
















“Che farai al termine della notte“, pubblicato quest’anno in italiano (con testo maltese a fronte) da Mesogea, la mia traduzione di “Klin u Kapriċċi Oħra”, di Adrian Grima, ha vinto il Premio Rilke, un premio internazionale (i libri arrivati erano ben 175).
Prima di leggere la traduzione italiana delle poesie, la mattina al Castello di Duino, avrei voluto ringraziare Adrian per la fiducia data nell’avermi affidato le sue poesie perché le portassi nella mia lingua, l’italiano che mi tengo dentro come una casa, forse l’unica casa che davvero mi appartiene. Ma poi non ho detto nulla.
E qui è quello che dovrei dire, e aggiungere “so proud of, and happy and thank you to everyone who made this possible, the translation fund, the house of publishing, the jury, the nice people who welcomed us in Trieste” – and I mean it, davvero, e chiudere con qualche altra cosa di dovere e che in questi casi si dice; e fermarmi qui. Ma con l’ufficialità delle cose sono sempre stata scarsa.
Questo era invece quello che mi girava in testa da giorni:
a Trieste ho portato un quadernetto assemblato e cucito nel corso di un laboratorio durante il primo Book Festival vissuto (poco, pochissimo) senza il riparo dello stand, dei libri fatti a mano e della voce di Z., del suo chiedermi, “Are you going to stay here? I will come back in 10 minutes”. Per te sarei rimasta anche tutto il giorno, tutti i giorni, ma per lasciarti fumare esitavo a darti anche solo un secondo e ti dicevo ogni volta: “You should quit smoking”. Tu, ovviamente, non mi davi retta. Quando mai. (Chissà se a tutti quelli che ti hanno pianto dopo, che ancora ti piangono, è mai venuto lo scrupolo di dirti lo stesso? Di mettere in secondo, terzo, quarto piano quello che volevano pubblicare, di pensare prima a te, al tuo tempo, al tuo respiro?)
Palacinke. Le crêpes pure a Trieste si chiamano così. Ho pensato spesso cosa avresti detto del premio, assegnato in questa città bella, ibrida, leggera e gentile, a picco sui margini di tante lingue, passaggi, vento, mare dello stesso colore della tinta su cui mi desti carta bianca per le persiane di Kixott – Oceano Pacifico era il nome del colore, e non so se mi piacesse più il tono o il nome – e montagne innevate, tutto in una manciata di colpi d’occhio, dove le cose da mangiare hanno nomi che conosco grazie a te e a Teodor Reljić e alle nostre giornate ora impossibili a Belgrado, che vista da qui è una città del sud.
Ho portato un quadernino fatto a mano, qui a Trieste, che in pochi giorni non era già più “qui”, mentre viaggiavo verso Milano da Chiara, amica di penna che mi ha raggiunto ovunque, e poi Torino a rifare Parigi per tre giorni, con la mia Elisa.
All’inizio del quadernino ho scritto (vista la necessità, per sciopero dei trasporti il 24 novembre, di prolungare il soggiorno a Trieste):
Cosa sono, di cosa sono fatte le giornate in più, quelle non previste, in una città?
La mia giornata in più mi ha regalato angoli e sguardi diversi di strade, palazzi e colori che avevo già guardato i giorni prima. E un modo diverso di sentirmi nei posti in cui ero già stata. L’incontro con una cugina che non vedevo da quindici anni, una storia di muffole letta a due bambine vivaci e curiose su un divano. La coscienza che non è ancora tempo di vivere al nord. Una strana insana voglia di Roma.
E mi è venuto in mente che forse le ore in più, quelle in cui avremmo dovuto essere già altrove, sono come la lingua nuova che le traduzioni regalano, non quella di partenza, ovviamente, ma neanche solo quella di arrivo, che ci sembra di aver già percorso infinite volte, ma che è invece un tragitto nuovo, un nuovo modo di sentirsi nelle parole.
E ora penso anche: per te che eri partito da Belgrado per la Libia, più di trenta anni fa, con l’idea che là saresti rimasto, il tempo a Malta, dove non avevi previsto di restare, ha avuto lo stesso sapore di una lunghissima traduzione?
