel posto, une habituée, di non essere capace di ordinare cappuccino e pastel (o anche pan de deus, altra meraviglia) in portoghese, di essere confusa con tutti i turisti che passavano a decine di là per quella via, di non vivere il posto davvero, ma essere solo di passaggio, che la mia permanenza fosse veloce come il tempo di sparizione di due pasteis (perché che fai, ne prendi solo uno?). E in quel momento mi sono sentita anche io un pomodoro, qualcuno che era qualcosa ma doveva agire come qualcos’altro per trovare agio in quella realtà provvisoria di turista o viaggiatrice temporanea – se proprio vogliamo credere che le definizioni che diamo a noi stessi contino qualcosa. Viaggiatrice un corno, ero una turista, punto. Ma ero anche un’antropologa condannata a un perpetuo desiderio di ricerca, che avrebbe voluto fermarsi, trovare un argomento da approfondire, studiare la lingua, girare anche a vuoto e per giorni senza l’urgenza di far fruttare il tempo; di perderne parecchio, anzi, di tempo, per ascoltare il campo, farsi sedurre dalle sue deviazioni, chiacchierare con le persone che ci vivono e trovare nelle loro parole sentieri invisibili e nuovi. E invece tutto quello che potevo fare era consultare la guida, visitare i luoghi consigliati, cercare di perdermi un po’ ma non troppo, stare attenta ai borseggiatori (che pare siano abilissimi e in quella settimana abbiamo sentito più “attenzione ai borseggiatori” che “bon dia”) e conciliare la quantità immane di tuorli d’uovo, che quotidianamente ti passano con tutto quello che ordini, con le abitudini del mio fegato (che a un certo punto mi ha mandato a dire “Virgì, mo’ basta”).
Quando è in vacanza ogni antropologo è a suo modo un pomodoro. Ma è anche questo il bello, questo non adagiarsi mai in nulla, non prendere mai nulla per dato. Questa continua, succosa, inquietudine. E sapere che se si gratta la patina della turista, sotto sotto, c’è sempre un osservatore partecipante.
Nonostante il sentirsi un pomodoro, quei sette giorni a Lisbona sono stati quello che ci voleva. E se turista dovevo essere, allora tanto valeva farlo come si deve. Abbiamo visto parecchie cose quindi, raggiunte rigorosamente a piedi.
E quindi ecco, dopo i tentativi parigini di frivolezza, quelli lusitani, tenendo sempre conto che Lisbona è la città del fado (ah il fado) e quindi ogni frivolezza è solo di facciata.
La to do list
Alcune cose non puoi proprio evitarle, specie se visiti una città per la prima volta. E quindi abbiamo ligiamente depennato dalla lista il Panteão Nacional , la torre di Belém e omonima pastelaria, il Mosteiro dos Jerónimos (splendido), il Sé (purtroppo il chiostro era chiuso per lavori), la Praça do Comércio, il Museu Do Azulejo, il Calouste Gulbenkian, il tram 28, il Bairro Alto, la scontata LX Factory, la livraria Bertrand e una quantità innumerevole di miradores senza l’aiuto di alcun elevadores (la rima è puramente casuale). Tutto a piedi, dicevo. Succede sempre così, per un po’ di giorni ignoriamo i mezzi pubblici, facciamo come se non esistessero per niente, poi ci arriviamo per disperazione e per praticità. Ma in fondo Lisbona è una città piccola, così ha detto più volte un amico di Teo, la prima e l’ultima volta che ci siamo visti, ed è sempre bello avere amici in una città che si visita. Avere qualcuno da vedere e con cui passeggiare ti fa sentire meno pomodoro e più tomate (e quindi, cari Louis e Angelica, quando verrete a trovarci faremo di tutto per farvi sentire il più possibile dei tadam).
…dove non faccio mai nessun affare ma solo foto – e dove abbandono Teo al primo bancone di libri per tornare poi a cercarlo un quarto d’ora dopo e trovarlo esattamente dove l’ho lasciato.
3. La cura dei colori
Vivendo in un’isola gialla che per giorni e anche alla partenza era sotto un cielo grigio, uragani, tempeste, grandine, vento e chi più ne ha, Lisbona è stata davvero una cura per gli occhi.
4. Birdwatching
Venendo pure da un’isola che stermina la maggior parte dei volatili che osano mettere l’ala all’interno del suo spazio aereo, il Portogallo non ha deluso neanche in quello.
5. Sintra
L’ennesimo momento in cui ho rimpianto di aver dimenticato le mie ali da fata a Parigi. Perché Sintra è una fiaba. Ma può anche essere un incubo, se non si azzecca la stagione. Su Sintra ho letto parecchio prima di andare, cercando di capire cosa, tra le tante meraviglie, non si potesse escludere e ovunque, guide e siti, mettono in guardia dalle orde di persone che a gruppi di dieci, cento e mille la raggiungono, l’attraversano e la riempiono, traboccando da ogni dove. Nonostante il treno fosse già pieno di mattina presto e nonostante le scolaresche italiane e portoghesi in gita, siamo stati fortunati e abbiamo potuto girovagare per castelli, grotte, labirinti e lussuriosi giardini a nostro piacimento, senza file, senza intralci. Ci siamo anche seduti alla celeberrima pasteleria Piriquita dove i dolci del luogo li abbiamo provati tutti e due (i travesseiros e le queijadas) e anche quelli devo ammettere che ci mancano assai, ora. Il giro intelligente e fortunato è iniziato proprio dalla pasteleria, ha proseguito con il Palacio Nacional, la Quinta da Regaleira e infine il Palacio e Parque da Pena. Il tutto disquisendo anche di letteratura inglese e Lord Byron che a Sintra dedicò alcuni versi del Childe Harold’s Pilgrimage:
Lo! Cintra’s glorious Eden intervenes In variegated maze of mount and glen. Ah, me! what hand can pencil guide, or pen, To follow half on which the eye dilates Through views more dazzling unto mortal ken Than those whereof such things the bard relates, Who to the awe-struck world unlocked Elysium’s gates?
6. Alfama
Il quartiere dove avevamo casa. Il solo dove, se dovessi tornare a Lisbona, sceglierei ancora di stare. Il fado (ascoltato la sera del mio compleanno gustando un caldo verde al no. 83 di rua dos Remedios) e il commento di Teo “mi ricorda di quando ci siamo persi a Bitonto, ma senza l’ansia di stare per perdere il treno per Bari”, bastano per non desiderare di dormire altrove.
7. Quello che non mettiamo a fuoco,
che accantoniamo, che lasciamo in sospeso come le note notturne di un fado che si insinuano tra le mura piastrellate e ci accompagnano verso un sonno senza sogni, che di cose ne abbiamo già sognate abbastanza ed è tempo di riposare, di riguadagnare energie per altri sogni. Quello che è stato scartato in nome di cose che allora ci sembravano più perfette e solo ora capiamo che nello scarto c’è invece tutta la libertà e la possibilità di essere altro. E che certi errori sono anche bellissimi da fare e da ripetere.
Un errore da non rifare, tuttavia, è quello di lasciare ancora a lungo questo paese da parte. Il Portogallo, che ho vissuto per anni nella letteratura di Pessoa e Tabucchi, è stato un viaggio a lungo accantonato proprio come la sua posizione, defilata là nel lato estremo dell’Europa. Paese con lo sguardo rivolto verso il vento, l’oceano e terre ancora più lontane, terra a sua volta che parla poco del continente a cui appartiene e molto d’oltremare.
8. Dulcis in fundo.
Loro. Che pure se Lisbona non avesse avuto nulla da vedere, il viaggio valeva la pena di farlo solo per loro. Qui sotto la poesia di mani, crema e cottura a 200° della Manteigaria Fabrica de Pasteis De nata.
Writing in other languages has always amused me. When I was a teenager with just a couple of years of English under my belt (in the ’90s we would begin studying foreign languages in secondary school), I used to fill in the pages of my school journal in that language too, or what may have passed for a primordial version of the same. The extension of expressive possibility given by other languages (and the fact that Latin couldn’t serve that purpose) made me very passionate about English, so that I chose it as the first subject during my maturità, preceding even Italian, which was my second subject*. In 2002 I dedicated a few months to Spanish, but it didn’t last. Then, in 2004, I discovered the beauty of the Maltese language and its familiar exoticism. Three years later, I followed this up by learning French, whose sentences would have brought me away, first to Paris for my doctoral studies, and then again to the island. I also gave Serbian a try, last time I was in Belgrade. The two weeks there were useful at least to manage to read the signs in cyrillic in a bakery, make the order and get the right (celestial) food. And what about my first love, what about my mother tongue? Well, just when I thought I wouldn’t find time for “her” again, as I used to to before, I found a way to renovate my passion and my dedication to it thanks to the immersion into the deep and graceful sea of possibilities which translation implied. Since then I translated from English, French and Maltese prose and poetry, thanks to all the writers who entrusted me with their work. In 2013 my friend Clare gave me the wonderful opportunity to translate her intense collection of stories, Kulħadd Ħalla Isem Warajh (Merlin Publishers, 2014). Among them I particularly liked these (here’s just an excerpt of some of them):
Promotional postcard campaign for the launch (Photography by me and design by Pierre Portelli)
Rita
Sette minuti alle otto, il treno arriva racimolando fiacchezza e briciole di pane tostato ancora sulle labbra. Spazza via ogni sogno, bello e non, spazza via l’alito pesante. Spinge lontano il silenzio, ne occupa il posto appena per pochi secondi e poi riparte, lasciando che il primo si faccia di nuovo largo, e se non quello uno che gli somiglia. Otto meno sei, appare Rita con addosso il piombarle grave e ingombrante d’un cappotto acquistato l’inverno precedente a Petticoat Lane, molliche di toast sul risvolto, brutti sogni in bocca, gli occhi annebbiati dal basmati al curry. Qualche secondo dopo il suo arrivo sulla piattaforma di Stepney Green, linea verde, direzione Ealing Broadway, un treno si ferma. E preme sul silenzio, silenzio a cui lei si concede tutta. Resta immobile. Le persone le scorrono accanto come ratti, chi verso un vagone, chi verso un altro, chi in direzione delle scale. Due topini sbucano fuori di nuovo alla ricerca di quel pezzo di pane lasciato in sospeso, scovato prima che il treno si fermasse. Lei s’appoggia a un sedile attaccato al muro di piastrelle lerce, bianche. Raccoglie una copia di Metro dal posto accanto per dare un’occhiata ai pettegolezzi della giornata, scialbi come la notte. Come Salvo, le viene da pensare. Salvo è come la notte e questa copia di Metro come Salvo che è come la notte […].
[…] Camilla Petroni, povera, non ebbe per niente fortuna. Perfino quando giunse qui. Restò prigioniera del suo dolore. Era come se un’ombra le gravasse addosso. Ombra, era questa la parola che usava. Dell, diciamo noi in maltese. E quest’ombra l’avvolgeva di continuo. L’ombra del ricordo di lui che ancora le permeava lo sguardo e s’impigliava tra i lunghi capelli. Un ricordo che non le dava scampo, notte dopo notte, quando dentro continuava a bruciarle l’umiliazione di essersi trovata tutto quello che le apparteneva messo alla porta, sparso sui gradini di Senglea. Invasa ancora dalle ultime parole che lui le aveva rivolto quel lunedì mattina, le ultime, in una fredda, stinta mattina. E se il passato continuava a scavarle dentro, ancora più profondo era il dolore inferto da un presente pieno di antidepressivi, dove lei si sentiva diversa, estranea anche a se stessa, irriconoscibile ai suoi propri occhi, tutt’altra donna da quella che era stata accanto a lui; le dita affusolate perennemente alla ricerca delle armonie smarrite di quell’amore, a tentoni verso il suono di una lingua, quella del mare, che non avrebbe più ascoltato; il groviglio dei suoi capelli come tentativo di celare tutto ciò che la dilaniava. Di lei serbo nella memoria lo sguardo di spettro, la voce avvolta in una tosse rauca e il bel corpo: una conchiglia imprigionata in un profondo blu, dove il suo cuore cercava rifugio. Eccola la mia Camilla.
Camilla would also go on to become a short film in 2018.
Polly
[…] Ovunque si recasse, Polly lasciava il suo marchio: pdm. Un piccolo scarabocchio sul muro, un graffio su una panchina o su una porta, su una ringhiera di ferro, per terra, su un secchio della spazzatura, sul sedile di un autobus, a una fermata del bus, sul monumento alla Libertà, i Barakka di su, i Barakka di giù, sui biglietti del trasporto di linea, sui barattoli di cibo, in fondo alle bottiglie del latte, nei cortili delle scuole in cui era stata, sui banchi della chiesa, minuto, appena appena visibile, con una moneta da due cent, su qualche lapide del cimitero, sotto le suola delle scarpe, su Gerfex la gatta tricolore, sul muro basso che circondava il tetto, nella cabina telefonica, nei pensieri dei bambini, sull’abito d’ogni bambola, sulla parete della fabbrica dove aveva per un po’ lavorato, su ogni macchinario d’assemblaggio d’occhiali, sul portone della libreria, sulla sua cartella, sul palmo della mano, sui santini dei defunti, sui libricini della messa, sul righello di legno da 30 cm, sui bastioni, sui lampioni, sulle porte dei club delle bande musicali, sul pianto versato dalla gente all’arrivo del feretro, sul chioschetto di legno in piazza, nel cantiere portuale numero uno, nei magazzini di Marsa, sulle scalinate, sul Cristo Redentore, sulle barche della regata, sui drappi, all’Ħofra[, nel cantiere cinese, sui vestiti stesi, sui cani randagi, sui giornali, sui segnali stradali, sulle sedie della sacrestia, sui lastroni delle tombe del padre e della madre, sulle cicche delle sigarette, sulla sua pipa, sulle facciate delle case, nella polvere, sul bordo delle gonne, tre minute lettere: pdm. E non solo con la moneta da due centesimi soleva imprimere il suo marchio, una volta erano ago e filo, un’altra vernice, un’altra ancora un pezzo di gesso o una pietra, sull’asfalto, sui marciapiedi, sui distributori di dolci, sui cavalli da giostra montati dai bambini, sui tavolini dei bar, sul muro del municipio, sul palo biforcuto sotto la statua del santo retto da un tipetto, nel posto di guardia o nel pubblico gabinetto, sui mai riempiti moduli del censimento, nelle croste di pane secco, nelle banconote, sulla busta della pensione, sui barattoli di tabacco, sulle bottiglie di limonata, sulle lattine di mais, sulle foglie dei fichi d’India, sui muri in macerie, nel mare, sull’elenco del telefono, ai Granai, sulle piante nei vasi, sul vetro delle finestre, nel cielo che si fa fosco, sulle rocce che fronteggiano il mare, sulle spiagge, sulle lingue della gente, sui cancelli delle grosse dimore, sulle portiere delle vetture della gente che la infastidiva e di quelli che la lasciavano stare, sui davanzali, i panni stesi, sulle mollette, sui menù svolazzanti appesi fuori le porte dei ristoranti, per terra, sul portamonete, sulla sua uniforme scolastica, ovunque non potesse essere scoperta, sulle saracinesche, sulle bombole di gas per la cucina, sullo scaldabagno al kerosene, sulle onde, le impronte delle persone, i giochi dei bambini, il suo grembiule, la bandiera con la torcia infuocata, il zittirsi delle pettegole, il tubare dei piccioni, il canto che si diffonde fuori dal convento delle suore di clausura mattino, pomeriggio, sera, sui poster, sul suo cuscino, sul letto, sulla sedia, sulla tavola, sulle scalinate, sui piedistalli nei giorni di festa, sui pannolini sporchi, sui piumoni messi via, nel vento, sui desideri dei bambini, sui lumini sotto l’Immacolata, nel confessionale, sul muro del palazzo del Gran Maestro, sui pomi delle porte, sui francobolli, sugli incarti dei pastizzi, sui cartelli dei prezzi al mercato del martedì mattina, sulle cassette delle lettere, i petardi durante le feste, i lacci che scivolano giù dalle code di cavallo delle ragazze, su un bicchierino di whisky o brandy, sulla porta del negozio di zio Vince a Whitechapel, sulla morte, sul suo fornello, sulla credenza, sul lumino tremolante sotto la Vergine, sulla litania del rosario, sulle scatoline dei fiammiferi, il secchio d’acqua saponata, la scopa, lo straccio da terra, i grani del rosario, sulla macchina da cucire, sulle cartoline d’auguri, sull’angustia serpentata delle strade, su bruttura, tristezza e solitudine, su tutto e niente, ovunque le capitasse d’essere, ovunque si recasse, tranne che sulla sua tomba, Polly lasciò il suo marchio, tre minute lettere, pure sul cuore, tre minute lettere: pdm.
Translating poetry, on the other hand, came about as the result of an unexpected (but welcome) proposal which emerged in the summer of 2017, by Nadja Mifsud. Thanks to it, I was introduced to one of the more interesting voices in Maltese poetry. And so, I translated a few poems ahead of her participation in the Italian poetry festival Voci lontane Voci sorelle .
Parentesi
Primo giorno
Ti saprò, frammento per frammento gli occhi per cominciare gli stessi che invocavano i miei dal bordo della piazza dove una folla impaziente s’era radunata per ascoltare Adonis e un sacco d’altri poeti - e poi - dammeli mi sussurrasti nell’orecchio lasciamene bere un sorso fammeli amare e di me neanche sapevi il nome.
Secondo giorno Il mento sulla tua spalla la mano a cingerti il fianco adoro fasciare la tua guancia col mio fiato
Terzo giorno Già naturale per i miei occhi appena schiusi cullarsi nel tuo sguardo e fugata ormai la paura d’annegarti dentro amo immergermi sempre più immergermi fino a non avere respiro immergermi fino a toccare il fondo
Quarto giorno Testa contro testa su questo divano vacillante già le tue dita si dilettavano col mio ombelico quando mi dicesti di tua madre del suo ferro da stiro brandito come una minaccia tutte le volte che lacrime e sogni marciti tracimavano margini non più contenuti dal vino t’avrei offerto riparo nel mio ventre, ridato la vita amato dalla testa ai piedi ovunque come creatura mia offerto il mio seno nutrito, appagato saziato, vezzeggiato messo in fuga ogni affanno. Il mio amore era allora più forte mentre ninnavo i tuoi pensieri di roccia e capivo meglio perché casa tua aveva mura di colori diversi uno per ogni umore avevi detto più tardi con un rivolo d’argento sul mio grembo t’ascoltavo compiaciuta slacciare tutti i nostri dobbiamo per riannodarli in altri intrecci in un monile di baci
Quinto giorno Scossa dal gorgoglio del caffè che annuncia un’altra alba affondo il naso nel cuscino dove il tuo odore indugia ancora appagata dallo scalpiccio di te in cucina. Lascio che carezzi il mio torpore dilato fin che posso questi istanti - fosse solo per sogno - questa storia tra parentesi
Sesto giorno Un pensiero spiacevole fluttua in superficie scarico il lavandino la schiuma s’aggrappa una lotta muta contro l’acciaio inox Parto domani e non ne ho voglia.
No, non è vero che la terra è tonda (per S.)
No, non è vero che la terra è tonda ha bordi aguzzi e taglienti come le parole che tuo padre scagliava in faccia a tua madre si frantumavano contro i muri franandoti in grembo e tu le intrecciavi con i capelli delle bambole sperando di farle svanire.
Studiavi i colori col mento sul tavolo della cucina la mano di tua madre febbrile nella semina di una manciata di pasticche come fuochi d’artificio negli angoli più remoti della sua testa o sciogliersi come arcobaleno nel nero amaro dei suoi occhi
Sapevi a memoria tutti i c’era una volta e i vissero felici e contenti ti ci rannicchiavi assaporandoli succhiandone ogni parola poi li rimboccavi sotto le coperte illudendoti di ammansire così le durezze di un mondo che t’irrompeva dentro con i singhiozzi di tua madre e la bestialità di tuo padre.
Continuavi a dar retta a quelle storie anche da ragazza care a te come la vita talismani color confetto sempre addosso e non ti tornava perché in questo mondo ingarbugliato dove ogni cosa è sottosopra i principi si mutano in ranocchi e non il contrario.
La mano trema nel seminare una manciata di pasticche bianche come la morte te le figuri esplodere nella testa straordinario gran finale sciogli i capelli spegni la luce senza vestiti sdraiata a terra marcisci ancora un po’.
And then, last summer (poetry always keeps me company during the sultry Maltese summer), I went deep in the words of another Maltese poet, whose verses I will add here as soon as they are published.
***
*prior to the reform in 1999 (where the student was given the luxury of choosing a single topic from each subject to be tested on), the final oral exam (following the written ones in Italian and Maths for those who attended Scientific high schools – Classic ones got Italian and Latin, lucky them) consisted in questions about all the programme of the year in about four subjects (actually they were “just” two, which the student chose according to a strategy of marks and hopes that the professor wouldn’t have “changed” their choice at the decisive moment). In 1997 the subjects in the Scientific strand were Italian, English, History and Physics.
Prima che iniziasse l’anno nuovo, mentre ero ancora là che mi districavo nei rimasugli del vecchio, mi sono detta, risoluta: nei prossimi mesi me ne starò tranquilla a casa a scrivere e quello che scrivo non resterà nelle disordinatissime cartelle del mio desktop, no, cara mia, stavolta quello che scrivi esce fuori, va pubblicato. Provaci, almeno.
E invece no. A gennaio sono tornata a Roma, a metà febbraio c’è stato l’intermezzo di lavoro austriaco e, tra il primo e il secondo viaggio, Parigi. Ma Parigi, mi chiedo ora, è un posto dove vado o dove ritorno? Il non capirlo mi provoca sempre problemi non irrilevanti con la città e col tempo che le dedico. Ora, mettiamo che Parigi sia il posto dove sempre torno, e non vado mai. Mettiamo che per tornare serva sempre un motivo. Quello sì, c’è sempre. E stavolta era pure validissimo: assistere alla soutenance – perfetta, incredibile, brillante – di Ludo. A Parigi non capito mai senza ragioni. Perché se non ci sono i motivi particolari ci sono comunque quelli ricorrenti: un seminario, un possibile lavoro, senza dimenticare tutti gli amici e tutti i luoghi dove non c’è mai un solo ricordo e dove le memorie si accalcano e fanno a gara per quella che emergerà per prima e per prima si lascerà raccontare.
Aristogatto
Tutto questo fa di Parigi la città dei miei ritorni “a casa” (senza che una casa col portone di legno e il codice ci sia più), e mai la destinazione di una vacanza. Che poi queste schizofrenie tra andare e tornare, tra vacanza e quotidianità più o meno ritrovata, non diano problemi di gestione delle giornate, quello è un altro discorso che sa bene chi mi accompagna (e mi tollera). Perché io ci provo rilassarmi a Parigi, ma poi, più di tanto, non ci riesco. Parigi è pesante, sempre. Di nomi di vie e fermate di metro che sono sempre qualcosa di più, di rimorsi, di rimpianti, di visi, di occhi, di giri in bici, di valigie che non volevo fare, di ore in biblioteca, a lezione, di bei ricordi, di file alle panetterie, di giardini e picnic, di mesi che vorrei ancora trascorrervi. Però l’impegno a prendere la ville con più frivolezza c’è, c’è tutto.
Ed ecco, come prova, tutti i miei tentativi.
Tentativo no. 1: Quai Branly o Pompidou?
Avrei voluto fare un salto al Quai Branly, il quale, al di là di tutte le polemiche espositive che uno possa tirare fuori, resta uno dei luoghi più incredibili, in quanto a collezioni, in cui abbia mai messo piede. Quello e il Centre Pompidou, dove invece i piedi li ho messi tutti e due, qualche ora prima di tornare a Malta. Non sono riuscita a ritrovare il mio Matisse preferito e non so se mi piaccia la rigida seppur necessaria partizione cronologica tra arte moderna e contemporanea (preferisco sempre i percorsi tematici) ma capisco anche che sia difficile organizzare tutto quel ben di dio del moderno con le illuminazioni (o spesso i deliri) delle istallazioni contemporanee e quindi, alla fine, non sono uscita delusa (mai, dal Pompidou non si esce mai delusi. Forse un po’ scioccati per i sei euro della fetta di torta di mele. Ma era buona, e li valeva tutti).
Tentativo no. 2: dove non arriva l’arte, arriva la psicoanalisi.
Al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme c’era invece la bella mostra temporanea (ora terminata) Sigmund Freud. Du regard à l’écoute, un viaggio nella quotidianità (se così si può dire) di Freud, negli stimoli, studi, arte, spettacolo e ostruzioni del suo tempo. Non avrei messo Freud sullo stesso piano delle rivoluzioni di Copernico e Darwin (e qui l’inchino è sempre d’obbligo), ma il percorso tra astrusi macchinari di cura pre-psicoanalisi, la sua borsa da lavoro, la ricostruzione dello studio, i filmini di famiglia, le letture dell’epoca e gli schizzi illustranti le fasi dell’isterismo femminile, hanno un po’ messo a soqquadro le basi del mio scetticismo per la disciplina. Che fosse una tappa necessaria, nella storia e prima del pranzo al Marais, su questo non c’è dubbio.
Tentativo no. 3: se la vita è una, perché non viverla da rossa?
Ancora aperta, fino al 20 maggio (lo dico perché quello che scrivo sia anche di qualche utilità) è invece un’altra bella mostra nel XVIIème (un arrondissement in genere poco praticato), presso il Musée National Jean-Jacques Henner, dal titolo Roux! e dedicata – sì, l’ho scelta io, apposta – ai capelli rossi (alla loro rarità, fascinazione demoniaca, eccezione, ossessione, attrazione, dal tempo del pittore fino a oggi, dall’arte alla pop culture). Il museo è già di per sé un viaggio nel tempo, tra le stanze e le scale di una casa accogliente che deve essere stata anche molto amata; la ricostruzione dell’atelier con scrivania, pennelli e tavolozza (o semplicemente il fatto che nulla sia stato toccato, presumo, da allora) soddisfano anche la più difficile antropologa appassionata di oggetti di memoria e gli schizzi di Henner sono un perfetto preludio delle opere più elaborate che tuttavia, anche nella loro completezza, sembrano sempre sospese nel sogno, in una perfetta soffusa fugacità, e con soggetti che non sai se saranno così disciplinati da restare là buoni e fermi, non appena avrai distolto lo sguardo.
Tentativo no. 4: Pablo.
Ah, Picasso (al Musée Picasso e al Centre Pompidou). Non sono una critica d’arte e i miei ultimi studi strutturati di storia dell’arte risalgono al quinto liceo (se escludiamo Antropologia e Arte, durante la specialistica). Tutto questo per dire che su Picasso è meglio che taccia. Non mi piaceva molto, un tempo, ma ritengo perché allora non mi piacessi molto io e cercavo nell’arte più sicurezza che labirinti. Ora credo che il mondo senza la sua arte non sarebbe lo stesso: è un’arte che ti scaraventa oltre, e che in quell’oltre ti ci abbandona e smarrisce lasciandoti però allo stesso tempo gli indizi per tornare indietro. E tu ti incammini a ritroso, scosso, sorpreso, incantato, ma sempre con l’occhio rivolto a quel sentiero nascosto.
Tentativo no. 5: Virginie la reine (non proprio la cosa più sicura, in Francia).
Due galette, due vittorie. Non c’è molto altro da aggiungere. Sì, Teodor, anche io credevo che quel rigonfiamento fosse “il personaggio” (cit. Chiara Carolei) e la fetta te l’avevo lasciata scegliere apposta, e invece no, era una galette ingannevole. Le borse brutte (o forse i Buddha, libera interpretazione, ibidem) le ho entrambe trovate io.
Tentativo no. 6: i ristoranti vietnamiti
Se dovessi trasferirmi di nuovo a Parigi vorrei nei pressi di casa (tipo sotto, che posso anche andarci in ciavatte) un ristorante vietnamita. Una delle migliori cucine al mondo, delicata e intrigante, esotica e famigliare, con una perfetta combinazione di colori, come un affresco. E leggera. Siamo tornati con Giulia e Julien da Hanoi, dove cerco di passare ogni volta che capito nel XIème (cioè sempre) grazie a una fortuita combinazione di appetito, freddo, quartiere e mezzodì, tipo che uno ha detto ho fame e l’altro, ah ma qua vicino non c’è Hanoi? e un terzo, oh, c’è posto, e il quarto: entriamo. E zuppa fu.
Ma con Teodor abbiamo anche provato il Quan Viet e se ci tornassi ordinerei direttamente due-tre porzioni dei loro ravioli al vapore e sarei la persona più felice del mondo (almeno per una decina di minuti).
Tentativo no. 7: la poesia (e la filosofia)
Una serata di letture (anche in maltese, grazie Liz) nella bellissima libreria Les Petites Platonsdedicata alla filosofia (per bambini, e quindi per tutti). E ricordarsi della bellezza della parola “leggiadro”. E sperare di poter davvero, un giorno, curare la traduzione di quella collana poetico-letteraria-filosofica. Eh, Ludo?
Serata di letture per i trent’anni della rivista Clandestino
Il migliore promemoria di sempre.
Passeggiata veloce, fredda, intensa al Père Lachaise, a due passi da dove alloggiavamo. Non ho trovato Chopin stavolta e la sua lapide piena di rose rosse. Sarà per la prossima.
Come da tradizione (sono già due anni di seguito e nella migliore tradizione delle tradizioni cominciate e inventate che pare abbiano sulle spalle chissà quanti anni ma invece sono nate l’altroieri – e in effetti proprio l’altroieri riflettevo su questa cosa), il giorno di San Valentino è dedicato a viaggi in terre teutoniche. A differenza dello scorso anno, tuttavia, sarà solo una toccata e fuga in cui cercherò di gettare il più possibile l’occhio verso le Alpi, e cogliere in un battito di palpebra meccanico ancora più rapido (c’è il sole, sarà rapidissimo) la loro traslazione in bianco e nero**. Ho un rullino da finire, un altro da cominciare.
Malta acuisce la nostalgia dei monti. Una nostalgia che non si sa di avere finché non ci si ritrova al di sopra di essi, o ai loro piedi. Il senso di infinitesimale piccolezza e limite che dà il mare è diverso da quello che si prova al cospetto delle montagne. Nel mare ci si fonde, confonde, anche se in maniera limitata e temporanea. Il mare accoglie, travolge. In un modo o nell’altro se ne è parte.
Tra le montagne, invece, ci si sente sempre altro, estranei alla pietra, estranei a quell’aria rarefatta che i polmoni devono imparare a respirare di nuovo, estranei alle cime, alla maestà delle altezze che, almeno a me, parlano di altre possibili vite, lontane dal Mediterraneo.
Estranei, dicevo, e allo stesso tempo presi, afferrati e stretti da tanta rocciosa bellezza che narra di storie al di là di ogni tempo umano, di increspature e innalzamenti senza spettatore.
Le montagne promettono e permettono sempre un oltre che il mare allontana, allunga, rende irraggiungibile.
Eppure se dovessi scegliere a cosa somigliare e a cosa far somigliare la mia vita, sceglierei sempre il mare e la sua liquida irrequietezza, la sua calma solo di superficie.
*Facciamo finta che sia ancora metà febbraio. Avevo iniziato a scrivere questo post all’aeroporto di Vienna, in attesa del volo per Innsbruck. Avrei voluto aggiungerci qualche foto, prima di pubblicarlo e quindi l’ho lasciato in sospeso. Poi c’è stato il ritorno, la pioggia, grandine che pareva neve, l’uragano, il racconto per il concorso, il lavoro e mettiamoci pure che febbraio è corto e finisce sempre troppo presto e una cosa tira l’altra e quando l’ho ripreso era già marzo.
** Lo sportello della macchina fotografica si è bloccato (lo è ancora). Tiene prigioniero il rullino precedente, non mi ha permesso di metterne uno nuovo. Chissà quando ci sarà ancora una perfetta combinazione di cielo limpido, finestrino giusto, neve, montagne, aereo che fa manovra decisamente al di sotto della loro altezza prima di prendere quota e far tirare un sospiro di sollievo un po’ a tutti i passeggeri.
Prima di tutto, scrivi. Scrivi ogni parola, luce, fuga di lemmi avventata,
sgrana tra i pensieri
quello più salato
ma poi pure tra gli sciapi afferra una manciata,
mettila da parte, lasciala a riposo.
Scrivi tutto quello che pensi abbia rilievo,
anche la superficie,
non dimenticare che un giorno pure quella
si muterà in maroso.
Scrivi gli angoli in cui la mente si incastra e scalcia per uscire di nuovo,
e poi libera si dilegua in una corsa.
Annota le pause,
non scordare gli inciampi.
Metti su inchiostro quello che non vuoi sia trascinato via con la tramontana,
o scompaia con le luci delle auto che accelerano e rallentano le giornate,
che resti imbrigliato
sulle labbra screpolate,
tra le frange della sciarpa,
sulla punta delle dita,
sul baratro della lingua,
sullo sdrucciolo della fronte
mentre pensi
me lo ricorderò.
Perché, come ben sai, non accade.
E quindi scrivi,
scrivi perché la tua testa è una tasca scucita
la crepa di una roccia
dove la goccia è già cascata
e la scrittura una rete che trattiene.
Scrivi, scrivi subito.
Perché a immergersi ogni volta nei pensieri che precipitano
con la speranza di ripescare ciò che va perduto,
chissà che titani richiameresti dal fondo di quel fiume buio,
dal letto del tuo insoluto.
[E quindi scrivi, scrivi per lasciar dormire gli spettri
e ridestare tutto il resto].
I primi battiti di ciglia di un anno che avanza già troppo veloce sono ancora impastati dei residui del vecchio. La tramontana non è bastata a farne pulizia. Non è bastato sciacquarsi giorno e notte il pensiero con la consolazione di un altro inizio, col sollievo che più passano le ore di questo nuovo anno disparo e più ci si allontana dalle insonnie del paro, dalle sue contaminazioni, dai solchi amari di rapporti stonati e storti trascinati per mesi, dalle loro ipocrisie e ottusità come pane quotidiano – io che il pane neanche lo mangio così tanto qui, mi è indigesto; è un pane ingannevole quello la cui mollica non si abbandona alla crosta ma vi si tende poco convinta, come una stretta di mano molle.
Eppure, anno vecchio, non ti porto rancore. Che colpa può avere un numero, uno tra tanti, di arraffamenti a man bassa e appropriazioni indebite, di travisamenti della parola cultura, delle sue tante ignominiose riduzioni? Di giornate e stagioni riempite alla rinfusa come pignatte da svuotare poi fragorosamente, contenitori sulle nostre teste vomitanti tutto e niente, grandini di cartacce appiccicose già senza la caramella dentro, che al loro confronto anche l’effimero fuoco d’artificio ha più cose da dire mentre si consuma, che anche il coriandolo della festa ha più spessore?
Nessuna, nessuna colpa hai tu, vecchio anno.
Ma ora, e prima possibile, allontanati per davvero, scendi le scale, attraversa la strada e tuffati nella fredda baia che ho di fronte, scrollati dalla pelle tutto quello che ti ha reso inviso – i pesi, le opacità, le lame nella schiena, il sangue gelato – e torna nella mia memoria come l’anno in cui ho rivisto Berlino, Napoli, Palermo e la Puglia. Riporta indietro solo i visi delle persone limpide e, pure se non ce ne fosse bisogno, ricordami di nuovo a voce alta i loro tratti, quelli che sarà bello rivedere spesso, o presto. Ripresentati sull’uscio come l’anno in cui credevo di non far nulla fatto bene, e invece.
Non era una notte sola, ma tre o quattro, tutte accalcate intorno a quella del dieci dove le aspettative di vedere il cielo pennellato di luci erano comunque sempre le più alte, le più forti. Le notti di agosto più interessanti, quelle di cui ho più nostalgia, le ho trascorse su una spessa balaustra di pietra con sotto quasi 100 metri di vuoto e un paesaggio incredibile, a fissare il cielo, per ore.
San Lorenzo era un giorno e un luogo. San Lorenzo era il dieci agosto, ma anche il quartiere romano dove mio padre era cresciuto, dove viveva nonna fino alla metà degli anni novanta, in un bell’appartamento da dove si vedevano senza intralci le mura aureliane e sopra quelle l’intreccio di binari che portavano via da Roma e a Roma ti riportavano.
San Lorenzo è stata quella notte di più di venti anni fa, dove con gli amici ci si era lasciati dietro il bar, la piazza, le panchine e le vie arancioni per inerpicarci, ben forniti di plaid, su per una strada non asfaltata, ripidissima, e cercare poi a tentoni un luogo per sdraiarsi, uno spiazzo, un prato, delle rocce piatte, avamposti di salite ben più faticose per i Monti Lepini. Una concorrenza di sguardi agguerrita, chi vede la stella cadere per primo, il desiderio è il suo, qualche battuta, tanto silenzio, un ragazzo che mi stava assai simpatico che mi strinse la mano, là al buio, sotto la coperta. E basta, fu tutto lì, per tutta l’estate.
Le stelle sono molto attente. E vogliono desideri ben precisi. Non si può essere vaghi e sciatti con le parole, quando ci si rivolge alle stelle. Lo scoprii nel 1996, l’anno successivo. Ero sul terrazzo degli altri nonni, un terrazzo che correva tutto intorno all’appartamento, dove amavo isolarmi fin da bambina, per giocare, per immaginare chissà che storie. Storie sempre più diverse, man mano che crescevo. A maggior ragione me ne stetti là la notte di San Lorenzo in attesa, stavolta da sola. Cadde una stella e con quella venne giù anche il solito tuffo al cuore: a una stella che si brucia cadendo non ci si abitua mai. Espressi un desiderio, dettagliatissimo. Si avverò, senza la minima sbavatura, neanche due settimane dopo. Ancora sorrido, quando ci penso, quando penso all’impeccabilità di quella stella.
Su quest’isola c’è troppa luce, troppo rumore, c’è troppo di tutto. Non c’è la pazienza dei luoghi bui, del silenzio, di ore passate a non fare nulla se non a guardare il cielo, in silenzio, per ore, in attesa di qualcosa che può anche non accadere. E probabilmente anche le stelle si devono essere stancate di ascoltare i pensieri, parola per parola, di prendere nota, di eseguire un desiderio alla lettera. O forse i pensieri sono ormai troppo impiastricciati, un desiderio litiga con un altro, non si sa a quale dare la precedenza. Oppure si fa fatica a trovarli, i desideri, in quella parte polverosa e caotica dei pensieri, dove tutto è stato ammucchiato senza cura, finito sotto cumuli di preoccupazioni, artifici, sorrisi a forza.
E la ragione di molti sogni si deve essere scolorita, o ha preso muffa. Forse.