Ci si allontana per vedere meglio, ci si allontana affinché le cose troppo vicine – quelle che strusciamo e urtiamo ogni giorno, con le braccia, con i piedi e con i pensieri – prendano contorni più nitidi, più spessi. Ci si allontana per distinguere tutte quelle cose che ci vivono addosso, a cui viviamo addosso, perché si sciolgano finalmente nei loro componenti, uno a uno, tanto quella massa raggelata di bisbigli altrui e nostri quanto quel blocco unico di impressioni d’oggi e mormorii di ieri, che mentre sono qui che scrivo si fanno distanti, sempre più distanti; ma non per questo sono meno limacciosi, meno urticanti, meno carichi di veleno.
Volevo scrivere su Malta ora che per qualche tempo la rivedrò solo strizzando lo sguardo; scrivere su di un’isola che una volta dipingevo di memorie turchine, di rumori di sassi verso discese che si aprivano su lidi luminosi e solitari, di parole abbacinanti come una luce che ancora non doleva all’occhio, di pasti col sole sulla tovaglia, di viaggi in autobus e appunti presi di sera, di preziosi imbarazzi.
Volevo scrivere di quest’isola di cui ho scritto e detto tanto a latitudini più alte, ma parlato sempre meno, man mano che i miei giorni sul suo suolo raggiungevano le quattro cifre. Volevo scrivere di un’isola di cui mi accorgo non scrivo e non parlo più se non con lo stesso amaro retrogusto di un caffè mal fatto, un caffè del dopo pranzo atteso con già un pezzo di cioccolata scura sul piattino, un caffè che si assaggia e poi si lascia quando ormai però è tardi, quei due sorsi sono già bastati per rovinarsi il palato. E neanche la cioccolata, a quel punto, va più di mangiarla.
E quindi nulla. Se parlare dell’isola si traduce ora in contorni frammisti, frusciare amaro di ricordi e prelibatezze lasciate sul piattino, allora di scriverne di nuovo non è ancora tempo.
O forse non lo è più.